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Autore: Cassandra Morgana    15/07/2012    0 recensioni
Raccolta di Missing Moment su "Il bacio dell'aspide". Ogni shot è dedicata ad una vera o presunta coppia presente nella storia-madre.
- Bonus Track 1 (Andrea/Gabriele): restare soli alla casa dello studente nel week-end sotto Natale non è particolarmente piacevole. Tranne nel caso in cui qualcuno non abbia avuto la tua stessa idea.
- Bonus Track 2 (Andrea/Giulia): ambientata qualche mese prima degli eventi narrati nella storia madre. Isa prova a combinare al suo amico Andrea un appuntamento (non troppo) al buio.
- Bonus Track 3 (Andrea/Giulia/Sara): missing moment dal sapore più agro che dolce. Breve sipario su quanto Andrea dovesse apparire str... nel periodo pre-"conversione", e su come Gabriele abbia lentamente maturato il risentimento nei suoi confronti e il desiderio di distruggerlo. Threesome accennata.
- Bonus Track 4 (Alex/Isa): CRACK-PAIRING dichiarato. Isa ci prova con Alex per dispetto a Elena. Non mettendo in conto un filo di attrazione inconsapevole e del tutto imprevisto.
Genere: Angst, Erotico, Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: Lemon, Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: Threesome | Contesto: Scolastico
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Il bacio dell'aspide ~ la serie'
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Bonus Track 3

 

 

Titolo: “Voci spezzate”

Genere: Introspettivo

Pairing: Andrea/Giulia/Sara

Rating: n.c.15

Warning: angst, linguaggio, threesome (accennata)

 

 

novembre 2008

 

Non credo esattamente di detestarlo, dopotutto. Il mio coinquilino, Nicoletti. Cerco almeno di contenermi. Ma non quando me ne rientra alle due di notte, e ci fosse una sola volta che fa in modo di non svegliare mezzo quartiere.

Tu sei lì e cerchi disperatamente di prendere sonno. Conti le pecore, gli ornitorinchi e le volte in cui lui ti ha fatto girare le palle; fingi di sentire le onde del mare, che la luce dei lampioni sia la luna piena, il tuo letto un oceano d’ovatta in cui sprofondare… sempre più giù.

Invece no: ci pensa lui. A farti schizzare fino al soffitto.

Se non sapessi che tipo è, direi che lo fa apposta. A fare più casino possibile.

Lo sento. Le chiavi che girano nella toppa, uno strattone improvviso. Il clack della maniglia. Posso solo aspettare e anticipare ogni singolo movimento.

Andrea, tranquillo: stiamo lavorando per te – addio, Morfeo: è stato un piacere.

La porta che sbatte e mi rimbomba nella testa, perché è notte e ogni percezione si taglia con il coltello. Ci siamo quasi.

Gli anfibi da cinque chili l’uno sbattuti giù accanto alla porta come se gli bruciassero. No, non fa come tutte le persone normali che casualmente rientrano all’ora che gli fa comodo e casualmente dividono la propria residenza con altri… Ci mancherebbe. Lui ti si deve scolpire nella testa.

Okay, calma. Non è successo nulla. È stata un po’ di corrente. Adesso il tutto è serrare le palpebre e fingere che la luce del suo cellulare sia un prodotto dell’immaginazione.

Lo sento mentre smanetta sulla tastiera e ridacchia tra sé. Forse si è bevuto il cervello. Oppure parla al telefono, non riesco a capire – figurarsi quello che dice.

Adesso striscia fuori dalla stanza. Forse è stato un falso allarme, forse non c’è pericolo di trovarsi centrati in piena fronte da uno degli anfibi di cui sopra.

Un attimo, e lo scroscio familiare della doccia ridesta la mia attenzione. Il profumo del suo bagnoschiuma gusto di arsenico si spande in tutta la stanza. Incrocio le dita: magari finirà la sua benedetta doccia, se ne andrà a letto senza colpo ferire, e tutto finirà qui.

Spero non riprenda a parlare nel sonno. A buttarmi in faccia i cavoli suoi contro la sua stessa volontà. È… grottesco. Le cose che non sai di lui, tipo con chi scopa, te le ritrovi spiattellate sul muso senza che gliele abbia chieste. Alcune possono rivelarsi pure interessanti.

Penso di detestarlo, almeno un po’: glielo devo. È che è più forte di me. Avete presente un gatto acciambellato sulla poltrona che socchiude gli occhi e vi ignora per libera scelta? Ecco, peccato che i gatti sappiano farsi perdonare, al contrario di lui che ce la mette tutta per rendersi indigesto. Per non farti dimenticare con troppa facilità che condividete lo stesso pugno di metri quadrati.

È rientrato in camera. Perfetto: posso premere la faccia sul cuscino e fingere di dormire. Il suo letto è a pochi passi dal mio, il suo regno oltre il séparé e un piccolo armadio messo per traverso. Se apro gli occhi posso scorgere la lucina malevola del suo cellulare che lampeggia. Almeno la buona grazia di settarlo in modalità silenziosa…

No, che dico? Fosse finita qui…! Stavo per riaddormentarmi, ma in capo a qualche minuto il clangore della maniglia ha mandato a ramengo le più rosee previsioni su una notte all’insegna della pace dei sensi. Tragico errore d’impostazione. Perché, prima che me ne renda conto, due figure scivolano nell’ombra e, un istante dopo, è tutto un brulichio di risolini soffocati e molle del letto che cigolano.

- Andrea! – un sussurro.

- Sssttt!

Non so se facciano più casino loro a girargli intorno come trottole e bisbigliargli nelle orecchie, o lui che cerca di imporre il silenzio. E ridacchia. Sembrano ubriachi come spugne.

La curiosità è tanta che non posso fare a meno di aprire un occhio, con prudenza, e portare il mio sguardo oltre la piega del lenzuolo. Oltre il séparé che è lì solo di nome, e la schiena di Andrea. È lì, mi dà le spalle, avvolto nell’accappatoio. L’oscurità non è tanta da impedirmi di distinguere i contorni, le ombre che si addensano e la luce che emerge per contrasto, facendo guizzare la sua figura. I suoi capelli.

Ci sono anche loro, naturalmente. Una è Giulia, la bionda vistosa che gli sbava dietro dai tempi di Noè: posso distinguere il profilo della mascella forte. Si porta alle sue spalle tutta pimpante, ben intenzionata a lenirgli il principio di emicrania post-sbronza con un bel massaggio alla nuca. Poi, di botto, interrompe le manovre e si gira verso di me. Ho appena la prontezza di trattenere il respiro e sforzarmi di diventare un tutt’uno con il materasso, ma qualcosa di inspiegabile mi spinge a ricambiare il suo sguardo oltre lo schermo delle ciglia.

- Andre, ma con lui come la mettiamo?

- Oh, Derossi! – Andrea accenna a una risatina.

Poi ci ripensa e quasi si soffoca.

- Dorme… forse.

Non posso vederlo, ma sono sicuro che sta ammiccando.

- E quindi?

- E quindi… niente. Fa’ finta che sia un soprammobile o qualcosa del genere. Non è poi un grande sforzo… – altra risatina, una punta maligna.

Più tardi. Lo ammazzo più tardi. Aspetto che faccia giorno e gli salto alla gola.

Non lo so, davvero, non so cos’è che mi trattiene da scaraventarli giù per le scale.

- No, dai! – altra voce soffusa; stavolta riesco a malapena a capirne la provenienza – Io con uno che mi guarda, non ce la faccio proprio.

- Ti dico che dorme! – Andrea e la solita delicatezza da elefante nel negozio di cristalli – Sarà fumato come sempre, col cazzo che si sveglia! Manco le cannonate!

No. Penso che non aspetterò a domattina. Adesso mi alzo e lo soffoco col cuscino. Caccio via le due arpie e mi occupo di lui.

- Ma almeno è vivo?

Sara, ecco chi è la terza furia. Un po’ di tempo fa ci provava con me. Poi Isa ci ha messo lo zampino e litri di veleno, e da allora l’unico contatto umano si limita alle sue risatine alle mie spalle. Come se l’associazione di idee Derossi - gay sia il gotha della comicità.

- Ma chi se ne frega! – sbotta Andrea, acidissimo.

Punta le mani sui fianchi e scuote la testa, contrariato – adesso, in controluce, è quasi distinguibile; e anche se non la vedo bene, posso immaginarla, la sua gran faccia di cazzo. Forse teme che per stasera gli si neghi l’osso da addentare, il principino, e non vuole andare in bianco. Deve apparire figo, sfacciato e sicuro di sé: è nelle regole del gioco. E lui è uno di loro: non può sfigurare.

Adesso ridacchia, la voce strascicata che promette catastrofi.

- Secondo te mi importa qualcosa, se ci vede? Che scopiamo alla faccia sua? Per me ci può crepare, su quel letto!

No, questa decisamente no.

Silenzio di tomba. Gelo. Non si è mossa una piuma, da quando ha parlato. Persino le due gufe impagliate sono rimaste pietrificate ai piedi del letto… O forse è la mia impressione. La fitta al cuore mi fa rivivere le sue parole all’infinito, come una moviola impazzita nella mia testa.

E tu calma, Gabriele. Adesso, calma. Lo scalpo glielo fai più tardi. Più tardi. Adesso ti concentri e provi a ricordarti com’è che si fa a respirare normalmente. È facile: a furia di frugare, qualcosa verrà in mente. Sta’ calmo. Niente gesti avventati, niente piazzate improduttive.

Il fatto è che una coltellata allo sterno sarebbe stata una morte più dignitosa – più immediata e meno crudele.

No, non era abbastanza. Non era abbastanza innamorarmi di un deficiente contro la mia volontà.

Non era abbastanza che suddetto deficiente mi levasse il sonno, e lo facesse pure portandosi dietro le fortunate di turno per una pomiciata d’onore.

Non era abbastanza stare lì a guardare, o almeno a sentire, l’imbarazzo come una camicia di forza: troppo, per alzarmi e dirgli di andare a scopare da un’altra parte: mi avrebbe dato dello sfigato invidioso, del moralista complessato, e avrebbe fatto spallucce.

Non era abbastanza usarmi come antistress personalizzato, affondare le unghie nella carne scoperta e pregare affinché mi smaterializzi all’istante dalla sua vista, da questa stanza o dalla faccia della terra, così che lui possa coltivare i cazzi suoi in santa pace.

È importante che lui si rotoli nel letto con le due sgallettate raccattate chissà dove, e dimostrare urbi et orbi che, maledizione, lui non è mica gay, come qualcuno inizia a sospettare. È questo: cancellare le impronte ora che la frittata è fatta, e lo sa lui e lo so anch’io. Deve destreggiarsi nel suo nido di vipere, e poco importa di chi si metterà sotto i tacchi.

Fottuto ipocrita. Fottuto pagliaccio che non ha nemmeno il coraggio delle sue azioni: preferisce delegare ad altri, imbastire una farsa perenne, muoversi nell’ombra e persino pugnalarti. Marciare sul tuo cadavere.

Calma, Gabriele.

Cos’è quel tic improvviso che ti contrae i muscoli della faccia, cos’è quel formicolio alle palpebre, quelle lacrime senza senso?

Non è successo niente. Un fottutissimo niente.

Ti è entrato qualcosa in un occhio, è così, può capitare a tutti. Pure con la faccia sepolta sotto il lenzuolo. Non è successo nulla. Quelle non sono lacrime, e Nicoletti non ha mai parlato, non ha mai pronunciato il tuo nome. Non è mai esistito.

Adesso, da bravo, ti asciughi il muso, e tutto torna magicamente come prima.

Posso davvero creparci su questo letto, perché tu te lo faccia succhiare in santa pace?

Non so se domani mattina sarai dello stesso pensiero. Non so chi sei, Andrea. Quale dei due? Sei una scatola chiusa. Non so se è vero quel sorriso, quel “buongiorno” che mi sputi in faccia ogni mattina, o se è questa la tua vera faccia. Dell’uomo che non deve chiedere mai. Che segue le regole del branco e non sgarra. Che se ne frega di tutti e ti pugnala a morte quando gli sei d’intralcio, pure per motivi banali. Deve vincere come uomo, schiacciarti sotto le scarpe.

Vaffanculo.

Cos’è, cos’è questa stretta al cuore? Questo gelo in fondo allo stomaco che mi impedisce quasi di respirare?

Sto male, scivolo più in basso e ho paura che stavolta non passerà più. Il morso che non se ne andrà mai: resterà lì, come un nodo allo stomaco, come un ammasso di ghiaccio stretto intorno alla gola.

Ho voglia di scaraventarlo contro il muro, Nicoletti. Di fargli male. Di sputargli in faccia e dirgli quanto mi fa vomitare lui e la sua corte di serpenti. Si acquattano sotto i sassi e ti mordono a tradimento. Pretendono che il mondo si modelli al loro modo contorto di leggere ciò che li circonda: è tutto troppo insignificante per meritare la loro attenzione, il loro rispetto. Non si accontentano di punzecchiarti, di guardarti dall’alto in basso: devono farti sentire merda, spogliarti di tutto. Sei una piccola pulce che ha osato incrociare la loro strada e interferire.

Hai mai giocato pulito in vita tua, Andrea? Sei mai stato coerente con te stesso? Di’ che ti sto sul cazzo, e facciamola finita qui: non nasconderti dietro la tua faccia pulita. Non giocare al gioco di chi non ti conosce, ma ha puntato il suo regno su di te. Tu non sei come loro. Sei semplicemente peggio.

 

Non so quanto sia durata. Non so quanto tempo è passato, cercando di soffocare il respiro contro il cuscino. Non posso sussultare senza controllo, non posso muovermi. L’unico imperativo, categorico, è ricacciare indietro quelle quattro lacrime inutili e smetterla di rendermi più patetico di loro. Vorrei piangere, ma dopo starei peggio, la stretta al cuore non se ne andrebbe. Con l’aggravante che dovrei ammettere a me stesso fino a che punto mi sia legato mani e piedi ai suoi mutevoli stati d’animo.

Nicoletti non piange per te. Nicoletti è la copia sputata dei bulli del cazzo di cui si circonda, e calpesterebbe sua madre pur di soddisfare un capriccio idiota. Non sono diversi.

- Senti, Andre… Se vuoi, camera mia è libera.

Mascellona ha parlato. Pensate a Ridge di “Beautiful” con una parrucca ossigenata, e avrete lei. La tirapiedi di Isa, la principessa ereditaria. La odio: giuro che non mi ha fatto nulla – almeno, che sappia –, eppure mi dà un senso di viscido.

- Non potevi dirlo prima? – Andrea salta su come se qualcosa gli abbia punto le chiappe.

Spero uno scorpione.

- Andiamo?

- Il tempo di vestirmi… – di nuovo lui, sarcastico.

Scazzato come se stesse facendo un favore all’umanità nel portare il suo preziosissimo culo fuori di qui.

Due secondi due, e sono già scomparsi – trascinano i piedi e si tirano la porta alle spalle. Con la loro selva di mormorii idioti.

Adesso posso respirare. Urlargli di andare all’inferno.

Non riderei al tuo posto, Nicoletti. È divertente comportarti da stronzetto sbruffone ventiquattro ore su ventiquattro, come una brutta parodia di se stesso? Un vigliacchetto senza palle, buono solo a sputare dall’alto della torre, disposto a cedere il suo corpo al miglior offerente per dimostrare di non essere un “anormale”? Di non aver nulla da invidiare a un Alberti qualunque? C’è solo del patetico. Del patetico da sommarsi al ridicolo.

Potrei dormire, adesso. Se questa costrizione al petto se ne andasse. Mi ha preso e non va più via. Sto da schifo. È come un nodo d’angoscia, un ribollio nauseante. Posso contare gli schiaffi che Nicoletti meriterebbe, e cercare di dormire. Oppure dimenticarmi che esiste.

‘fanculo.

 

* * *

 

Andrea ha appena fatto capolino in camera. Allora esiste davvero: non faceva parte dell’incubo. Maledetta insonnia… Devo essere crollato alle prime luci dell’alba, e adesso eccomi qui. Più morto che vivo alle sette meno un quarto di un mattino da condannati.

Detesto l’idea che il fango uscito dalla sua bocca abbia avuto la forza di scalfirmi. Non così. Non da ridurmi gli occhi a due fessure gonfie e la voglia di mettere il naso fuori di qui ai minimi storici. Preferirei morire.

È appena rientrato dalla sua notte brava, una faccia da pesce lesso indescrivibile, palpebre calanti, occhiaie fino alle ginocchia, capelli sconvolti. Ma se io sembro pronto per il suicidio rituale, lui sprizza adrenalina da tutti i pori e ha solo una faccia da sonno, la faccia di chi questa notte se l’è goduta, di chi sa stare al mondo, di chi sa scendere al giusto compromesso con la giungla che lo circonda.

Non so come sia finita con quelle due e non voglio nemmeno saperlo. Mi è bastato il breve fotogramma sui capelli biondi di Giulia sparsi sul suo petto. Il risucchio inconfondibile di un succhiotto e gli ansiti in sottofondo. Poi si sono fermati, hanno raccattato i loro stracci e tolto il disturbo.

- Fumi già di primo mattino?

Obbedisci, Gabriele. Continua a guardar fuori dalla finestra. Non ha parlato veramente, lo stronzo. È solo frutto della tua immaginazione, è il vento, e tu hai sentito male. Voci lontane, uno strano miagolio. E questo è fottuto, comunissimo tabacco.

Non ho abbastanza stomaco per guardarlo negli occhi: solo di sibilare contro il vetro che mi fa da specchio, e studiarmi la sua faccia.

- I cazzi tuoi, mai? – uno stappo secco, stavolta: come estrarsi un dente.

- Ehi! – Andrea trasale; sembra spaesato – Mi dici che ti ho fatto, stavolta?

Solleva un sopracciglio e sembra chiedersi se non abbia capito male. Però ha mosso un paio di passi indietro, come se temesse l’esplosione. Non è abituato a essere trattato come l’ultimo degli stronzi, lui.

Non ti avvicinare, Andrea. Non fare un altro passo.

Cosa mi hai fatto…?

- Non ti senti bene? Ti sei svegliato con lo scazzo in tasca?

Sì, scherza pure, bravo… Magari lo fa apposta. È così: lo fa apposta. O è cretino senza rimedio.

Non dire altro, Andrea. Perché qualunque parola è superflua. Per non dire nociva.

In silenzio, sfilo davanti a lui. Afferro la borsa con uno strattone e punto verso l’uscita. Non ho contato i passi. Ho evitato la sua faccia fino a farmi violenza fisica. E non gli ho rivolto parola.

- Gabriele, mi aspetti? Mi spieghi perché ce l’hai con me?

Chi ti ha detto che ce l’ho con te? Mi piacerebbe vederti spiaccicato contro il vetro, sarebbe molto estetico. Ma ti giuro che non ce l’ho con te.

Chiudo la porta. Solo per miracolo non gliela schianto sul muso: non ho calcolato bene i tempi, e quasi mi dispiace.

Aria, finalmente.

Non mi seguirà in corridoio e giù al bar: è molto presto e non c’è ancora nessuno in giro, ma metti che lo veda qualche suo amichetto e pensi che si stia rammollendo. Socializzando con dei comuni mortali…

C’è un silenzio strano, una cappa lattiginosa che ti spara in faccia luci e colori in un impasto confuso, ogni suono amplificato dal silenzio irreale; tanto che mi pare di sentirlo accasciarsi contro la porta chiusa. Un debole tonfo contro il legno, come se si fosse lasciato andare di peso, fino a terra – posso vedere la sua ombra dalla fessura in basso. Respira contro il muro – lo sento come se mi respirasse addosso.

Nella nebbia che mi imbroglia la mente, un sospiro al di là della barriera. Una specie di singhiozzo e un fremito, come se tirasse su col naso. La sua voce arriva spezzata, ovattata oltre il legno, ma intensa come uno schiaffo.

- Mi dispiace…

No, Andrea, non ti dispiace. Troppo tardi. Stavolta hai scelto tu.

 

 

   
 
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