Bonus
Track 3
Titolo:
“Voci
spezzate”
Genere:
Introspettivo
Pairing: Andrea/Giulia/Sara
Rating: n.c.15
Warning: angst, linguaggio, threesome (accennata)
novembre
2008
Non
credo esattamente di detestarlo, dopotutto. Il mio coinquilino, Nicoletti. Cerco
almeno di contenermi. Ma non quando me ne rientra alle due di notte, e ci fosse
una sola volta che fa in modo di non
svegliare mezzo quartiere.
Tu
sei lì e cerchi disperatamente di prendere sonno. Conti le pecore, gli
ornitorinchi e le volte in cui lui ti
ha fatto girare le palle; fingi di sentire le onde del mare, che la luce dei
lampioni sia la luna piena, il tuo letto un oceano d’ovatta in cui sprofondare…
sempre più giù.
Invece
no: ci pensa lui. A farti schizzare fino al soffitto.
Se
non sapessi che tipo è, direi che lo fa apposta. A fare più casino
possibile.
Lo
sento. Le chiavi che girano nella toppa, uno strattone improvviso. Il clack della maniglia. Posso solo
aspettare e anticipare ogni singolo movimento.
Andrea,
tranquillo: stiamo lavorando per te – addio, Morfeo: è stato un
piacere.
La
porta che sbatte e mi rimbomba nella testa, perché è notte e ogni percezione si
taglia con il coltello. Ci siamo quasi.
Gli
anfibi da cinque chili l’uno sbattuti giù accanto alla porta come se gli
bruciassero. No, non fa come tutte le persone normali che casualmente rientrano all’ora che gli fa
comodo e casualmente dividono la
propria residenza con altri… Ci mancherebbe. Lui ti si deve scolpire nella
testa.
Okay,
calma. Non è successo nulla. È stata un po’ di corrente. Adesso il tutto è
serrare le palpebre e fingere che la luce del suo cellulare sia un prodotto
dell’immaginazione.
Lo
sento mentre smanetta sulla tastiera e ridacchia tra sé. Forse si è bevuto il
cervello. Oppure parla al telefono, non riesco a capire – figurarsi quello che
dice.
Adesso
striscia fuori dalla stanza. Forse è stato un falso allarme, forse non c’è
pericolo di trovarsi centrati in piena fronte da uno degli anfibi di cui
sopra.
Un
attimo, e lo scroscio familiare della doccia ridesta la mia attenzione. Il
profumo del suo bagnoschiuma gusto di arsenico si spande in tutta la stanza.
Incrocio le dita: magari finirà la sua benedetta doccia, se ne andrà a letto
senza colpo ferire, e tutto finirà qui.
Spero
non riprenda a parlare nel sonno. A buttarmi in faccia i cavoli suoi contro la
sua stessa volontà. È… grottesco. Le cose che non sai di lui, tipo con chi
scopa, te le ritrovi spiattellate sul muso senza che gliele abbia chieste.
Alcune possono rivelarsi pure interessanti.
Penso
di detestarlo, almeno un po’: glielo devo. È che è più forte di me. Avete
presente un gatto acciambellato sulla poltrona che socchiude gli occhi e vi
ignora per libera scelta? Ecco, peccato che i gatti sappiano farsi perdonare, al
contrario di lui che ce la mette tutta per rendersi indigesto. Per non farti
dimenticare con troppa facilità che condividete lo stesso pugno di metri
quadrati.
È
rientrato in camera. Perfetto: posso premere la faccia sul cuscino e fingere di
dormire. Il suo letto è a pochi passi dal mio, il suo regno oltre il séparé e un
piccolo armadio messo per traverso. Se apro gli occhi posso scorgere la lucina
malevola del suo cellulare che lampeggia. Almeno la buona grazia di settarlo in
modalità silenziosa…
No,
che dico? Fosse finita qui…! Stavo per riaddormentarmi, ma in capo a qualche
minuto il clangore della maniglia ha mandato a ramengo le più rosee previsioni
su una notte all’insegna della pace dei sensi. Tragico errore d’impostazione.
Perché, prima che me ne renda conto, due figure scivolano nell’ombra e, un
istante dopo, è tutto un brulichio di risolini soffocati e molle del letto che
cigolano.
-
Andrea! – un sussurro.
-
Sssttt!
Non
so se facciano più casino loro a
girargli intorno come trottole e bisbigliargli nelle orecchie, o lui che cerca
di imporre il silenzio. E ridacchia. Sembrano ubriachi come
spugne.
La
curiosità è tanta che non posso fare a meno di aprire un occhio, con prudenza, e
portare il mio sguardo oltre la piega del lenzuolo. Oltre il séparé che è lì
solo di nome, e la schiena di Andrea. È lì, mi dà le spalle, avvolto
nell’accappatoio. L’oscurità non è tanta da impedirmi di distinguere i contorni,
le ombre che si addensano e la luce che emerge per contrasto, facendo guizzare
la sua figura. I suoi capelli.
Ci
sono anche loro, naturalmente. Una è Giulia, la bionda vistosa che gli sbava
dietro dai tempi di Noè: posso distinguere il profilo della mascella forte. Si
porta alle sue spalle tutta pimpante, ben intenzionata a lenirgli il principio
di emicrania post-sbronza con un bel massaggio alla nuca. Poi, di botto,
interrompe le manovre e si gira verso di me. Ho appena la prontezza di
trattenere il respiro e sforzarmi di diventare un tutt’uno con il materasso, ma
qualcosa di inspiegabile mi spinge a ricambiare il suo sguardo oltre lo schermo
delle ciglia.
-
Andre, ma con lui come la
mettiamo?
-
Oh, Derossi! – Andrea accenna a una risatina.
Poi
ci ripensa e quasi si soffoca.
-
Dorme… forse.
Non
posso vederlo, ma sono sicuro che sta ammiccando.
- E
quindi?
- E
quindi… niente. Fa’ finta che sia un soprammobile o qualcosa del genere. Non è
poi un grande sforzo… – altra risatina, una punta maligna.
Più
tardi. Lo ammazzo più tardi. Aspetto che faccia giorno e gli salto alla
gola.
Non
lo so, davvero, non so cos’è che mi trattiene da scaraventarli giù per le
scale.
-
No, dai! – altra voce soffusa; stavolta riesco a malapena a capirne la
provenienza – Io con uno che mi guarda, non ce la faccio
proprio.
-
Ti dico che dorme! – Andrea e la solita delicatezza da elefante nel negozio di
cristalli – Sarà fumato come sempre, col cazzo che si sveglia! Manco le
cannonate!
No.
Penso che non aspetterò a domattina. Adesso mi alzo e lo soffoco col cuscino.
Caccio via le due arpie e mi occupo di lui.
-
Ma almeno è vivo?
Sara,
ecco chi è la terza furia. Un po’ di tempo fa ci provava con me. Poi Isa ci ha
messo lo zampino e litri di veleno, e da allora l’unico contatto umano si limita
alle sue risatine alle mie spalle. Come se l’associazione di idee Derossi - gay sia il gotha della
comicità.
-
Ma chi se ne frega! – sbotta Andrea, acidissimo.
Punta
le mani sui fianchi e scuote la testa, contrariato – adesso, in controluce, è
quasi distinguibile; e anche se non la vedo bene, posso immaginarla, la sua gran
faccia di cazzo. Forse teme che per stasera gli si neghi l’osso da addentare, il
principino, e non vuole andare in bianco. Deve apparire figo, sfacciato e sicuro
di sé: è nelle regole del gioco. E lui è uno di loro: non può
sfigurare.
Adesso
ridacchia, la voce strascicata che promette catastrofi.
-
Secondo te mi importa qualcosa, se ci vede? Che scopiamo alla faccia sua? Per me
ci può crepare, su quel letto!
No,
questa decisamente no.
Silenzio
di tomba. Gelo. Non si è mossa una piuma, da quando ha parlato. Persino le due
gufe impagliate sono rimaste pietrificate ai piedi del letto… O forse è la mia
impressione. La fitta al cuore mi fa rivivere le sue parole all’infinito, come
una moviola impazzita nella mia testa.
E
tu calma, Gabriele. Adesso, calma. Lo scalpo glielo fai più tardi. Più tardi.
Adesso ti concentri e provi a ricordarti com’è che si fa a respirare
normalmente. È facile: a furia di frugare, qualcosa verrà in mente. Sta’ calmo.
Niente gesti avventati, niente piazzate improduttive.
Il
fatto è che una coltellata allo sterno sarebbe stata una morte più dignitosa –
più immediata e meno crudele.
No,
non era abbastanza. Non era abbastanza innamorarmi di un deficiente contro la
mia volontà.
Non
era abbastanza che suddetto deficiente mi levasse il sonno, e lo
facesse pure portandosi dietro le fortunate di turno per una pomiciata
d’onore.
Non
era abbastanza stare lì a guardare, o almeno a sentire, l’imbarazzo come una
camicia di forza: troppo, per alzarmi e dirgli di andare a scopare da un’altra
parte: mi avrebbe dato dello sfigato invidioso, del moralista complessato, e
avrebbe fatto spallucce.
Non
era abbastanza usarmi come antistress personalizzato, affondare le unghie nella
carne scoperta e pregare affinché mi smaterializzi all’istante dalla sua vista,
da questa stanza o dalla faccia della terra, così che lui possa coltivare i
cazzi suoi in santa pace.
È
importante che lui si rotoli nel letto con le due sgallettate raccattate chissà
dove, e dimostrare urbi et orbi che, maledizione, lui non è mica gay, come
qualcuno inizia a sospettare. È questo: cancellare le impronte ora che la
frittata è fatta, e lo sa lui e lo so anch’io. Deve destreggiarsi nel suo nido
di vipere, e poco importa di chi si metterà sotto i
tacchi.
Fottuto
ipocrita. Fottuto pagliaccio che non ha nemmeno il coraggio delle sue azioni:
preferisce delegare ad altri, imbastire una farsa perenne, muoversi nell’ombra e
persino pugnalarti. Marciare sul tuo cadavere.
Calma,
Gabriele.
Cos’è
quel tic improvviso che ti contrae i muscoli della faccia, cos’è quel formicolio
alle palpebre, quelle lacrime senza senso?
Non
è successo niente. Un fottutissimo niente.
Ti
è entrato qualcosa in un occhio, è così, può capitare a tutti. Pure con la
faccia sepolta sotto il lenzuolo. Non è successo nulla. Quelle non sono lacrime,
e Nicoletti non ha mai parlato, non ha mai pronunciato il tuo nome. Non è mai
esistito.
Adesso,
da bravo, ti asciughi il muso, e tutto torna magicamente come
prima.
Posso
davvero creparci su questo letto, perché tu te lo faccia succhiare in santa
pace?
Non
so se domani mattina sarai dello stesso pensiero. Non so chi sei, Andrea. Quale
dei due? Sei una scatola chiusa. Non so se è vero quel sorriso, quel
“buongiorno” che mi sputi in faccia ogni mattina, o se è questa la tua vera faccia. Dell’uomo che
non deve chiedere mai. Che segue le regole del branco e non sgarra. Che se ne
frega di tutti e ti pugnala a morte quando gli sei d’intralcio, pure per motivi
banali. Deve vincere come uomo, schiacciarti sotto le
scarpe.
Vaffanculo.
Cos’è,
cos’è questa stretta al cuore? Questo gelo in fondo allo stomaco che mi
impedisce quasi di respirare?
Sto
male, scivolo più in basso e ho paura che stavolta non passerà più. Il morso che
non se ne andrà mai: resterà lì, come un nodo allo stomaco, come un ammasso di
ghiaccio stretto intorno alla gola.
Ho
voglia di scaraventarlo contro il muro, Nicoletti. Di fargli male. Di sputargli
in faccia e dirgli quanto mi fa vomitare lui e la sua corte di serpenti. Si
acquattano sotto i sassi e ti mordono a tradimento. Pretendono che il mondo si
modelli al loro modo contorto di leggere ciò che li circonda: è tutto troppo
insignificante per meritare la loro attenzione, il loro rispetto. Non si
accontentano di punzecchiarti, di guardarti dall’alto in basso: devono farti
sentire merda, spogliarti di tutto. Sei una piccola pulce che ha osato
incrociare la loro strada e interferire.
Hai
mai giocato pulito in vita tua, Andrea? Sei mai stato coerente con te stesso?
Di’ che ti sto sul cazzo, e facciamola finita qui: non nasconderti dietro la tua
faccia pulita. Non giocare al gioco di chi non ti conosce, ma ha puntato il suo
regno su di te. Tu non sei come loro. Sei semplicemente peggio.
Non
so quanto sia durata. Non so quanto tempo è passato, cercando di soffocare il
respiro contro il cuscino. Non posso sussultare senza controllo, non posso
muovermi. L’unico imperativo, categorico, è ricacciare indietro quelle quattro
lacrime inutili e smetterla di rendermi più patetico di loro. Vorrei piangere,
ma dopo starei peggio, la stretta al cuore non se ne andrebbe. Con l’aggravante
che dovrei ammettere a me stesso fino a che punto mi sia legato mani e piedi ai
suoi mutevoli stati d’animo.
Nicoletti
non piange per te. Nicoletti è la copia sputata dei bulli del cazzo di cui si
circonda, e calpesterebbe sua madre pur di soddisfare un capriccio idiota. Non
sono diversi.
-
Senti, Andre… Se vuoi, camera mia è libera.
Mascellona
ha parlato. Pensate a Ridge di “Beautiful” con una parrucca ossigenata, e avrete
lei. La tirapiedi di Isa, la principessa ereditaria. La odio: giuro che non mi
ha fatto nulla – almeno, che sappia –, eppure mi dà un senso di
viscido.
-
Non potevi dirlo prima? – Andrea salta su come se qualcosa gli abbia punto le
chiappe.
Spero
uno scorpione.
-
Andiamo?
-
Il tempo di vestirmi… – di nuovo lui, sarcastico.
Scazzato
come se stesse facendo un favore all’umanità nel portare il suo preziosissimo
culo fuori di qui.
Due
secondi due, e sono già scomparsi – trascinano i piedi e si tirano la porta alle
spalle. Con la loro selva di mormorii idioti.
Adesso
posso respirare. Urlargli di andare all’inferno.
Non
riderei al tuo posto, Nicoletti. È divertente comportarti da stronzetto
sbruffone ventiquattro ore su ventiquattro, come una brutta parodia di se
stesso? Un vigliacchetto senza palle, buono solo a sputare dall’alto della
torre, disposto a cedere il suo corpo al miglior offerente per dimostrare di non
essere un “anormale”? Di non aver nulla da invidiare a un Alberti qualunque? C’è
solo del patetico. Del patetico da sommarsi al ridicolo.
Potrei
dormire, adesso. Se questa costrizione al petto se ne andasse. Mi ha preso e non
va più via. Sto da schifo. È come un nodo d’angoscia, un ribollio nauseante.
Posso contare gli schiaffi che Nicoletti meriterebbe, e cercare di dormire.
Oppure dimenticarmi che esiste.
‘fanculo.
* *
*
Andrea
ha appena fatto capolino in camera. Allora esiste davvero: non faceva parte
dell’incubo. Maledetta insonnia… Devo essere crollato alle prime luci dell’alba,
e adesso eccomi qui. Più morto che vivo alle sette meno un quarto di un mattino
da condannati.
Detesto
l’idea che il fango uscito dalla sua bocca abbia avuto la forza di scalfirmi.
Non così. Non da ridurmi gli occhi a due fessure gonfie e la voglia di mettere
il naso fuori di qui ai minimi storici. Preferirei morire.
È
appena rientrato dalla sua notte brava, una faccia da pesce lesso
indescrivibile, palpebre calanti, occhiaie fino alle ginocchia, capelli
sconvolti. Ma se io sembro pronto per il suicidio rituale, lui sprizza
adrenalina da tutti i pori e ha solo una faccia da sonno, la faccia di chi
questa notte se l’è goduta, di chi sa stare al mondo, di chi sa scendere al
giusto compromesso con la giungla che lo circonda.
Non
so come sia finita con quelle due e non voglio nemmeno saperlo. Mi è bastato il
breve fotogramma sui capelli biondi di Giulia sparsi sul suo petto. Il risucchio
inconfondibile di un succhiotto e gli ansiti in sottofondo. Poi si sono fermati,
hanno raccattato i loro stracci e tolto il disturbo.
-
Fumi già di primo mattino?
Obbedisci,
Gabriele. Continua a guardar fuori dalla finestra. Non ha parlato veramente, lo
stronzo. È solo frutto della tua immaginazione, è il vento, e tu hai sentito
male. Voci lontane, uno strano miagolio. E questo è fottuto, comunissimo
tabacco.
Non
ho abbastanza stomaco per guardarlo negli occhi: solo di sibilare contro il
vetro che mi fa da specchio, e studiarmi la sua faccia.
- I
cazzi tuoi, mai? – uno stappo secco, stavolta: come estrarsi un
dente.
-
Ehi! – Andrea trasale; sembra spaesato – Mi dici che ti ho fatto,
stavolta?
Solleva
un sopracciglio e sembra chiedersi se non abbia capito male. Però ha mosso un
paio di passi indietro, come se temesse l’esplosione. Non è abituato a essere
trattato come l’ultimo degli stronzi, lui.
Non
ti avvicinare, Andrea. Non fare un altro passo.
Cosa
mi hai fatto…?
-
Non ti senti bene? Ti sei svegliato con lo scazzo in
tasca?
Sì,
scherza pure, bravo…
Magari lo fa apposta. È così: lo fa apposta. O è cretino senza
rimedio.
Non
dire altro, Andrea. Perché qualunque parola è superflua. Per non dire
nociva.
In
silenzio, sfilo davanti a lui. Afferro la borsa con uno strattone e punto verso
l’uscita. Non ho contato i passi. Ho evitato la sua faccia fino a farmi violenza
fisica. E non gli ho rivolto parola.
-
Gabriele, mi aspetti? Mi spieghi perché ce l’hai con me?
Chi
ti ha detto che ce l’ho con te? Mi piacerebbe vederti spiaccicato contro il
vetro, sarebbe molto estetico. Ma ti giuro che non ce l’ho con
te.
Chiudo
la porta. Solo per miracolo non gliela schianto sul muso: non ho calcolato bene
i tempi, e quasi mi dispiace.
Aria,
finalmente.
Non
mi seguirà in corridoio e giù al bar: è molto presto e non c’è ancora nessuno in
giro, ma metti che lo veda qualche suo amichetto e pensi che si stia
rammollendo. Socializzando con dei comuni mortali…
C’è
un silenzio strano, una cappa lattiginosa che ti spara in faccia luci e colori
in un impasto confuso, ogni suono amplificato dal silenzio irreale; tanto che mi
pare di sentirlo accasciarsi contro la porta chiusa. Un debole tonfo contro il
legno, come se si fosse lasciato andare di peso, fino a terra – posso vedere la
sua ombra dalla fessura in basso. Respira contro il muro – lo sento come se mi
respirasse addosso.
Nella
nebbia che mi imbroglia la mente, un sospiro al di là della barriera. Una specie
di singhiozzo e un fremito, come se tirasse su col naso. La sua voce arriva
spezzata, ovattata oltre il legno, ma intensa come uno
schiaffo.
-
Mi dispiace…
No,
Andrea, non ti dispiace. Troppo tardi. Stavolta hai scelto
tu.