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Autore: Icegirl46    18/07/2012    2 recensioni
[...]C’era stato il sole, quella settimana. Sette giorni consecutivi, in pieno inverno a New York, e nemmeno una nuvola a oscurare il cielo, una goccia di pioggia a bagnare i rami spogli degli alberi; solo strade luminose, cielo azzurro e sereno. Forse era destino. Forse era l’unico modo che la citta`, il mondo aveva per dirgli “addio”.[...]
L'avvertimento e`'GENERALE', anche se non si trova piu` nella lista che il sito mette a disposizione.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Vogliate perdonare eventuali errori di forma. Ho scritto su un foglio di carta questa storia in piena notte, in un momento di grande commozione e dolore, e stamane ho deciso di trascriverla a computer, senza cambiare una singola parola, e pubblicarla.



Now we are free


C’era stato il sole, quella settimana. Sette giorni consecutivi, in pieno inverno a New York, e nemmeno una nuvola a oscurare il cielo, una goccia di pioggia a bagnare i rami spogli degli alberi; solo strade luminose, cielo azzurro e sereno. Forse era destino. Forse era l’unico modo che la citta`, il mondo aveva per dirgli “addio”.

A Neal il sole era sempre piaciuto; a Mozzie non faceva ne` caldo ne` freddo. Mozzie aveva passato quell’ultima settimana al suo fianco, in una scomodissima sedia d’ospedale vicina al letto dell’amico. Era rimasto accanto a lui, nonostante i germi che proliferavano in quel posto e i medici che erano senza ombra di dubbio spie governative. Lo aveva fatto per Neal, solo per lui. Aveva ricordato le lunghe camminate fatte insieme nelle stradine di famose citta` greche ed italiane, con i raggi roventi del sole a bruciare i visi di entrambi. Cosi` aveva trascorso quegli ultimi giorni con lui, in quel modo lo aveva salutato: rivivendo i tempi oramai passati, i colpi progettati insieme, le discussioni senza fine su improbabili complotti governativi, le avventure vissute in tutto il mondo. Sapeva che, se Neal lo avesse sentito, dovunque fosse in quel momento, nel suo personale limbo sospeso tra la vita e la morte, avrebbe sorriso con lui a quelle storie, e soprattutto avrebbe capito che quello era il suo modo di  salutarlo. Non un “addio”, piuttosto un “arrivederci”.

Elizabeth passava in ospedale ogni pomeriggio. Stava in piedi accanto al letto in quella stanza asettica, dopo avere sistemato le coperte ed i capelli di Neal, e guardava fuori dalla finestra mentre stringeva la mano del giovane. Lei ancora sperava. Non importava cio` che avevano detto i medici; non poteva essere vero, Neal non poteva andarsene, non se ne sarebbe andato. Si sarebbe svegliato, ne era sicura. Doveva solo aspettare. E aspettare era cio` che aveva fatto per sette lunghi, dolorosi giorni, osservando il cielo azzurro mentre beveva il caffe` scadente dell’ospedale, e pregando che Neal aprisse gli occhi, quei fantastici occhi che mozzavano il fiato, e le sorridesse disinvolto come sempre. Non aveva salutato Neal, ma di sicuro lui l’avrebbe perdonata. La conosceva bene e sapeva che quello era l’unico modo, per lei, di affrontare qui drammatici giorni senza crollare. Non c’era mai stato un “addio”, solo un “ciao”.

Peter non era andato a trovare Neal se non nella tarda serata del sesto giorno. Aveva messo sotto gli occhi di un’infermiera molto contrariata il suo distintivo di agente dell’FBI e si era fatto strada da solo, nel corridoio oramai deserto, fino alla camera del suo partner. Peter odiava gli ospedali, e detestava vedere il giovane collega disteso inconscio in un letto rivestito di lenzuola di cotone e attaccato a tubi e macchinari e flebo e monitor che facevano bip bip ininterrottamente. Neal lo avrebbe odiato a sua volta, ne era certo. Lui meritava di piu`: meritava le lenzuola di seta del suo vero letto, meritava l’ampia e confortevole camera con vista mozzafiato, meritava il silenzio e la pace dovuti a tutti coloro che riposano, per scelta o per costrizione. Non meritava di “sopravvivere” per un’altra settimana, un altro mese, un altro anno in quel posto, in quelle condizioni.

Per tutte queste ragioni, anche se Peter  non poteva sopportare gli addii, quella sera si avvicino` all’amico, gli carezzo` dolcemente la guancia, gli scosto` i capelli dalla fronte e si chino` per inalare l’ultimo pallido alone del suo costosissimo dopobarba, che era rimasto nonostante il forte odore di medicinali e disinfettanti che emanava quel luogo orribile. Accosto` le labbra al suo orecchio, e gli sussurro` poche, semplici parole che venivano dal cuore: “Grazie, Neal. Sei stato un mago della truffa, un grande partner e un ottimo amico. E anche un gran rompiscatole. Adesso sei libero, niente cavigliera, nessuno che ti inseguira` per riportarti qui: ora vai”.

Peter Burke non era mai stato un mago dell’eloquenza come Neal Caffrey, ma le sue parole dovevano aver colpito nel segno e per una volta quel giovane testardo doveva avergli dato ascolto, perche` all’alba della mattina dopo, quando si sveglio` per l’insistente squillare del telefono, fuori pioveva. Neal Caffrey era morto.





Dedicato a I. V., appassionata professoressa del liceo e grandissima donna, deceduta ieri all'improvviso, dopo essere stata travolta da un bilico.
Grazie di tutto, sempre nel cuore.
Come le dissi l’ultima volta che l’avevo vista, piu` di un anno fa oramai: “Arrivederci, Prof”.

  
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