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Autore: Aya_Brea    16/07/2012    5 recensioni
“Dai Jake, questi ci ammazzano di botte, scendi e non fare l’eroe!”
Ma il piccolo biondino non aveva alcuna intenzione di demordere, né tantomeno di arrendersi di fronte a quei brutti ceffi. Una folata di vento gli scompigliò i capelli, poi quando tutto tacque, le punte gli sfiorarono nuovamente le guance.
Dagli occhi di Gin non trapela mai nulla, ma i ricordi si sa, non possono essere cancellati.
 
Fanfiction sul passato del più carismatico fra gli Uomini in Nero.
Genere: Azione, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro Personaggio, Gin, Nuovo personaggio, Vermouth, Vodka
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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 Premessa:



Ciao a tutti amici lettori di EFP! :) Ahimè, e ahiVOI, son tornata con una nuova fanfiction!
Mi sembra però doveroso fare delle piccolissime precisazioni, onde evitare casini e casotti!
La fanfiction è interamente concentrata sul passato del nostro caro Gin, ebbene si.
Pertanto compariranno un po' di personaggi di mia invenzione e altri membri dell'Organizzazione.
Per il suo vero nome ho optato per JAKE. Mi piaceva xD ci stava! :) spero piaccia anche a voi!
Il linguaggio sarà un po' secco e scarno, meno poetico rispetto al solito e forse ogni tanto ci sarà qualche parolaccia
Nulla di grave comunque :) Beh, detto questo, spero che vi piacerà come ho reso (o per meglio dire, come ho tentato)
di rendere il passato di Gin, facendo in modo che potesse essere in linea col personaggio Goshiano :D 
Spero di non avervi annoiato eccessivamente e spero che questo insolito esperimento vi piaccia!
P.S: Ho messo l'avvertimento OOC perché, seppur Gosho non parli mai del passato dei MiB,
non vorrei che se lo facesse, fosse troppo stravolto rispetto all'originale. Vi lascio.
Buona lettura :)


Aya_Brea 






1. La caduta degli eroi

"I look inside myself and see my heart is black 
I see my red door and it has been painted black 
Maybe then I'll fade away and not have to face the facts 
It's not easy facing up when your whole world is black

(The Rolling Stones - Paint in Black)


Era una di quelle calde giornate estive in cui la coltre di afa si manifesta sottoforma di aloni rarefatti, tanto spessi e definiti che in lontananza tutto appare tremolante e fumoso.
Il sole era oramai alto nel cielo ma di tanto in tanto nuvoloni densi e bianchi si infittivano di fronte a quel disco estremamente luminoso, impedendo momentaneamente ai suoi raggi di battere con violenza contro la terra arida e secca.
Lungo la grande autostrada dislocata fuori dal centro abitato si stava svolgendo una grande parata d'auto d'epoca e tutto era stato predisposto meticolosamente per l'occasione: la grande lingua di asfalto bollente era sgombra e su entrambi i lati erano poste delle transenne piene di ghirlande e decorazioni. C'era gente di tutte le età: bambini, giovani, anziani, donne, famigliole giunte lì per caso; era un gran via vai e fra di loro si respirava davvero aria di festa.
L'attesa e la trepidazione esplosero in un tripudio di mormorii e grida esultanti, non appena comparvero all'orizzonte le prime automobili.
Le carrozzerie tirate a lucido brillavano come degli specchi e da qualsiasi angolazione le si osservasse, si poteva ben notare il meraviglioso gioco di luci che esse producevano in quel clima torrido. Alla testa della sfilata vi era una vecchia Ferrari fiammante, di un rosso vivido ed intenso: sembrava non portarsi alle spalle il peso dei suoi anni e a giudicare dal roboante suono del motore, pareva non aver perso neanche la grinta della sua potente cilindrata.
Il piccolo Jake strepitò al di là delle transenne affinché il padre lo prendesse in braccio e lo sollevasse da terra: era troppo basso per poter osservare quello spettacolo d'altri tempi. Dall'alto del suo metro e novanta, l'omone robusto alle sue spalle si chinò per afferrare quel bimbo scalpitante, poi, come se stesse mostrando una coppa, alzò le braccia e lasciò che Jake si sedesse sulla transenna.
"Ci vedi così?" L'uomo aveva dei morbidi capelli biondi pettinati indietro e indossava un paio di eleganti occhiali da sole: sembrava decisamente troppo agghindato per una semplice parata d'auto d'epoca. Un Rolex d'oro gli avvolgeva il polso, mentre una collana altrettanto costosa e sfavillante gli illuminava il petto.
Jake dispiegò lo sguardo verso quelle macchine via via sempre più vicine e non poté far altro che sgranare i suoi piccoli occhietti verdognoli, sia per lo stupore che per la commozione: erano bellissime, ancor più affascinanti di come se l'era sempre immaginate nei suoi piccoli sogni di fanciullo. Fra gli occhi lucidi e il cuoricino palpitante in petto, si prese del tempo per rispondere. "Ci vedo benissimo, papà." Sussurrò piano. L'emozione crebbe a dismisura quando la Ferrari fu vicina ad entrambi, talmente vicina che Jake tese il braccio oltre la transenna, convinto di poterla quasi sfiorare.
Le auto proseguirono la loro trionfante parata, fra calorosi applausi ed ammirazione, fin quando fu possibile scorgere all'orizzonte l'ultimo bolide, quello che avrebbe definitivamente chiuso la sfilata.
In quel preciso istante sembrò che il cuore di Jake avesse perso un battito: le sue iridi oramai stanche per il caldo cocente seguirono, nonostante tutto, l'intero percorso che stava compiendo quell'ultimo gioiellino scintillante.
Era una vecchia Porsche nera dalla linea morbida ed accattivante, le cui curve erano leggere ma essenziali e proprio in virtù della sua caratteristica fisionomia, pareva essere stata rubata dai sognanti anni '40. Nella mente del piccolo Jake cominciarono a rincorrersi innumerevoli quadretti e storie infarcite di gangster, di pistole, di strade buie e sudice, di eroi notturni pronti a sacrificare anche se stessi pur di estirpare le radici del male. E quanto avrebbe voluto essere quel giustiziere coraggioso che ha sempre la battuta pronta e un asso nella manica.
Mentre la sua fervida immaginazione viaggiava senza sosta, la Porsche continuò a muoversi lungo l'asfalto, fin quando non divenne un minuscolo puntino nero all'orizzonte.
 
 
 
 
 
Quella mattinata era letteralmente volata, ma il pomeriggio era ancora lungo e denso di emozioni ed avventure.
Jake era al parco con i suoi amici: quel piccolo riquadro verde, fra decine di alberi rigogliosi e fiori freschi, era tutta la sua vita.
Takashi, suo padre, era spesso fuori casa e la maggior parte delle volte la solitudine ed il silenzio di quella villa lo opprimevano più di qualsiasi altra cosa: sua madre non abitava più con loro da quasi due anni. Sapeva soltanto che si era trasferita in America per poter continuare il proprio lavoro. Di lei gli era rimasto soltanto l'amore per i nomi occidentali. Nient'altro. Per giunta riuscivano a sentirsi davvero poco, tanto che spesso lei si dimenticava persino di chiamarlo. Di sicuro non era facile la vita che conduceva e il più delle volte, Jake si sentiva emarginato e "diverso" dai propri coetanei, che al contrario si ritrovavano a vivere nel calore di una famiglia "al completo."
Era sempre stato un ragazzino chiuso ed isolato, forse perché nel corso degli anni si era creato una spessa coltre di ghiaccio fra lui ed il mondo esterno e proprio grazie a quella corazza, a quella sottospecie di barriera protettiva, egli si sentiva al sicuro: aveva ormai il suo piccolo mondo da difendere e preservare.
Il cielo si tinse pian piano di un tenero colore aranciato e finalmente si sollevò una brezza fresca a mitigare quel clima così fermo e caldo. Alcuni bambini se l'erano già svignata, altri aspettavano soltanto le loro mamme. Questo per Jake, non accadeva mai. Era come se non ce l'avesse, una madre.
Se ne stava sulla torretta dello scivolo assieme ad un suo compagno di scuola: da quell'altezza, sembrava di starsene appostati su di un gran torrione, lontano da tutti e da tutti, con la visuale ben aperta sotto di loro.
“Questo pomeriggio è stato fantastico! Non potevo crederci, quelle auto sono super!” Esclamò Jake con lo sguardo rivolto alla strada che si intravedeva fra le fronde degli alberi. “Papà mi ha detto che quella nera si chiama Porsche. E’ un modello molto vecchio.”
L’amico spingeva gli avambracci sul bordo in legno della torretta e osservava Jake con un flebile sorriso. “A me piacciono le auto sportive.”
“E’ quel che credevo anche io.”
Continuarono a chiacchierare con tale fervore ed entusiasmo da non accorgersi del sole che calava inesorabile e che al posto delle colorazioni aranciate cedeva il passo alla sera scura e dimessa. Il parco era completamente deserto.
Improvvisamente i due ragazzini udirono uno scalpiccio confuso muoversi sulla ghiaia bollente: si volsero entrambi e con terrore notarono che tre ragazzacci avanzavano con occhi sprezzanti ed aria strafottente.
“Ehi, voi. Scendete immediatamente da lì. Quella è la nostra postazione.” Urlò uno del gruppetto, compiendo minacciosamente un passo in avanti.
Jake mandò giù la saliva e strinse i pugni con vigore. “Non c’è scritto mica il vostro nome. Noi rimaniamo qui quanto ci pare e piace.” Anche lui assunse un’espressione di sfida. Non era la prima volta che quei stupidi bambocci tormentavano la tranquillità di quel luogo.
Rui, il compagno di Jake, si precipitò giù dallo scivolo, pregando all’altro di seguirlo. “Dai Jake, questi ci ammazzano di botte, scendi e non fare l’eroe!”
Ma il piccolo biondino non aveva alcuna intenzione di demordere, né tantomeno di arrendersi di fronte a quei brutti ceffi. Una folata di vento gli scompigliò i capelli, poi quando tutto tacque, le punte gli sfiorarono nuovamente le guance. Era un bambino così magro e gracile che non avrebbe fatto paura a nessuno: sembrava come un tenero fuscello pronto a spezzarsi in qualsiasi istante.
“Guardatelo, sembra una femminuccia con quei capelli!” Un coro di risate tuonò fragoroso e terribilmente fastidioso nel silenzio della sera.
“Si, hai ragione.” Il ragazzino sputò a terra e si pulì le labbra con l’avambraccio. “Facciamogli vedere chi comanda qui.” Detto così, infatti, i tre si slanciarono lungo le scale e accerchiarono il povero Jake, che nella frenesia del momento sentì la sua gola farsi sempre più secca: le parole per controbattere faticavano ad uscire dalle sue labbra, incapaci di articolare anche il suono più flebile.
“Che c’è, il gatto ti ha per caso morso la lingua?”
Jake fu come paralizzato. Tremava, si sentì irrimediabilmente debole contro quei ragazzi più grandi di lui d’un paio d’anni. Li osservava dal basso, loro dall’alto della loro strafottenza parevano dei colossi pronti a schiacciarlo. Quello più robusto lo afferrò per il colletto della t shirt e lo spinse con violenza sul bordo dello scivolo, poi lo scaraventò giù con un colpo, incurante delle resistenze del piccolo biondino.
Il bimbo sentì le ossa scricchiolare dopo il violento impatto col suolo. Gli occhi iniziavano a bruciare, la vista si offuscava. Quando si sollevò, dolorante, vide che stavano malmenando Rui.
“No! Lasciatelo! Vi prego, lasciatelo!” Gridò Jake, stringendo i denti sulle labbra salate: le guance erano piene di lacrime. Strinse i pugni, riempiendoseli di terra. “Lasciatelo!”
Rui era ridotto ad un colabrodo, stramazzava al suolo e boccheggiava, pieno di lividi e sangue: uno straccio incapace addirittura di reclamare un aiuto. Il ragazzino che lo stava picchiando più degli altri si sfilò un coltellino dalla tasca dei pantaloni e Jake non poté fare nient’altro che assistere, ad occhi sgranati. Imbelle, mentre si compì quel tragico incidente.
In una frazione di secondo quella lama si piantò dritta nello stomaco di Rui ed un irruento fiotto di sangue schizzò sul viso del piccolo omicida, egualmente scioccato per il gesto inconsciamente compiuto.
Con la rapidità di un fulmine, quei tre si dileguarono, lasciando Jake e Rui soli in quel parco che pareva essere abbandonato da tutti.
Fra i due piccoletti c’era la distanza di qualche metro: Rui era riverso in terra ed il suo volto portava un’espressione placida e serena, mentre Jake, completamente inebetito, percepiva il suo respiro farsi sempre più rapido. Cercava ossigeno, cercava la vita, quella vita flebile che era appena stata strappata di fronte ai suoi occhi innocenti.
Sentì una voragine risucchiargli il cuore e la paura fu talmente totalizzante che le sue gambe schizzarono e con un rapidissimo movimento scattò verso l’uscita del parco, correndo via e lasciandosi per sempre alle spalle il suo più caro amico.
Era un fallito, non era stato in grado neanche di soccorrerlo.
 
 
 
 
 
Jake tirò fuori dalle tasche dei pantaloni un grosso mazzo di chiavi e si sollevò in punta di piedi per aprire la porta di casa: il padre utilizzava l’abitazione come se fosse un albergo e spesso non c’era. Ma quella sera, proprio quella stramaledetta sera, la luce nel salone era stranamente accesa e il piccolo aveva già sentito le risate di una donna e il televisore a basso volume che diffondeva stronzate a valanga: suo padre era uno di quelli capaci di sorbirsele tutte.
Suo padre, assieme alla sua nuova compagna, Julie.
Difatti non appena il bimbo ebbe varcata la soglia intravide i due stravaccati sul divano, stretti in un abbraccio che non aveva nulla di affettuoso: probabilmente lei era la solita sgualdrina che sfruttava gli uomini soltanto per via del loro portafogli. Ma queste cose Jake non poteva ancora comprenderle appieno. Sapeva soltanto che l’odore nauseabondo di quelle sigarette che entrambi fumavano a ripetizione, gli dava ai nervi. Per non parlare poi delle numerose tracce di rossetti che trovava in giro per casa o sui vestiti del padre.
Era tutto uno schifo. Ogni cosa.
“Papà, sono a casa.” L’uomo inspirò e poi diede una sbuffata di fumo.
“Me ne sono accorto. Julie ti ha preparato qualcosa per cena. Ehi, ma si può sapere che hai fatto?”
Il piccolo mostrava le gambette piene di lividi e il viso era ancora caldo e incrostato di lacrime secche mescolate a terra e polvere.
“Vatti a dare una lavata, fai schifo, Cristo.” Aggiunse Takashi sprezzante. Un paio di profonde occhiaie gli solcavano entrambi gli occhi, terribilmente gonfi e rossi. Probabilmente era fatto di cocaina, o di altre schifezze che gli procurava Julie.
Jake abbassò timidamente il capo, nonostante le palpebre non fossero più in grado di trattenere quei lacrimoni che oramai gli inondavano le pupille verdi. Strinse i denti ed annuì, con la coda fra le gambe, sconfitto.
Aveva bisogno di lui, aveva bisogno di una carezza, di un conforto, di una parola.
Anche soltanto di uno sguardo. Si, gli sarebbe bastato.
Il padre continuava soltanto ad inveire contro di lui e a sputargli il suo odio sul visetto pallido e smorto. “E tagliati quei capelli, sembri una checca!”
Basta. Non una parola di più. Oltretutto anche quella donna aveva preso a fissarlo divertita, come se fosse stato un nuovo fenomeno da baraccone. Al diavolo loro due.
Corse su per le scale con la velocità di un fulmine e si chiuse a chiave nella sua camera, completamente solo ed immerso nel buio. C’era soltanto un affascinante gioco di luci lunari che filtravano dalla tapparella e rotolavano morbidamente giù, sulla moquette.
Jake si sedette a terra e brancolò con le mani per poter raggiungere il telecomando, dopodiché accese la televisione a volume alto, nel vano tentativo di sovrastare le voci di quei due al piano inferiore.
Nella piccola scatola nera, che ad ogni fotogramma diffondeva un tenute bagliore bluastro, veniva proiettata la vittoriosa figura del classico sceriffo dei film Western.
Un sorriso amaro ed intriso di sarcasmo si dipinse sul volto tetro di Jake, oscurato in parte dai ciuffetti che gli ricadevano sulla fronte. In quel preciso istante sentì l’odio germogliare dentro di lui, il piccolo seme della vendetta si impiantò nel suo cuore come un estraneo ben accetto.
Non appena sollevò il viso vide una lunga strada, tortuosa e nera, irta di pericoli e di rami inestricabili. Il futuro era come l’incubo più orrendo che avesse mai vissuto e avrebbe soltanto voluto prenderlo a pugni, con tutta la rabbia che gli ribolliva in corpo. S’alzò dalla sua posizione e tese entrambe le braccia verso il televisore, poi con un colpo secco e violento la spinse giù. La voce trionfante dello sceriffo tacque per sempre e lo schermo esplose letteralmente accompagnato da fumo nero e scintille.
La vita non era come nei film e Jake si sentì tradito da quelle avventure, da quegli eroi, da quei sorrisi, da quella strabordante felicità che trasudava ovunque, su ogni canale.
La realtà era ben diversa da quella che aveva sempre osservato al di là di uno schermo freddo e così dannatamente lontano.
Non appena il televisore cessò di sfrigolare, dentro di lui il suo animo si acquietò; sembrò come se qualcuno lo avesse prosciugato di tutte le forze. Si lasciò ricadere nuovamente in terra e pianse. Pianse per ore, fin quando le lacrime non cessarono automaticamente.
Fuori c’era ancora un gran baccano, ma lui sentiva soltanto un assordante silenzio invadergli l’anima, pervaderlo da dentro ed insinuarsi nelle profondità delle sue viscere, nelle membra.
Quello fu il giorno in cui Jake, comprese che non avrebbe più incarnato il ruolo della vittima indifesa. Era giunto il momento di prendere saldamente le redini di una nuova vita e buttarcisi a capofitto.
Fu l’ultima volta in cui Jake pianse per qualcuno.
Perché non avrebbe più avuto lacrime da versare.  
  
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