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Autore: eloise de winter    16/07/2012    4 recensioni
Robin aveva un nome da maschio e la sua famiglia era di sangue irlandese, ma lei aveva, a differenza di tutti i suoi parenti, i capelli color cioccolato e gli occhi verdi.
Ogni volta che guardava allo specchio le sue iridi le veniva in mente una singola frase, letta chissà dove:
“L’invidia è un mostro dagli occhi verdi .“
Mai frase fu più azzeccata.
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Gli alamari d’argento erano ben chiusi, ma il mantello ondeggiava in simbiosi con il movimento del mio corpo mentre camminavo, la croce nell’incavo dei seni catturava la luce delle candele accese dappertutto e la rifletteva, le gonne accompagnavano il mio incedere con il loro dolce fruscio, lasciando intravvedere gli orli delle sottogonne candide sotto il nero dei veli di gonne e pizzo.
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Gothic-Fantasy
Genere: Dark | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il Ballo delle Croci

 

 
 
Una ragazza in sella ad una vecchia bici nera da uomo, un poco scrostata e arrugginita, si faceva largo tra la coda di macchine con uno slalom spericolato, che le aveva causato non poche gentili espressioni di disappunto da parte di automobilisti non molto amichevoli.
 
Nonostante le sue prodezze sul sellino, era comunque in ritardo, come al solito.
 
Le risuonò in testa la frase che il padre -avvocato divorzista e snob fino all’ultimo capello- le ripeteva sempre: “Arrivare in orario o addirittura in anticipo, inorridisco al solo pensiero, è così da provinciali!”
 
Sbuffò, suo padre a volte si rendeva insopportabile perfino a lei.
 
Ma era comunque in ritardo.
 
Del resto, lei era nata in ritardo! Mai che fosse in orario o addirittura in anticipo! Si odiava per questo, ma era più forte di lei, non si ricordava una volta in cui fosse arrivata puntuale.
 
Bah.
 
Evitando di un pelo una Golf metallizzata riuscì ad imbucarsi con la sua vecchia bicicletta nel cortile della scuola, sentendo la campanella suonare smontò dal suo rudere di veicolo e lo appoggiò –lanciò- al muro scrostato, senza neanche legarla. Chi avrebbe infatti mai anche solo pensato di rubare il sopracitato rottame?
 
Si lanciò su per le scale –perché diavolo la sua classe era all’ultimo piano?- sotto lo sguardo stupefatto di docenti e bidelli, era tremendamente in ritardo, diamine!
 
Arrivata davanti alla porta degli Inferi –ergo la sua classe-  si ricordò che fortunatamente alla prima ora c’era Scienze, quindi poteva entrare tranquillamente passeggiando indisturbata e quella vecchia bacucca pelata e con riporto non si sarebbe accorta di niente.
 
Per precauzione fu comunque attenta a non far cigolare i cardini, e si avviò silenziosa al suo banco.
 
I compagni le lanciarono un’occhiata veloce, ormai si erano abituati ai suoi ritardi cronici, e poi lei con un semplice sorrisetto si faceva perdonare.
 
Oh, Robin O’Connor non era certo il tipo di ragazza popolare, bella, talentuosa e molti altri sinonimi, come lo era sua sorella Faith, passava semplicemente inosservata ai più, oscurata dalla sorella perfetta.
 
Non ne faceva un dramma, preferiva per lo più stare da sola, ma aveva sempre dentro come un ago conficcato nello stomaco che si rigirava e affondava sempre più ogni qual volta vedeva la gemella.
 
Non erano delle vere gemelle, loro due, erano eterozigoti e per questo erano totalmente diverse, in tutto e per tutto.
 
Robin era semplicemente una bella ragazza, Faith era La Ragazza per eccellenza, lo stereotipo al fianco del quale tutto il resto del mondo era…insignificante e sbagliato, privo di ogni attrattiva.
 
Sua sorella ne era consapevole, almeno in parte. Era come una sirena, attirava gli uomini ma non provava alcunché per loro,  era disinteressata.
 
Più che all’amore e al cuore degli uomini, lei aspirava a catalizzarne totalmente l’attenzione. Voleva che si parlasse di lei, senza però esserne coinvolta. Era bella Faith, un rossa dagli occhi scuri e la pelle chiara, un corpo perfetto ed una voce melodiosa e ipnotizzante.
 
Ciò che però era la sua vera arma, era il suo buongusto in tutto. Era sempre perfetta nel suo stile, al passo con la moda e con i tempi.
 
Se Faith era tutto ciò, Robin ne era esattamente agli antipodi.
 
Non era affatto alla moda, le piaceva vestire vintage, con pizzi, merletti e pantaloni a vita alta, l’unico lusso che si concedeva erano le scarpe: delle francesine chiuse tacco dodici, ne aveva di tutti i modelli e colori.
 
Aveva anche un debole per i cappelli da uomo e le mise che comprendessero dei chiodi di pelle nera abbinati a magliettine o pantaloncini di pizzo a vita alta –qualunque ne fosse il colore-.
 
Era il suo stile, le calzava a pennello, ma nessuno sembrava notarlo.
 
Robin aveva un nome da maschio e la sua famiglia era di sangue irlandese, ma lei aveva, a differenza di tutti i suoi parenti, i capelli color cioccolato e gli occhi verdi.
 
Ogni volta che guardava allo specchio le sue iridi le veniva in mente una singola frase, letta chissà dove:
 
L’invidia è un mostro dagli occhi verdi .“
 
Mai frase fu più azzeccata.
 

 

§§§§

 

 
Ogni anno, esattamente la notte tra il 31 Ottobre e il Primo Novembre, per le strade della città si teneva una festa in maschera, il Ballo delle Croci, che culminava nel salone delle feste del più antico palazzo della regione, il Palazzo de Lanchale, ora diventato Municipio, con appunto un ballo. Nei secoli precedenti il palazzo era stata la residenza cittadina di una famiglia nobile e ricca, perciò era in stile classico-barocco, ma con un sottofondo decadente che aggiungeva altro fascino alla già ammirata bellezza.
 
La festa era a tema, ogni anno sempre diverso, ma un sottofondo macabro era sempre stato presente in quella ricorrenza, la cui origine si era persa nella notte dei tempi.
 
Ogni abitante era tenuto a mascherarsi, così come gli stranieri che vi prendevano parte, e a portare indosso, ricamata o meno, una croce. Era una cosa quasi sacra, la festa non era mai stata annullata per un qualunque motivo da cent’anni a questa parte.
 
*
 
Mancavano poco più di tre settimane alla festa , e Robin non aveva ancora un vestito.
 
Quell’anno il tema che era stato scelto aveva lasciato perplessi molti, ma si stava rivelando intrigante: il gotico.
 
Era un mondo che l’aveva sempre affascinata e perciò ne sapeva molto, il suo vestito era già disegnato nella sua mente, ma la carta davanti a lei era bianca, la matita ancora appuntita.
 
Si gettò sul foglio e iniziò ad abbozzare: voleva un abito lungo, nero e con un corsetto stretto che facesse risaltare il corpo e che lasciasse le spalle nude. La scollatura era profonda senza sembrare volgare, ricoprì la stoffa scura di pizzi e merletti -anch’essi- neri e disegnò un paio di guanti di pizzo –nero-, veramente perfetti.
 
Le gonne erano ampie, gonfie e arrivavano a terra, si immaginò il dolce fruscio che avrebbe accompagnato i suoi passi...le sottogonne le volle bianche e decorò il punto della vita da cui partivano le gonne con un sottilissimo nastro di raso candido.
 
Le scarpe erano francesine alte, nere e chiuse, per camminare ed eleganti.
 
Anziché un cappotto disegnò un mantello, lungo e scuro, bordato di pelliccia contro il freddo di novembre, completo di cappuccio e alamari d’argento.
 
Mancavano solo due cose: al collo disegnò una collana d’argento con una croce decorata con diamanti e ossidiana e sul volto una maschera di seta nera.
 
Ammirò soddisfatta il disegno, lo ripose in una cartellina che mise nella borsa, e uscì, diretta dalla sarta che le avrebbe confezionato il suo bellissimo vestito. I soldi non erano un problema, la madre era proprio la discendente della famiglia nobile a cui era appartenuto il Palazzo de Lanchale, questo il cognome della madre. Il padre era invece un ricco uomo anch’egli di famiglia nobile, emigrato dalla verde Irlanda.
 
Il suo vestito sarebbe stato pronto in tre settimane, giusto tre giorni prima della festa.
 
Il tempo passò in fretta, ed arrivò il 28 Ottobre.
 
Robin era riuscita a trovare e a farsi regalare dal padre la collana che aveva in mente, ed era veramente simile a quella che aveva immaginato.
 
Non aveva ancora pensato ai capelli: come doveva tenerli? Sciolti o in un raccolto?
 
Il giorno che la sarta la chiamò per la prova dell’abito, decise di chiedere a lei.
 
L’abito le entrava alla perfezione, il corsetto si chiudeva sul seno con dei morbidi nastri di raso nero e il merletto scuro ornava i bordi di quella trappola infernale per signore, ricamando la pelle chiara di astratti disegni.
 
Quando chiese alla sarta il consiglio su come acconciare i capelli, le fu suggerito di tenerli raccolti in uno chignon molto morbido da cui avrebbe lasciato libere alcune ciocche arricciate con studiata noncuranza.
 
La sarta le regalò inoltre delle perle nere da intrecciare ai capelli e poi la salutò, mentre usciva dal negozio con il grosso pacchetto tra le braccia.
 
*
 
La notte della festa era prossima, e non aveva detto a nessuno quale sarebbe stato il suo vestito, né aveva dato a nessuno un segno per riconoscerla.
 
Si fece acconciare i capelli ed indossò l’abito; per ultima appese al collo la croce, che si adagiò nel solco tra i seni.
 
*
 
La campana del Convento dei frati che dominava la collina suonava le due ore dopo Compieta.
 
Uscii silenziosa dal cancello della villa e mi avviai nella strada che portava alla piazza nella quale la festa si faceva sempre più accesa.
 
Mamma, papà e Faith erano già usciti, nessuno sapeva com’era il mio vestito, solo papà avrebbe potuto riconoscermi osservando la croce.
 
Restai nascosta nell'ombra fino a che non giunsi all’arco da cui si accedeva alla piazza, era il posto dove tutti si appostavano per osservare chiunque entrasse e commentare -positivamente o meno- le maschere ed i costumi di tutti i partecipanti.
 
Di solito mia sorella Faith si sistemava con il suo gruppetto a farsi ammirare proprio a lato dell’arco, e commentava maligna ogni persona che attraversava l’arco.
 
Lei ha sempre avuto i costumi più belli, o meglio, quelli che le stavano meglio.
 
Quest’anno si era vestita da vampira, una banalità visto che ce ne saranno a centinaia tra gli invitati, anche se devo ammettere che il suo vestito la rende…desiderabile.
 
Ma il mio abito li batte tutti. Non ce n’è uno come il mio. Sono tutti costumi, maschere finte. Il mio è vero vestito, potrei indossarlo sempre e sarebbe perfetto.
 
Peccato che poi verrei segnata come “strana” e “pazza”.
 
Ma, del resto, tutti i migliori sono matti.
 
Alzai il mento, raddrizzai la schiena ed uscii dall’ombra, attraversando l’arco.
 
Sentii subito gli occhi che si girano per cercare il ritardatario, ma io avevo il viso celato dalla maschera ed il cappuccio alzato.
 
Gli alamari d’argento erano ben chiusi, ma il mantello ondeggiava in simbiosi con il movimento del mio corpo mentre camminavo, la croce nell’incavo dei seni catturava la luce delle candele accese dappertutto e la rifletteva, le gonne accompagnavano il mio incedere con il loro dolce fruscio, lasciando intravvedere gli orli delle sottogonne candide sotto il nero dei veli di gonne e pizzo.
 
Si sentivano i sibili dei sussurri e dei commenti che dilagavano tra la folla assiepata tra le macabre bancarelle. Girai il viso in cerca di un gruppetto che ben conoscevo, ed incrociai gli occhi di mia sorella; era indispettita, nessuno le aveva mai rubato la scena in questo modo.
 
Un angolo delle mie labbra si incurvò in un ghigno involontario, poi mi voltai, senza degnarli più di uno sguardo.
 
Sono troppo anche per loro.
 
In un angolino razionale del mio cervello c’era però una vocina che sussurrava «Sai bene che, se ora ti guardassi allo specchio, vedresti i tuoi occhi ancora più verdi, di quel verde».
 
Ed il mostro vinse ancora.
 
*
 
Quando una campana lontana annunciò la mezzanotte, una processione di maschere grottesche iniziò ad avviarsi tra le stradine verso l’antico palazzo.
 
Robin non li raggiunse, aspettò di essere l’ultima, esattamente dopo la sua gemella ed il suo gruppetto, che credevano di essere loro, a chiudere la processione e che sarebbero stati loro ad entrare per ultimi nella sala già gremita, guadagnandosi mille sguardi di invidia.
 
Ma si sbagliavano.
 
Perché l’invidia è mostro dagli occhi verdi.
 
*
 
Erano entrati tutti, la sala era gremita e dal portone socchiuso giungevano le note del sestetto di violini che suonava.
 
Salii lentamente i gradini del ballatoio di pietra, una sottile falce di luna era appena spuntata da un nuvolone nero.
 
Il balcone in cima al ballatoio che si affacciava sul giardino della villa era deserto, del resto la festa era appena entrata nel suo culmine, chi desidererebbe già andarsene?
 
Il portone è enorme e il legno intarsiato reca ancora tracce degli stucchi dorati che un tempo lo decoravano. Appoggio lievemente le mani su entrambi  i battenti e spingo.
 
Il portone si aprii, rivelando un salone in cui coppie volteggiavano lievi e vecchi signorotti dalle maschere stravaganti bevevano punch ai lati della pista. Sul palco rialzato all’estremità della sala si intravvedeva il sestetto d’archi che suonava, imperterrito.
 
Era uno sfavillio di candelieri e lampadari sfarzosi, uomini in livrea si aggiravano tra gli invitati offrendo vassoi ricolmi di ogni prelibatezza e calici di champagne biondo.
 
Avanzai fino alle scale ricoperte da un tappeto porpora che portavano alla pista da ballo.
 
Entrai nel cono di luce creato da un lampadario di cristallo e slacciai gli alamari del mantello, facendolo scivolare sulle spalle nude e porgendolo ad un cameriere in livrea di gala.
 
La musica si fermò e una folla di maschere si girò per fissare una figura aggraziata che scendeva le scale con eleganza innata e mille gonne che frusciavano dolcemente intorno a lei ad ogni scalino.
 
Una maschera di seta nera le celava il volto, ma si intravedeva lo scintillio degli occhi incredibilmente verdi.
 
Ne erano tutti estasiati e la osservavano per cercare di riconoscere in quell’eterea figura un conoscente o un’amica, ma invano. Nessuno sapeva chi fosse, ma tutti avevano la sensazione di conoscerla.
 
Solo una persona in quella sala sapeva chi si celasse dietro quella maschera scura e a quella compostezza regale, perché aveva riconosciuto lo sfavillio della croce di diamanti e ossidiana, e perché l’aveva regalata lui a sua figlia.
 
«Sei così bella, tesoro», pensò il padre, fissando la sua bambina, che ne ricambiò lo sguardo, accennando un sorriso.
 
Si diresse verso di lui e vi si fermò davanti. Glielo sussurrò veramente quello che pensava, il padre, e dagli occhi verdi di lei scivolò via una lacrima, subito abilmente celata da un leggero movimento per scostare un ricciolo ribelle.
 
Ella si inchinò lievemente e si allontanò, l’avrebbero riconosciuta troppo facilmente.
 
Le venne offerto dello champagne e, con la flûte in mano, si aggirava per la sala rispondendo ai complimenti e ai convenevoli da parte di tutti coloro che ne erano stati ammaliati.
 
Mentre parlava con un amico del padre –lui non l’aveva però riconosciuta- si sentii toccare una spalla ed una voce familiare sussurrò «Posso rubarvi per un ballo questa graziosa fanciulla, Conte?».
 
La figura che aveva parlato era alta e posata, e parlava con l’arroganza dei potenti. Nonostante questo, Robin ne rimase affascinata.
 
Il ragazzo dai capelli scuri si inchinò e le porse la mano, con uno sguardo ironico e beffardo negli occhi color cioccolato, che ebbe solo il potere di attrarla di più.
 
Posò la mano su quella morbida e calda di lui, fasciata da un guanto candido, con un certo timore: sapeva di averlo già visto, ma non ricordava chi fosse.
 
Iniziarono a volteggiare, dapprima lentamente, poi sempre più veloci, spostandosi verso il centro della pista, ma in silenzio.
 
Si fissavano con intensità, nessuno aveva voglia di pronunciare il proprio nome, svelando la propria identità, entrambi volevano rimanere in un’illusione di perfezione.
 
Lì, volteggiando nella pista con un sorriso accennato sulle labbra e fissandosi negli occhi, erano congelati nel tempo, erano il simbolo di uno stereotipo di qualcosa di ormai morto e sepolto, di molto lontano nel tempo e nei secoli.
 
Le note del ballo si fecero sempre più affannate, tempestose e veloci: la fine stava giungendo.
 
Allora lui strinse ancora di più il corpo della ragazza, oltrepassando le soglie della decenza e premendosi contro le sue forme morbide, in un abbraccio drammatico e appassionato.
 
Le note si trascinarono, si strascicarono, lunghe e agonizzanti, sulle corde degli archi e allora lui, con un lampo negli occhi, si chinò e premette le sue labbra su quelle della fanciulla.
 
Ella rimase immobile per un attimo, pietrificata dallo stupore, ma poi si abbandonò al languore e ricambiò con trasporto, socchiudendo le labbra e lasciando un piccolo gemito per il piacere e il desiderio.
 
La mano di lui le stringeva la schiena e l’altra le sorreggeva la nuca, tra i riccioli scuri dell’acconciatura.
 
Alla fine lui si staccò, affannato, e la guardò con uno strano sentimento impresso negli occhi.
 
Sollevò lentamente una mano vicino al volto di lei, lentamente, lentamente…posò la mano al lato del volto mascherato e sollevò la maschera dal viso.
 
Lei si liberò dal suo abbraccio con forza e allontanò la mano del giovane con violenza, l’ira serpeggiava nei suoi occhi verdi e sibilò «Non osare», con voce di ghiaccio.
 
Le ombre si agitarono e si assieparono sugli orli delle sue gonne, risalendole e attorcigliandosi sulle sue braccia candide e ricamate di pizzo. Lei lo guardò con un odio profondo, stava per tradirla, svelando la sua identità. Tutte le ombre fremettero, minacciose, negli angoli più bui e ondeggiarono in modo innaturale.
 
Con un ultimo sguardo di disprezzo con quegli occhi così verdi, la fanciulla scappò attraverso il salone, e, salendo le scale e strappando dalle mani del valletto il suo mantello, si gettò nella fredda aria dell’alba del Primo Novembre, correndo per le vie dal selciato irregolare della cittadina, lasciando dietro di sé lo sguardo attonito e sconvolto di tutti i presenti e del ragazzo dai capelli e gli occhi scuri.
 
Una figura si avvicinò da dietro al moro al centro della sala e gli posò una mano sulla spalla, poi si complimentò, con un timbro ironico e beffardo, identico a quello che il giovane al suo fianco aveva esibito poco prima, «Ben fatto, Haydan, davvero».
 
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