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Autore: Castiga Akirashi    17/07/2012    6 recensioni
{Rating più alto in alcuni capitoli}
Può una bestia redimersi?
Può smettere di uccidere?
Il Demone Rosso ha seminato distruzione, paura e morte per anni.
Ora è sparita.
È morta? È nell’ombra che aspetta una preda?
Nessuno lo sa…
Aurea Aralia è una studiosa Pokémon conosciuta in tutta Isshu.
Stimata e rispettata, passa il suo tempo a esplorare il mondo dei Pokémon ed a aiutare i giovani allenatori che le vengono affidati.
La sua vita cambierà, quando incontrerà una ragazza.
Ragazza o… Demone?
Genere: Avventura, Fantasy, Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, N, Nuovo personaggio
Note: OOC | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Videogioco
Capitoli:
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“Sono passati solo sei mesi… e già mi manca. Vederlo, anzi vederli, andare via così, affranti e abbattuti, è stato terribile. Anche Zekrom prova questo senso di vuoto. Per lui è naturale: lo Yin senza lo Yang non è nulla... non può esistere.
Mentre nel mio caso… beh, anche N, come me, ha conosciuto la crudeltà umana. N, però, solo il lato negativo, con Geechisu che gli portava solo Pokémon abbandonati o maltrattati, mentre io li ho conosciuti entrambi. Ricordo come se fosse ieri l’ultima frase che mi disse prima di salutarci; dopo lo scontro finale, dopo che gli avevo dimostrato che Pokémon e umani potevano vivere fianco a fianco in assoluta parità. Disse che, al nostro primo incontro, era rimasto scioccato perché il mio Pokémon gli aveva detto di voler restare con me. Mentre lui aveva ben altre convinzioni.
E ora, spesso, mi capita di guardare Maru, ringraziandolo di quelle parole che disse a mia difesa quando era solo un piccolo Oshawott.
I miei amici Pokémon hanno dato sempre il massimo nelle lotte; anche quando Nardo ci ha distrutti alla Lega Pokémon di Isshu. N, probabilmente, mi avrebbe presa in giro, se lo avesse saputo. Lui aveva battuto Nardo, io avevo sconfitto sia lui che Geechisu per poi perdere miseramente contro il Campione. Forse non ero concentrata. Non so. Ma almeno ci ho provato.
E ora non so cosa fare.
Faccio andare avanti i giorni senza uno scopo, osservando la vitalità di Belle e il Dottore, che non stanno mai fermi. I miei due amici, gli unici, oltre ai miei Pokémon. E N, naturalmente. L’unico che mi capisca davvero.
Ormai nemmeno lottare serve. Non mi da più quell’entusiasmo che mi dava una volta. Prima non andavo solo a caccia di Medaglie, volevo anche far capire a N che si sbagliava. Che era sbagliato separare con la forza umani e Pokémon. Ma, ora che è tutto finito...”
Lo sbattere violento di una porta interruppe il filo dei suoi pensieri. Spostando lo sguardo dal cielo terso in cui si era immersa, la prima cosa che vide fu l’arancione fluorescente della camicetta di Belle, la sua migliore amica, all'altezza degli occhi. Dietro di lei, vestito con un completo blu scuro a contrasto con la frizzante ragazza, c’era anche Cheren, l’altro amico di entrambe, che le si piazzò davanti con uno sguardo deciso e chiese, secco: «Castì! La fai una lotta?»
«Eh?» chiese lei, comodamente seduta su una panchina nel prato fuori dal laboratorio Pokémon di Soffiolieve, con nessuna voglia di alzarsi e fare una cosa così psicologicamente pesante come lottare.
Lui non perse tempo e, ignorando la sua espressione svogliata, insisté: «Ti sto sfidando!»
«Ancora?» replicò lei con la sua voce come sempre glaciale, usando il nomignolo che proprio lei aveva coniato: «Ma non ti stufi mai di perdere, Dottore?»
«Dai, Castì... lo sai che insiste finché non gliela dai vinta.» disse Belle, alzando gli occhi al cielo, ma non smettendo mai di sorridere. Lei non era mai triste, neanche quando combinava guai per la sua perenne testa tra le nuvole. E vedeva sempre il bicchiere mezzo pieno.
«Va bene.» si arrese lei, scuotendo i corti capelli rossi per levarsi dalla testa quei pensieri nostalgici e alzandosi da quella comoda panchina assolata.
Castiga fissò l’amico con un freddo e penetrante sguardo colore del fuoco, andarono nel campo lotta e lo scontro cominciò.
“Belle e il Dottore li conosco da tre anni. Stranamente, mi sembrava di averli già visti quando li ho conosciuti. Sarà stato un deja-vu, a volte capitano. Comunque sia, loro sono le uniche due persone che non guardano la fedina penale della gente che incontrano. O forse sono ancora due piccoli ingenui per avere dei sospetti. Ma vanno bene così.
Quel giorno... lo ricordo bene. È impresso a fuoco nella mia mente.
Noi, il grande Team Rocket, venimmo completamente distrutti. E noi fratelli tenenti non venimmo risparmiati... anzi. 
La mocciosa e la sua banda arrivarono. Li aspettavamo, ma non così presto e non con al seguito il Campione di Johto e Kanto, Lance.
Non avrei mai pensato di vedere i miei amati Pokémon soffrire così.
Fu un duro colpo. Ci mandarono al tappeto e ci arrestarono. I miei fratelli vennero rinchiusi ma io scappai. Tentai di nascondermi nel Monte Scodella per riprendermi, inventare un piano e far riposare i miei amici. Ma ci trovarono subito.
Loro... loro lottarono come belve per difendermi e a uno a uno perirono nello scontro.
Io li ricorderò per sempre… sono una parte di me.
Distrutta da una sensazione orribile, una cosa che mai avevo provato, che nemmeno pensavo esistesse, riuscii comunque a fuggire e mi imbarcai clandestinamente sulla prima nave che vidi. Non sapevo dov’era diretta e, francamente, non mi interessava.
Ero sola ormai. Senza di loro, mi sentivo persa.
Arrivati a destinazione, aspettai che se ne andassero tutti e poi scesi senza farmi vedere.
Grazie a un cartello “Benvenuti a Isshu”, capii dove ero finita. Isshu... una regione lontana da Sinnoh, figuriamoci da Kanto. Forse qui non mi conosceva nessuno. Ero stanca, ferita e disperata, e così svenni. Nel porto. Bella figura.
La grande e terribile Athena... il Demone Rosso che sviene come una novellina qualunque...
Mi trovò una ragazzina bionda di circa quattordici anni, uno in meno di me. Era Belle ed era accompagnata dal suo Tepig, preso da poco al laboratorio della sua cittadina. Non sapendo che fare, suppongo, andò a chiamare l’amico Cheren, sedicenne occhialuto, che arrivò con il suo Snivy.
I due ragazzi mi portarono nel parco lì vicino, curandomi le ferite. Anche se quelle erano poco a confronto della ferita maggiore, che allora non conoscevo. La ferita subita dal cuore.
Quando rinvenni stavano facendo una lotta di allenamento. Li vidi fare le prime mosse e rividi i volti della mia squadra, uno a uno.
Mi tornò quella terribile sensazione dentro al cuore. Non l’avevo mai provata prima, mai.
Dolore lo chiamano.
Dolore.
Loro non c’erano più.
Qualcosa di caldo e salato uscì dai miei occhi. Lacrime?
Allora, ancora non lo sapevo. Non mi era mai successo, in tutta la vita. Era una cosa nuova. Nuova e terribile.
Belle mi vide e mi si avvicinò. Vedendo come ero crollata, tentò di consolarmi, dicendomi che ero al sicuro con loro. Ma io non davo segni. Ripetevo solo i nomi dei miei Pokémon, come un disco rotto, sperando di vederli arrivare da me. Speravo di vedere Pidg venirmi incontro e dirmi che andava tutto bene.
Due anime, una cosa sola... lo diceva sempre...
Belle non sapeva cosa fare, così mandò il Dottore a chiamare la professoressa Aralia, la studiosa di quella regione.
La donna arrivò di corsa e quando mi vide sbarrò gli occhi. Era una donna sui trent’anni, appena laureata, capelli castani tenuti legati da una coda, occhi verde acqua e sguardo intelligente. Indossava il camice da professoressa con la minigonna. Un bizzarro assortimento. Mi viene ancora da ridacchiare se penso alla reazione che ebbe. Spalancò le braccia davanti ai due ragazzi e li fece arretrare di almeno tre metri buoni.
Quando fu sicura che fossero distanti, mi chiese cosa volessi.
Il suo tono era spaventato, ma cercava di farmi paura.
Illusa. Volevo alzarmi e fare a modo mio, dimostrarle cosa vuol dire fare davvero paura. Ma quella sensazione che provavo dalla morte dei miei Pokémon, mi teneva come bloccata.
Guardai la studiosa con uno sguardo spento, pieno di un dolore fuori dal comune. Probabilmente lei vide la sofferenza nei miei occhi, perché abbandonò la difensiva.
La professoressa mi conosceva, sapeva chi ero, di cos’ero capace. Ma decise comunque di tenermi con sé. Ancora non ne capisco la ragione.
Mi portò a casa sua, sopra il laboratorio Pokémon, nel paese di Soffiolieve, la “Crocevia dei Destini”, citando il cartello di benvenuto della città; era una tipica cittadina di esordio per i giovani allenatori. Mi accompagnò nella stanza degli ospiti e fuggì, urlandomi gli orari di pranzo e cena. Una volta sola, mi voltai e vidi uno specchio. Mi avvicinai, lentamente, e quella R rossa mi strinse il cuore. Non volevo più quella dannata divisa bianca. Nell’armadio trovai dei vestiti... di quella donna probabilmente. Li tirai tutti fuori e mi cambiai con quelli che mi parevano più comodi: una camicia e un paio di jeans, ai quali misi una cintura per il pugnale. Se la donna mi avesse detto qualcosa, me ne sarei andata, per cercare di farla finita. Ma lei non disse nulla. Non avevamo quasi contatti e a me andava bene così. Preferivo da sempre stare per conto mio, con la gente lontana. Dopo la scomparsa dei miei Pokémon, nulla aveva più un senso. Avevo anche tentato di uccidermi, per raggiungerli, ma la prof mi aveva fermata in tempo. Mi teneva d’occhio. Ovvio che non si fidasse.
E io mi resi conto che era un gesto inutile. Io sarei andata in un posto diverso dal loro.
Nelle Fiamme.
Mentre loro... nel Cielo.
Perché la cattiva ero io. Loro non erano mai stati cattivi.
Aurea, questo è il nome della studiosa, non cercava di parlarmi o di avere contatti con me, e io non provavo ostilità nei suoi confronti. Nemmeno quando mi impediva il suicidio. Forse perché nemmeno uccidere quella donna mi avrebbe dato sollievo da quel dolore. Perché quella sensazione non era la rabbia.
Ne ero consapevole.
Così me ne stavo in disparte, pensando a niente, e assaporando quel dolore che lentamente mi corrodeva l’anima.
E un giorno, in quello stato di quasi trance, arrivò la mia salvezza.
Un sibilo, alle mie spalle. Lo sentii distintamente. Giovanni mi aveva addestrata bene.
Spostai la testa di lato e una lama d’acqua mi passò accanto all’orecchio destro. La presi con la mano, tagliandomi, e disarmai il mio aggressore. Voltandomi velocemente lo colpii con un calcio, facendo volare a terra un piccolo Oshawott, un Pokémon d'acqua azzurro simile a una lontra.
Il Pokémon mi guardò, ammirato e sbalordito, ma io lo fissai gelida. Odiavo essere sfidata, ma l’espressione della professoressa Aralia mi fece passare la voglia di infierire. Che poi, pensandoci bene, fare del male a un Pokémon non era nel mio stile. Non l'avevo mai visto, ma ero certa che quella creatura fosse un Pokémon.
Mi voltai e me ne andai, tornando a guardare l’orizzonte, persa nei pensieri, nei ricordi, nel dolore.
Lui mi inseguì per fare amicizia, mi passò davanti e mi tese la zampa ma io lo guardai indifferente, andandomene ancora. Lui rimase lì, deluso, a zampa tesa.
L’Oshawott non si diede per vinto. Gli stavo simpatica e voleva ad ogni costo starmi vicino, aiutarmi a mandare via quella sofferenza. Alla fine ce la fece. In tutti i sensi. Io, però, lo capii molto più tardi.
Ero sul tetto del laboratorio e lui mi raggiunse. Ma aveva uno scarsissimo equilibrio, così scivolò e cadde di sotto.
Io mi lanciai, d’istinto, e lo presi al volo, aggrappandomi alla grondaia. Lo tirai su, mi tirai su, mi sedetti e lo misi sulle mie gambe.
«Sei una sciocca lontra… potevi farti male, sai?» gli dissi.
Lui mi guardò con uno sguardo fiero e si batté il piccolo pugno sul petto, dicendo: *«Un voletto da niente!»*
Io alzai gli occhi al cielo, lo posai sulle tegole, feci per alzarmi e andarmene ma una voce disse: «Perché non lo accetti?»
Io, impassibile, le risposi: «Perché non lo voglio.» e tornai nel laboratorio.
Oshawott ci rimase molto male, ma la prof si era arrabbiata. Quella sera a cena, mi rivolse la parola. Era strano, non l’aveva mai fatto. E mi stava addirittura sgridando. Intollerabile.
Cercai di mettere più cattiveria possibile nelle parole, per convincerla a lasciarmi in pace. Ma nulla. La aggredì addirittura, ma lei riuscì a sconvolgermi.
Tempo dopo, la sua pazienza venne premiata. Riuscì a farmi parlare e io scoprii che mi sentivo meglio se le raccontavo i miei stati emotivi. Accettai l’Oshawott e così, qualche tempo dopo, partì per un viaggio a Isshu con il nome di Castiga, i capelli più corti e un nuovo abbigliamento per non farmi riconoscere, insieme a un piccolo Pokémon felice, Maru l’Oshawott.
Poco dopo si unirono a noi anche Belle e Cheren.
Ma ora che il viaggio è finito non so proprio cosa farò in futuro.”
«Finiamola qui… vai Hoshi! Usa Nitrocarica!» esclamò Castiga, mandando KO il Serperior di Cheren.
Lui fece rientrare il suo verde serpentone con un raggio rosso nella sua ball e si lamentò, seccato e frustrato dall’ennesima sconfitta: «Non ti batterò mai!»
«Mai dire mai…» gli rispose la ragazza: «Adesso sei contento?»
«Sarò contento solo quando riuscirò a sconfiggerti, maledizione!» replicò lui furioso, mentre Belle urlava e inseguiva il suo baschetto verde fluo decollato per una folata di vento.
«Allora preparati alla tristezza eterna!» ghignò l’avversaria, andando a fare qualche carezza a Zekrom, il nero e leggendario drago degli ideali.
Si rimise sulla sua panchina, notando che ancora il sole batteva su quella zona, e si preparò a tornare ai suoi pensieri, ma venne ben presto raggiunta dalla professoressa Aralia che le arrivò vicino sogghignante ed esclamò: «Ehi, Athena! Che cosa hai fatto a Cheren? L’ho sentito imprecare!»
Castiga alzò le spalle, si voltò a guardarla e rispose: «Semplice prof... ho vinto! Insiste nel lottare e poi perde!»
Aurea sorrise ma guardandola negli occhi, vide quel che più la tormentava. Sospirò e buttò lì: «Sono passati tre anni... eppure quello sguardo tetro e nel contempo triste non vuole sparire.»
«Cosa vuole che le dica... c’è sempre stato e non credo se ne andrà molto presto.» rispose la ragazza, alzatasi per dare un po' di erba a Hoshi, la sua Zebstrika.
La prof la osservò accarezzare la zebra e disse: «Però, tutto sommato sono contenta!»
«Per cosa?» le chiese distrattamente Castiga.
La donna indicò tutti i Pokémon lì presenti, che sempre attorniavano la loro allenatrice, e rispose: «Sguardo triste o no, almeno hai accettato loro. Non ti sei chiusa in te stessa come credevi.»
«Sì, forse. Ma vivo nel terrore che...» cominciò a obbiettare lei, ma Aurea non le permise di dire niente: «Nessuno, qui a Isshu, ti vuole così male da ucciderli. Lance non è qui, Lance non può più farti nulla. Perché, invece, non vai a Kanto a cercare un loro ricordo? Dopotutto sei cambiata molto da allora… tre anni sono sempre tre anni, soprattutto per un’adolescente. Non ti riconoscerà nessuno, vedrai!»
Athena sospirò e replicò: «Non so... non essere lì mi ha aiutata a superare il lutto.»
«Questo è l'ultimo passo.» mormorò la donna, mettendole una mano sulla spalla: «Se riuscirai a stare in posti che te li ricordano senza crollare, vorrà dire che l'avrai superato veramente e potrai passare oltre.»
La ragazza ci pensò su un po’, ma si decise. Montò su Wargle, il suo forte Braviary, e partì verso Kanto, la sua regione natale, con Zekrom al seguito.

 

~§~


INTERMEZZO: LA NUOVA VITA

La ragazzina era appena arrivata al laboratorio e la professoressa Aralia era inquieta. Aveva deciso di tenerla con sé per vedere se riusciva a renderla più umana, ma ora, cominciava a pensare di aver fatto una sciocchezza.
Era terrorizzata da quella quindicenne, tetra e inquietante. Le bastava solo vedere quello sguardo rosso e assassino per starle alla larga. In più, aveva quel pugnale che non abbandonava mai, che lucidava e affilava tre volte al giorno. Come avrebbe fatto a vivere per sempre con lei?
“Come farò con quella bestia in casa? Devo stare molto attenta…” pensò, impaurita. Si maledisse per quella balzana idea che le era venuta in mente dopo aver visto due lacrime che potevano benissimo essere finte.
Il suo laboratorio era a Soffiolieve, una città tranquilla. Era un enorme fabbricato, costruito su due piani. Al piano terra c’era il laboratorio Pokémon, con tutti gli strumenti e i macchinari per lo studio delle creature, mentre al piano superiore c’era un piccolo appartamentino, con due stanze, un bagno e un piccolo soggiorno-cucina.
La donna aveva accompagnato l’ospite, se così si può definire, alla seconda stanza, quasi tremando, e poi era fuggita a gambe levate, dicendole l’ora di pranzo e cena mentre correva. E la convivenza era cominciata. Di giorno, la studiosa stava sempre con tutti i sensi all’erta mentre la sera stendeva la ragazza con il sonnifero, messo nell’acqua prima dell’ora di cena. Doveva almeno dormire senza paura, si disse, quasi per giustificare quell’atto.
Athena però non sembrava ostile; se ne stava sempre in disparte, persa, guardando l’orizzonte, e, delle volte, cercava di uccidersi, ma veniva fermata in tempo. Ma neanche questo l'aveva mai spinta ad attaccare.
La donna faceva pranzo e cena ad un’ora precisa e Athena era incredibilmente puntuale. Spaccava il secondo ogni volta. Mai un anticipo, mai un ritardo. Precisa come un orologio. Cosa che incuriosiva non poco la studiosa che però non si azzardava a fare domande. Aveva paura che rompere quel silenzio potesse segnare la sua condanna a morte.
Nel poco tempo che la vedeva, però, Aurea cercava di osservare la ragazzina senza dare nell’occhio, quasi con curiosità. Aveva saputo della morte dei suoi Pokémon e non si capacitava di quel profondo dolore che vedeva. Athena aveva commesso omicidi su omicidi, torture su torture. Come poteva essere così immensamente triste e addolorata?
La studiosa l’aveva vista all’opera in passato, quando studiava da Oak. Lui era lo studioso Pokémon della regione di Kanto, un uomo piuttosto anziano ma molto energico, con dei corti capelli bianchi e l’espressione severa. Indossava sempre il camice sopra varie polo colorate e i pantaloni marroni.
In realtà, Aurea aveva visto ben poco di quello che poteva realmente fare il Demone Rosso, visto che non c’erano state vittime. Ma le era bastato.
Una dodicenne. Era arrivata senza reclute, senza scorta. Lei e Pidg, il suo fedele Pokémon volante. Non si era dilungata in discorsi. Era entrata, scardinando la porta, e aveva detto: «Qui tutti i Pokémon di questo posto. Subito.»
Aveva un tono di voce duro, cattivo, lo sguardo gelido era crudele, velato di ira malcelata.
Aralia non aveva mai visto il professor Samuel Oak impaurito, ma quel giorno era terrorizzato. Aveva ordinato a lei di nascondersi e non farsi vedere per nessuna ragione e aveva aspettato, solo, la bestia, dopo averla vista arrivare dalla finestra. Quando lei era irrotta, Aurea avrebbe voluto aiutarlo, ma ricordandosi l’ammonimento dell’uomo, era rimasta al suo posto, osservando tutto ciò che stava accadendo.
Mentre Athena esaminava il laboratorio con lo sguardo, soffermandosi un po’ troppo sul nascondiglio di Aralia, Oak si era opposto, dicendole che non aveva alcun diritto di prendersi i loro Pokémon; Aurea era sbiancata. Quella ragazzina, alta solo un metro e trenta, aveva preso l’uomo per il colletto della polo, puntandogli un, anzi quel pugnale alla gola, e aveva detto gelida: «O fa quello che ho detto, o... può dire addio a questa baracca. Con tutto il contenuto.»
Sembrava avesse cambiato la frase all’ultimo istante, come se potesse fare solo quello.
Poi, aveva preso una ball e fatto uscire un Charizard enorme, con una benda sull’occhio sinistro e una cicatrice sul destro, che si era messo a ringhiare, per sottolineare che facevano sul serio.
Oak aveva scosso la testa e lei aveva sbottato, seccata: «Ringrazia che non ti posso uccidere.»
L’aveva lasciato andare e poi era uscita dal laboratorio.
Sia il professore, che Aralia dal suo nascondiglio, l’avevano osservata contare i passi, voltarsi e dire:
«Fiamma. Brucia questa catapecchia.»
Il Charizard si era voltato, creando delle vampe di fuoco tra i denti, pronto a lanciare una potente fiamma dalle fauci spalancate.
Oak era corso fuori, dicendo: «Va bene va bene… hai vinto.»
Con un ghigno di crudele vittoria, la ragazzina aveva interrotto l’offensiva. Con infinita pazienza, aveva aspettato che lui tornasse con una borsa piena di Pokéball e l’aveva presa quasi con indignazione che non sfuggì all’attenta Aralia. Poi, se n’era andata senza nessun'altra minaccia.
Così, la donna si trovava a rimuginare su ciò che vedeva e ricordava, senza capire, mentre la guardava dormire un sonno senza sogni.
Un paio di giorni dopo, si decise; prese la cornetta, fece il numero e, accostando il ricevitore all’orecchio, attese.
«Pronto?» rispose una voce.
La donna fece un respiro profondo, per calmare i nervi, e poi salutò: «Professor Oak... salve. Si ricorda di me? Sono Aurea Aralia!»
«Salve, collega!» replicò Samuel Oak, il ricercatore della regione di Kanto: «Come stai?»
«Bene, grazie.» replicò imbarazzata lei; era strano sentirsi chiamare così dal suo mentore e maestro: «Anche lei spero…»
«Certamente. A cosa devo questa chiamata?»
Cominciando a balbettare dall’ansia di far trapelare qualcosa di compromettente, Aurea disse: «Ecco vede... ho sentito della disfatta del Team Rocket e...»
«Una grande notizia!» esclamò lui, senza nascondere la felicità che provava dopo anni di terrore: «È arrivata fin da voi quindi? Kanto e Johto sono in festa! Dopo il ritorno di quelle quattro bestie demoniache credevamo davvero che non saremmo sopravvissuti!»
«Certo, certo.» quasi sminuì la donna, volendo tagliare tutti i convenevoli e andare dritti al sodo: «Volevo chiederle... cosa sa di preciso del Demone Rosso?»
Oak si fece perplesso, per via della strana domanda, e chiese: «Perché mi fai questa domanda, Aurea? È successo qualcosa?»
«Oh no! Solo semplice curiosità!» rispose lei, con una nota di imbarazzo nella voce e il panico nel cuore.
Se avessero saputo che stava nascondendo il terrore di Kanto e Johto, sarebbe scoppiato un putiferio e la sua credibilità come retta e onesta studiosa Pokémon sarebbe andata miseramente in briciole.
Il professore fece ancora una pausa, nella quale Aurea temette il peggio, ma poi, con un sospiro e un po’ di terrore, rispose: «Quella era la più piccola e la peggiore. Lance ha affermato di averla uccisa con le sue mani. Che coraggio! Uccidere quel mostro deve essere stata un impresa degna di un eroe. E come tale sarà acclamato, il nostro Campione! Comunque... quella belva non ha, anzi non aveva, sentimenti. Non credo nemmeno sappia cosa siano. E lo sai anche tu Aurea com’era fatta. Uccideva a vista. Ti basti sapere questo.»
Lei annuì ma replicò: «Sì, lo so, però... sembrava legata da vero affetto ai suoi Pokémon.»
«Devo darti ragione.» ammise Oak, forse un po’ controvoglia: «Sai, io e il prof Elm, lo studioso di Johto, abbiamo supposto che fosse affetta da psicopatia.»
«Cioè?»
«Non è capace di provare sentimenti, ma forse può crearne dei surrogati, razionalizzando quello che succede.» le spiegò semplicemente l’uomo: «Credo abbia deciso che i suoi Pokémon erano importanti e quindi doveva difenderli, ma senza provare realmente affetto... anche se queste sono solo teorie. E di certo, come non si poteva chiederlo direttamente a lei allora, non si può fare adesso che non c'è più.»
«Capisco…» annuì la donna, pensando a un modo per chiudere il discorso e attuare il piano; avuta l’illuminazione, esclamò, con un finto tono di stupore: «Oh! Un nuovo allenatore! Mi scusi professore, ma devo lasciarla! Mi stia bene!!»
Cinguettante, chiuse la chiamata, sperando di non avere destato sospetti, agganciando forse con troppa forza il ricevitore. Poi, si perse a pensare, togliendosi il camice per cambiarsi e andare finalmente a letto: “Razionalizzare ciò che le sta intorno... Ora è KO con il sonnifero, ma devo almeno tentare.”
L’occasione si presentò con un piccolo Oshawott ribelle, che rifiutava ogni allenatore presentatogli. La professoressa osservò inorridita l’indifferenza con cui la ragazza aveva fermato l’attacco dell’Oshawott e gli aveva tirato un calcio. Nessun rimorso, nessuna pietà. Notò anche che Athena non aveva infierito notando la sua espressione e se n’era andata.
Aurea soccorse il Pokémon, ma lui, testardamente, si rialzò e inseguì la ragazza. Restò, però, molto deluso dall’indifferenza di colei che voleva come partner, ma non si arrese. Aveva ostinazione da vendere. E tentò per due settimane di fare colpo: sorrisi, aiuti, scherzetti innocenti, occhi dolci… ma nulla. Lei restava impassibile. Sembrava che nulla potesse scalfire il suo cuore ghiacciato.
E infine, quasi si ammazzò sul tetto del laboratorio.
Aurea l’aveva visto cadere con un misto di orrore e senso di colpa, ma poi, con meraviglia, aveva visto la ragazzina prenderlo al volo e salvarlo da morte certa. Nemmeno Athena sapeva perché lo aveva fatto. Oshawott si riempì di speranza dopo quel gesto, ma venne subito declassato da quel: «Non lo voglio.».
Il piccolo Pokémon, affranto, la guardò andare via, ancora.
La professoressa era furibonda. Rischiava moltissimo, ne era consapevole, ma non ce la faceva più a vedere la sofferenza di quel piccolino. E così, durante la cena, quando lui venne brutalmente ignorato mentre cercava di aiutare la ragazza, portandole le posate, esplose: «Insomma, Athena! Possibile che tu non veda quanto sta male quel piccolo Pokémon?!»
L'aveva visto uscire talmente giù di corda che non se l'era sentita di chiudere gli occhi un'altra volta.
Athena alzò appena lo sguardo dal piatto, accigliata e leggermente stupita dal fatto che la donna le stesse parlando.
«No.» rispose secca per poi riprendere a mangiare come se nulla fosse, ritornando a fissare il piatto.
Quella era una delle rare volte in cui la scienziata si azzardava a parlarle e quel tono gelido, quello sguardo ghiacciato e cattivo, la fecero rabbrividire.
Ma non doveva mollare, così replicò: «Mi stai dicendo che non te ne frega niente?!»
«Esattamente.»
Aurea non sapeva cosa rispondere. A quanto pareva, Oshawott le era totalmente indifferente.
«Però i tuoi defunti Pokémon non erano così poco importanti, eh?!» incalzò, anche se il buonsenso le consigliava di lasciar perdere.
La ragazza alzò di nuovo lo sguardo, irritata da quel tono e dal discorso a prescindere, e rispose: «Non parli di cose che non sa.»
La donna sostenne lo sguardo, anche se sotto, sotto tremava, e ribatté: «È vero, non so... ma mi chiedo come abbiano fatto a starti così a cuore.»
«Non sono affari suoi.» tentò di chiudere il discorso Athena, giusto per non perdere le staffe e perdere il vitto e alloggio gratis che aveva ottenuto senza fare niente.
Aurea decise di rischiare il tutto per tutto, consapevole che si stava scavando la fossa con le sue stesse mani.
«Probabilmente erano pazzi anche loro...» buttò lì, con una punta di simulato disprezzo: «Folli Pokémon pazzi che si sono meritati la fine che hanno fatto.»
La reazione fu quella che si aspettava: la ragazzina le saltò alla gola come una belva, gli occhi rossi accesi dall’ira, e la sbatté contro il muro, premendole la lama del pugnale alla gola.
«Non osare mai più parlare di loro in quel modo.» minacciò, con la voce vibrante di rabbia.
Aurea aspettò a tirare fuori la siringa con il sedativo. La guardò dritta negli occhi, decisa, e con il fiato mozzo, mormorò: «Mi chiedo come abbiano fatto a volerti bene... sei solo un animale.»
Lei ringhiò, mantenendo chissà come il controllo delle sue azioni: «Si sbaglia. Io non sono un animale... sono molto, molto peggio.»
La donna tossì, senza fiato e terrorizzata, ma rispose: «Non riesco a capire... tu non provi sentimenti. Cosa ti lega a loro? Tu non sei capace di amare, perché ti arrabbi tanto?»
La ragazza rimase colpita da quelle domande e lasciò andare la donna. Lei si massaggiò il collo, pensando: “Incredibile. Ha funzionato.”
Cercando di controllare il tono di voce, che tremava dalla paura, disse: «Ascolta, perché non parliamo un po’? Aiuta molto a comprendersi...»
Lei non rispose, prese il bicchiere dove la scienziata aveva messo il sonnifero di nascosto e lo bevve in un sorso. Poi se ne andò via, lasciando però lì la sua arma. La donna osservò quella lama, con paura e riverenza... aveva fatto scorrere tanto di quel sangue... osservandola con curiosità, dovette ammettere che era un’arma molto bella, quanto pericolosa. L’elsa era rivestita di cuoio, la lama era doppia: due fili incassati l’uno nell’altro, più spesso al debole e più fine al forte. Lo prese e lo mise fuori dalla porta della stanza. Doveva restituirlo, anche se rischiava di morire proprio a causa di quella lama ogni giorno.
Da quella sera, ogni volta, a cena, Aurea tentava di fare conversazione, di farla parlare un po’. Le chiedeva se le piaceva la cena, cosa avesse fatto il pomeriggio… cose futili, di poca importanza.
All’inizio, Athena non era molto dell’idea e si chiudeva in un ostinato silenzio, ma poi, sera dopo sera, cominciò ad aprirsi pian piano. La professoressa aveva una pazienza pressoché infinita e non la spaventava aspettare i suoi tempi. Aveva visto che come carattere era molto chiusa e solitaria, tetra e delle volte quasi cattiva. Ma aveva deciso cosa voleva fare e non voleva cedere. Doveva solo essere calma e comprensiva. Quasi affettuosa. Ma soprattutto non doveva farla arrabbiare.
I loro discorsi si fecero sempre più lunghi, anche fino a sera inoltrata, finché la donna non volle porre domande più serie, per capire meglio la situazione; una sera, le chiese: «Dimmi una cosa… ti ricordi quando andasti al laboratorio del professor Oak?»
La ragazza si fece attenta e replicò: «E lei come fa a...»
«C’ero anche io ma non è questo il punto.» la interruppe la studiosa, con un cenno di noncuranza con la mano: «Mi chiedevo perché rubasti quei Pokémon... forse mi sbaglio ma, sono convinta di averti letto quasi indignazione nello sguardo quel giorno.»
Lei volse lo sguardo al muro, come persa nei pensieri, ma non rispose.
«A cosa pensi?» le chiese Aurea, un po’ titubante visto il silenzio ma convinta.
Athena borbottò di risposta, quasi parlando a se stessa: «Allora non sono pazza.»
La donna la guardò, inarcando un sopracciglio, e la ragazzina, alzato lo sguardo e notata l’espressione, accennò un sogghigno divertito e rispose: «Nel senso che intende lei forse sì, ma non quello che intendo io. L’avevo vista, maledizione! E ho pensato a un’allucinazione.»
Senza parole, la scienziata mormorò: «Che ... cosa?»
«Vediamo se ricordo bene…» continuò lei, pensando intensamente e bevendo un sorso d’acqua, guardando di lato: «Angolo sinistro, dentro a quell’armadio rosa shocking che stonava con il resto della stanza.»
La studiosa fu costretta ad annuire, colta in flagrante, e commentò, per sdrammatizzare e non svenire visto quanto aveva rischiato: «Il professore non ha mai voluto darmi retta! Quell’armadio era assolutamente da ridipingere.»
La ragazza allargò il suo mezzo sorrisetto e Aurea aggiunse: «E così mi sono nascosta così bene da ingannare perfino l’occhio del Demone Rosso. Questa è classe.»
«A quanto pare…» borbottò solo lei, tornando seria e nascondendo uno sbadiglio.
La donna vide che non sembrava particolarmente nervosa, così osò andare avanti, ponderando più che poteva le parole: «Però non ti andava, dico bene?»
Athena posò la guancia sulla mano, appoggiandosi al tavolo con il gomito e guardando di lato con gli occhi semichiusi; poi, rispose: «Il Grande Giovanni lo sa che non mi piace rubare. C’era tanta gente disponibile, eppure continuava a ordinarmelo.»
«Non ti piace rubare?» ripeté la studiosa, non comprendendo le parole che la ragazzina spiegò con un secco: «No. A me piace uccidere.»
Il sonnifero fece il suo lavoro e la quindicenne, posandosi al braccio, si addormentò profondamente. La donna la sollevò, prendendola tra le braccia, con la testa persa dietro a quello strano discorso. Comunque, aveva visto che con lei poteva parlare di tutto, bastava porre le domande giuste per non irritarla.
Passò il tempo e ogni sera parlavano sempre più di cose serie, che facevano lavorare la mente della donna su possibili risposte alle tante domande che la tormentavano. Come poteva Athena essere così? Tranne forse per la freddezza con cui la trattava, non sembrava minimamente la bestia che per anni aveva terrorizzato un intero continente. Com’era possibile? Doveva per forza esserci sotto qualcosa.
Così, una sera, preso il coraggio a due mani, o forse era solo pura incoscienza, Aurea si buttò, pronta a tutto, e chiese: «Vorresti... rispondere alla domanda che ti feci quella sera? Se non vuoi non ti obbligo, ma mi incuriosisce.»
Athena la guardò, adombrandosi di botto. Se era entrata nella stanza tranquilla, ora cominciava a farle paura. Aurea sedette, deglutendo e sperando di non venire uccisa. Con uno sguardo del tutto poco amichevole, la ragazza fece altrettanto e chiese: «Perché le interessa?»
La scienziata deglutì, ma puntò tutto sulla sincerità; non sapeva se avrebbe retto un’altra aggressione ad arma tesa, ma confidava nel forse fragile ma comunque esistente rapporto che avevano instaurato negli ultimi tempi: «Vorrei saperne un po’ di più, tutto qui. Per conoscerti meglio e capire.»
Lei la fissò, gelida, non molto propensa al dialogo. Però, forse, quella donna poteva darle una risposta a quel male strano e interiore che subiva da troppo tempo. Così, sbottò: «Non lo so cos’è… ma sentivo che dovevo proteggerli. Che loro potevano starmi vicino. Che a loro potevo dire tutto, fare qualunque cosa e non mi avrebbero mai abbandonata. Erano la mia famiglia.»
Aurea annuì interessata e chiese: «E quando, invece, se ne sono andati? Si è semplicemente “disattivato” questo ordine inconscio?»
La ragazza scosse la testa e rispose: «È stata una cosa strana… non avevo mai provato quella sensazione.»
«Descrivimela.»
Lei si toccò la pancia e borbottò: «Era come un groppo qui, in fondo allo stomaco… ma questo non ha basi scientifiche. Conosco il corpo umano come le mie tasche e non è una cosa normale.»
«Vai avanti.» incoraggiò la studiosa.
«Questa specie di nodo non si è sciolto ma si è spostato qui, sul cuore. E poi.. ho cominciato a piangere. Non mi era mai successo. Non sapevo nemmeno cosa volesse dire “piangere”.»
Aurea non poté non sorridere a quel tono di voce. Era diverso dal gelido e distaccato che aveva sempre. La ragazza sembrava davvero preoccupata per quel malore che non conosceva e del quale probabilmente aveva un po’ di timore. Le faceva quasi tenerezza ma non reputò opportuno dirlo. Si limitò invece a rispondere ai suoi dubbi: «Questo, Athena, si chiama dolore. È un’emozione...»
Perplessa, lei chiese: «Una… cosa?»
«Un’emozione.» ribadì la studiosa, cercando di farle capire che non si stava inventando le cose per confonderla: «Sono delle sensazioni forti, molto forti che invadono l’animo umano. Tu ne hai mai provate?»
Lei inarcò un sopracciglio: «Prima d’ora… no. Se non... la rabbia.»
«Rabbia?»
Athena annuì e aggiunse: «Sì. Quella sì. Ma solo quella.»
«Non provavi niente nemmeno quando hai commesso... quello che hai commesso?» chiese nuovamente la studiosa, cercando di capire meglio. Sapeva che spesso il Demone scattava rabbiosa alle provocazioni, ma da come ne parlava la ragazzina, sembrava fosse più frequente di quanto pensasse.
Lei rispose, indifferente: «No. Uccidere mi da solo un po’ di adrenalina in più. Niente di che in verità… mi diverte e basta. E mi aiuta a sfogare la rabbia. Sto meglio, dopo. Sempre.»
Il tono incolore e lo sguardo impassibile fecero venire i brividi alla studiosa. Ma la ragazza, presa dal discorso, andava avanti imperterrita, guardando di lato, persa nei ricordi: «Forse quando ho fatto a pezzi un uomo con un taglierino, è stato diverso… mi sono davvero arrabbiata, ma era perché avevo sbagliato l’inclinazione della lama. Ha cominciato a sanguinare che pareva un idrante. Un errore che potevo anche risparm…» si bloccò di colpo vedendo la faccia di puro orrore dipinta sul volto della donna.
Interdetta, la ragazza la guardò leggermente perplessa, dato che non la stava minacciando e quindi non avrebbe dovuto teoricamente avere paura di nulla.
Aurea fece un respiro e chiese: «Ma… ma… non provi un po’ di rimorso?»
«Rimorso? Cos’è?» domandò invece di rimando lei, perplessa da tutte quelle strambe parole mai sentite che stavano saltando fuori da quella conversazione.
«Quando senti di aver fatto qualcosa di sbagliato.» rispose prontamente la donna.
Athena scosse la testa e ribatté, quasi a macchinetta: «Non esistono il giusto e lo sbagliato… esiste solo il potere e chi è abbastanza forte per averlo ed esercitarlo.»
Sembrava quasi una frase imparata a memoria; la professoressa soppesò quelle parole e chiese: «Chi ti ha detto questa frase?»
«Il Grande Giovanni.»
Aurea immaginava quella risposta, così la fissò con intensità, cercando di far trasparire anche le emozioni, oltre alle parole, e cominciò, dicendo: «Ascolta Athena; se me lo permetti vorrei dirti una cosa.»
Lei la guardò con curiosità, così la donna si fece coraggio; o la va, o la spacca, si disse, per convincersi del tutto a parlare: «Rispondi a questa domanda… a cosa ti ha condotto questa filosofia?»
«Al potere di fare quello che volevo o che mi piaceva.» rispose subito lei.
«Anche ora?» incalzò la donna, sottintendendo ciò che la ragazza capì, e che si affrettò a negare dicendo, più cupa di prima: «È stato Lance a ucciderli.»
Non volendo mollare la corda, volendo approfittare più che poteva della parvenza di dialogo, Aurea replicò: «Pensaci bene. Non ha cominciato lui.»
Athena provava parecchio rancore per il Campione e non voleva ammettere l’evidenza, continuando a scaricare la colpa su di lui. Ma Aurea non intendeva gettare ancora la spugna. La quindicenne si difendeva a parole, non era ancora passata alle mani, quindi poteva ancora stuzzicarla. Ovviamente non troppo. Riuscì però a metterla con le spalle al muro, costringendola ad ammettere, seccata e quasi sputando le parole:
«Ok. Ha ragione. È colpa mia se sono morti.»
«No, non ci siamo.» scosse la testa Aurea, sentendo il tono della sua voce: «Non voglio che tu me lo dica perché pensi che sia quello che voglio sentirmi dire. Dovrai esserne convinta.»
La ragazza borbottò qualcosa di incomprensibile, mezza seccata da quella forzatura, e la prof aggiunse: «Vorrei chiederti un’ultima cosa... poi ti lascio andare a dormire.»
Lei rivolse di nuovo l’attenzione alla donna, sperando non volesse ancora tormentarla con i fantasmi del passato. In quel caso, se ne sarebbe andata. Aurea respirò a fondo, poi chiese: «Perché hai salvato Oshawott?»
«Cosa?»
«Sul tetto del laboratorio... perché hai rischiato di farti del male per aiutarlo?»
Athena rimase un attimo interdetta, poi rispose: «Non lo so. O meglio... non me lo so spiegare.»
Ricominciando a toglierle le parole di bocca con la pinza, la studiosa chiese: «Cos’hai provato vedendolo?»
«All’inizio, quando l’ho visto zampettare verso di me, nulla.» rispose Athena, scrollando le spalle: «Ma poi la zampa gli è scivolata sulla tegola e ha cominciato a precipitare. Non so bene cosa mi sia preso, ma qualcosa nella testa mi ha detto di prenderlo. Istinto forse, non lo so.»
«Ma poi hai detto di non volerlo.»
«L’istinto era di salvarlo, nient’altro...» rispose con l’ennesima alzata di spalle la ragazza che poi si alzò e andò in camera. Aveva detto un'ultima domanda e poi sarebbe potuta andare; e così aveva fatto.
Aurea guardò la pastiglia di sonnifero e sorrise. No, non aveva più paura di lei, anche se non ne capiva il motivo. Quella chiacchierata le aveva aperto un mondo, nel quale, forse, Athena poteva essere una persona quasi normale e dove loro sarebbero magari potute essere almeno amiche.
Athena, però, ritornò poco dopo, dicendo: «Non per dire ma... si è dimenticata il sonnifero questa sera.»
La professoressa, che stava mettendo in ordine la cucina, la guardò, sconvolta e sbalordita, strappandole un sogghigno divertito; la ragazza si appoggiò allo stipite della porta, incrociando le braccia; fissandola con uno sguardo indecifrabile, aggiunse: «Oh... andiamo, non mi guardi così. Mi crede scema?»
Aurea avvampò e farfugliò cose senza senso, non sapendo cosa rispondere per essere stata colta in flagrante così; non si sarebbe mai aspettata che la ragazzina avesse già scoperto il suo trucchetto per dormire.
Il sogghigno della ragazza si fece più ampio; aveva qualcosa di assurdamente inquietante ma non era minaccioso. Solo molto, ma molto, divertito. Ancora ridacchiando, Athena disse: «Sarò pazza, ma di sicuro non mi manca la materia grigia. Non è da me dormire più dell’ora in cui sorge il sole e non mi era mai capitato di svegliarmi con un mal di testa cronico ogni mattina. Uno più uno fa due, cara professoressa...»
«Io... perché non...» farfugliò ancora la donna, formulando qualcosa che fosse simile a parole, ma la ragazza le completò la frase, non riuscendo a trattenersi dal ridere per la sua reazione esageratamente terrorizzata: «Gliel’ho detto? Be’ andiamo... lo so che non si fida di me. Ed è naturale. Un’animale non si sa mai come ragiona. Se, ragiona...»
Salutò con un tono di voce tetro, velato di minaccia: «Buonanotte...»
Se ne andò con un’occhiata e un ghigno del tutto poco rassicuranti. Anzi.
Aurea non riuscì a non rabbrividire. Quella ragazza era pericolosa, era evidente. Ma aveva deciso di darle fiducia.
Si divertiva a terrorizzare? Bene! Lei non avrebbe avuto paura.
Quella notte, Aurea andò a dormire molto tesa. Era la prima volta che non le dava il sonnifero e rischiava molto, la sua stessa vita. Ma, fiduciosa, si addormentò.
Quella stessa notte, un’ombra si aggirò per l’appartamentino sopra il laboratorio. Silenziosa e rapida, l’ombra arrivò nella camera della professoressa Aralia ed entrò. Due occhi rossi guardarono la donna dormire un sonno agitato, forse occupato da incubi. L’ombra si avvicinò al letto, fissando la donna ed estraendo un pugnale. La figura spostò i capelli della studiosa dalla giugulare con la lama, accarezzando il punto dove l’arteria carotidea pulsava di vita. Dopo qualche minuto, l’ombra uscì come nulla fosse.
La mattina dopo, Aurea si svegliò in un bagno di sudore.
“S-sono... viva!” pensò, quasi euforica. Non poteva credere che non le fosse successo assolutamente niente. Si vestì e uscì dalla stanza velocemente, dirigendosi verso quella dove dormiva Athena. Bussò ma non ottenne risposta. Pensando dormisse, aprì lentamente la porta, cercando di non fare rumore, e non la trovò. Presa dal panico perquisì tutto il laboratorio e l’appartamento, senza trovarla.
“No... non può essersene andata! No, no, no!” pensò ansiosa, mentre correva di qua e di là, disperata, con l'ansia nel cuore. Non poteva davvero essere scappata. Dove sarebbe andata? Era sola, senza protezione, senza un posto dove andare... la sua stessa ansia per quella specie di bestia la stupì, ma era più forte di lei. Si era... affezionata.
Andò in giardino, guardandosi intorno frettolosamente, ma non la vide. Stava per andare a prendere il telefono per chiamare la polizia, cercare aiuto per ritrovarla, quando…
«Ehi, ma che le succede? Ha perso qualcosa?» domandò una voce dall’alto.
Riconoscendola, la donna tirò un sospiro di sollievo, sentendo l'ansia scomparire, e alzò lo sguardo verso il tetto. Lì, seduta sul camino spento, c’era Athena. Vedendo lo sguardo sollevato della donna, la ragazza mostrò il suo ghigno arrogante ma divertito.
«Pensava fossi scappata!?» intuì al volo, scoppiando a ridere: «Che cosa divertente!»
La professoressa le sorrise, accasciandosi sulla panchina, sfinita da quel colpo di ansia mattutina, e rispose: «Allora c’è qualcos’altro che ti diverte!»
Lei sogghignò di risposta, muovendo i piedi a penzoloni nel vuoto: «Molto astuta davvero. Devo stare attenta a come parlo con lei.»
Aurea la guardò scendere con agilità dal tetto; la ragazzina le fu in breve tempo vicina, stiracchiandosi annoiata, e la studiosa chiese: «Piuttosto... cosa ci facevi lassù? E soprattutto... cosa ci fai già in piedi?»
Lei alzò le spalle, per niente seccata da quel terzo grado, e rispose: «Senza il sonnifero ho ripreso il ritmo. Mi sveglio da sempre all’alba, se ne faccia una ragione. E comunque, non facevo nulla... c'è una bella vista dal tetto.»
Aurea fissò il tetto e vide Oshawott nascosto, che probabilmente aveva cercato ancora di fare amicizia con la ragazzina. Athena notò il suo sguardo e aggiunse: «Quello non c'entra. Mi ha seguito. Ma stavolta è stato attento a non scivolare.»
La studiosa sorrise, vedendo come, però, lei non lo avesse scacciato, e la ragazza aggiunse: «Stavo pensando a quello che mi ha detto ieri sera... ho preso il vocabolario e ho cercato la parola “Rimorso” e poi “Senso di colpa”. E mi sono resa conto di non averli mai provati. Così sono giunta a una conclusione: se quello che mi ha detto lei è vero, cioè che un essere umano è guidato dai sentimenti, e io non li provo… probabilmente, oltre che essere pazza, ho altro che non va.»
La professoressa sorrise dolcemente e, da quel momento, il loro rapporto cambiò radicalmente. Aurea aveva capito come prenderla e come comunicare con lei.
Forse non era tutto perduto.
Forse c’era una speranza.
Da quel giorno, ogni sera, parlavano di cose serie, senza problemi e senza paura. La ragazza diceva quello che pensava o quello che le piaceva e la professoressa la correggeva secondo le regole morali e umane.
Anche di giorno, stavano insieme. La donna non le permetteva più di isolarsi, ma le faceva fare di tutto e notò che aveva un talento naturale nel trattare con i Pokémon. Anche dove che lei falliva, con tutti i suoi studi, la ragazza riusciva.
Un giorno, davvero curiosa, le chiese: «Di’ un po’... ma mi dici come fai?»
«A fare cosa?» rispose lei, perplessa.
«A trattare con così naturalezza con i Pokémon. Voglio dire, calmare un Beartic furioso non è da tutti.»
La ragazza la guardò, sempre più perplessa, e replicò: «Non capisco cosa voglia dire…»
Spazientita, la donna esclamò, ancora sconvolta dall’averla vista mettere la testa dentro la bocca spalancata e piena di denti aguzzi del Pokémon orso polare: «Come diavolo hai fatto a capire che quel Beartic aveva un sasso incastrato nei molari?!»
Athena alzò le spalle e rispose: «Ah, quello. Beh, me l’ha detto lui.»
La donna la guardò sgomenta: «Cosa?»
«Lui ha detto a me che aveva mal di denti. Allora ho guardato, ho visto il sasso e gliel’ho tolto.» ripeté la ragazza, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
La donna la fissò, elaborando la frase, mezza sconvolta, e borbottò: «Fammi capire... tu capisci ciò che dicono i Pokémon?!»
«Come se parlasse lei.»
La donna scosse la testa, incredula, poi si mise a fare test su test, irritando la ragazza. Le presentava un Pokémon, le chiedeva cosa dicesse, e poi chiedeva conferma al Pokémon stesso. Ed era sempre tutto giusto.
«Ma non si stufa?» chiese seccata Athena, seduta per terra a gambe incrociate con la testa appoggiata alla mano, dopo il decimo test, un Unfezant.
La professoressa arrossì, comprendendo il suo fastidio, e borbottò: «Oh. Ehm... scusami.»
La ragazzina si alzò stiracchiandosi, felice di vedere che si era stufata di tormentarla, e chiese: «Ma è così strano?»
Vedendo la donna annuire, riprese: «Se vuole le dico come ho imparato…»
La donna annuì interessata, così le raccontò la sua storia. Prima di entrare nel Team Rocket. Prima di conoscere il Grande Giovanni.
Un paio di mesi dopo, Aurea la raggiunse e le chiese, porgendole un barattolo di pastiglie rosse: «Ascolta, lo so che forse non ti piacerà. Ma prenderesti queste?»
«Che cosa sono?» domandò di rimando la ragazza, perplessa.
La studiosa annuì e rispose: «Se ho ragione, ti aiuteranno a provare qualcosa.»
«Si può... spiegare meglio?»
«Certo. Vedi... secondo me tu non sei sbagliata, ma malata. Una malattia del cervello, che si chiama psicopatia.»
«Malattia? Non è un insulto e basta?» borbottò lei, perplessa, ricordando che alcune volte era stata appellata come “maledetta bestia psicopatica”.
«No.» rispose Aurea, mostrandole delle carte sulle quali erano documentate tutte le sue ricerche in merito: «È una malattia del cervello che inibisce i sentimenti e quindi porta a fare cose disumane senza provare nulla, se non divertimento.»
La ragazza ascoltava attenta. Il cervello era l’unica parte del corpo umano che non conosceva bene; Aurea proseguì, notando il suo interesse: «Alcuni studiosi affermano che le emozioni e il comportamento sono regolati da una parte specifica del cervello. Queste pastiglie le ho fatte con l’aiuto di un Alakazam e di un Gothitelle. Forse... forse possono riattivare quella parte del cervello e aiutarti.»
Non era convinta nemmeno lei, ma la ragazza apprezzò il gesto e provò la cura. Una pastiglia ogni due mesi.
Inoltre, Aurea aggiunse, ora più sicura nelle parole, sperando davvero che accettasse: «Dato che mi sembri parecchio annoiata... pensavo di proporti di partire per il viaggio di formazione. Potrebbe aiutarti a comprendere il mondo e te stessa!»
«Il cosa?» chiese lei, confusa. Formazione di cosa?
La studiosa ricordò che, come membro del team Rocket, la ragazzina non aveva mai saputo della possibilità che veniva offerta ai ragazzini, così si affrettò a spiegare: «A Isshu, come anche a Kanto e nelle altre regioni, ci sono otto Palestre Pokémon. Gli allenatori esordienti, di solito, per diventare più forti e saldare il legame con i loro Pokémon, conquistano le Medaglie degli otto Leader e poi vanno al torneo della Lega Pokémon con l’obbiettivo di diventare campioni.»
«Ma io...» obbiettò la ragazza, pronta a protestare che i suoi Pokémon erano morti e lei era tutto fuorché esordiente.
«C’è chi sarebbe felice. E sarebbe decisamente più esordiente di te.» rispose Aurea, capendo cosa volesse dire.
Athena guardò l’Oshawott, che nel frattempo le aveva raggiunte; era la sua ombra, come al solito. Si guardarono. Lui sorrise timido, avendo sentito il discorso, e lei, dopo una leggera titubanza, sorrise di risposta.
Partirono una settimana dopo. Prima della partenza, la professoressa la prese da parte, con lo sguardo preoccupato e l'ansia nel cuore; ma anche con affetto. Accorata, le disse: «Te lo chiedo per favore, Athena. In questo viaggio, nelle città, tieniti a freno. So che per te deve essere difficile, e non so se è quello che vuoi, ma cerca di...»
«Non farò a pezzi nessuno. Promesso.»
La donna la guardò sbalordita e borbottò: «Davvero?»
Lei sorrise e, per la prima volta, sembrava sincera: «Si. Promesso.»



Spazio autrice (che parolona!):
Sì, lo so, è lungo. Ma mi piaceva così. 
Vi avverto, sono molto oscillante in quanto a lunghezza.
Ciao!

  
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