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Autore: Subutai Khan    02/02/2007    4 recensioni
Uno dei nostri due baldi, giovani, speranzosi eroi sarà per caso caduto sotto i colpi del killer senza volto che, al termine di Claustrofobia, ha spalancato la porta della loro prigione sparando a bruciapelo?
E poi, come si suol dire in modo trito e ritrito in queste introduzioni, non è tutto oro quel che luccica. Nemmeno platino, furbetto in ultima fila.
Sperimentale, matto e un po' pericoloso se uscirà come vorrei che esca.
Genere: Drammatico, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Asuka Soryou Langley, Shinji Ikari
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Claustrofobia, Manuali per Incompetenti e Altre Amenità'
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Sono passati sei giorni da quel momento. Il momento in cui l'ho rivista camminare, dire parolacce più o meno violente e cercare di spingere se stessa al di sopra degli altri.
L'ultimo punto è stato particolarmente, dolorosamente chiaro quando, dopo che si è bevuta la storia di Ritsuko come un alcolista si berrebbe una bottiglia intera di rosso, ho provato a seguirla per confortarla un po'.
Non l'avessi mai fatto.
“Che cazzo vuoi, Shinji? Sei venuto qui per sfottere? Dopo che ho salvato quel tuo inutile culo flaccido rischiando di rimanerci secca? Eclissati. Non mi serve la tua pietà, né mi servi tu”.
Perfettamente in linea col mio usuale carattere mi sono ritratto dalla sua forma strepitante.
È vero: era preventivabile.
È vero: era stato preventivato.
Ma è stato ugualmente brutto. Brutto brutto brutto.
Le sono andato dietro avendo ben in testa l'idea che era Asuka e nello stesso tempo non lo era. Non lo era perché non ricordava la sua tormentatissima ammissione di colpa, quando si era finalmente resa conto di quanto il suo classico comportamento, con me e più in generale con tutti, servisse solo a ferire lei e chi le stava accanto. Di come non sarebbe bastata nient'altro che una piccola ritirata del suo preponderante orgoglio per renderle la vita più facile, più piacevole, più bella. Di come ci volesse quel grammo di coraggio per affrontare i problemi, senza fuggire usando la maschera della donna superiore.
Tutto questo non c'era più.
Svanito. Sciolto come si scioglierebbe quel miraggio che ormai è la neve dopo una settimana di sole intenso.
Come se non fosse mai esistito.
Peccato che sia esistito eccome. Peccato che io soffra, ben di più di quanto soffrissi prima, nel vederla ritornare a simili modi di essere e di fare. Peccato che io ricordi un'Asuka diversa: un po' più remissiva, più ragionevole e soprattutto forse, quasi, magari innamorata di me. Peccato che io avessi ben stampata in testa l'immagine di lei che, emozionale come mai l'avevo vista prima, dichiarava solennemente come la persona conosciuta sino a quel momento non fosse la vera Asuka Soryu Langley.
Già, peccato.
Sto ancora decidendo se e quanto pentirmi del mio colpo di testa.
Da una parte c'è il mio vecchio, noioso e sin troppo ignorato senso etico che mi dice, tipo disco fatto a pezzi dalle cavallette, di essermi reso colpevolmente complice degli psicolabili all'interno della NERV. In effetti il mio cervello razionale gli riconosce buona parte di ragione perché non è da persona del tutto sana di mente non riuscire ad accettare, e cercare anzi di sovvertirlo, un fatto così drastico ma in fondo naturale -non tanto nei modi quanto nei risultati, in questo caso- come la morte di una persona cara.
Dall'altra parte della barricata, a tirare insulti e pomodori marci alla fazione avversa, c'è invece il mio vecchio, noioso e sin troppo ascoltato amore viscerale. Ehi, è solo parità di trattamento.
In compenso non è tanto aggressivo nei miei confronti: si limita a ribadire, con tono compassato, come abbia fatto bene a fregarmene di stupidi problemi filosofici e per una volta abbia finalmente pensato solo a me stesso. In barba a regole, imposizioni e restrizioni.
La fai facile tu, stupido sentimento a cuoricini.
Sei stato tu a spingermi verso il punto in cui mi trovo ora. È grazie a te se ho scardinato monti, bevuto mari e abbattuto pianeti con la forza delle mani nude.
Dovrei esserne fiero. E lo sono stato, eccome se lo sono stato.
Adesso, però, lo sono molto di meno.
Anzi, non è esatto dire che non ne sono fiero.
Più che altro sono dubbioso. Molto dubbioso.
Abbiamo giocato con forze ben aldilà della nostra mera comprensione. La morte non va presa alla leggera. Non si può sperare di farla franca con tanta nonchalance.
Fra le varie motivazioni che mi ero dato per smuovermi c'era anche la meravigliosa intenzione, in quel momento falsa come una patacca di Van Gogh, di darle una nuova possibilità di vita. Falsa perché, in quei convulsi momenti di disordine mentale, ero il ritratto dell'egoismo più puro.
Non mi interessava che tornasse a vivere perché era giusto così. Mi interessava solo riaverla accanto.
Ho sottovalutato tantissimo i problemi che poi mi si sarebbero presentati, cioè quelli di rapportarmi a lei con il cosiddetto senno di poi avendo stampato a fuoco in fronte ciò che era accaduto in quel maleodorante sgabuzzino.
Lì per lì ero solo drogato d'amore.
E adesso posso dire che la cosa non mi soddisfa per niente.
Perché faccio una fatica tremenda, per non dire direttamente che non riesco, ad accettare nuovamente le prese in giro, gli insulti e i lazzi che mi tira dietro costantemente.
Per lei non è cambiato nulla. Niente di niente.
Non è consapevole. Non è conscia.
Non gliene faccio una colpa, come già detto era più che preventivato. Ma sapete, il preventivarlo non lo rende più facile da digerire.
Sono stato avventato.
Però, in fondo, non è tutto così disastroso. In fondo lei è qui, viva. In fondo ho ancora una speranza di farle vedere, di nuovo, quanto sbaglia. In fondo posso ancora raddrizzarla.
Se avessi tentennato, allora, questo adesso non sarebbe neanche concepibile.
Improvvisamente la porta di camera mia si spalanca. Ne entra un tornado rosso.
“Ehi baka, hai preparato la cena? Ho una fame ciclopica e divorerei un intero branco di cinghiali”.
Il solito tatto. Proprio da Asuka.
Sigh.
“No, a dire il vero no. Stavo...riflettendo”.
I suoi occhi diventano due fessure di pece e rabbia: “Non me ne frega niente, ho fame. Alza le chiappe e vedi di cucinare qualcosa di buono”.
“Sì, ma abbi pazienza. I fornelli mica scappano. E poi non stavo pensando a roba di poco conto. Erano cose serie”. Urca, mi dev'essere rimasto addosso un po' di fegato extra dall'ultima volta.
Le fessure nelle sue pupille diventano sempre più simili a dei puntini di lava infernale. Avanza a grandi falcate verso di me, circondata da un'aura fiammeggiante. Quando è a dieci centimetri dal mio naso si ferma, occhio contro mazza chiodata: “Stammi-bene-a-sentire. Io voglio mangiare. Alle tue ridicole elucubrazioni da bambino col pannolino sporco ci starai dietro un altro momento. Vai in cucina e spadella, com'è giusto che sia. Altrimenti raccatteranno la tua testa in Mozambico e cominceranno ad usarla come totem durante le danze tribali. Mi-sono-spiegata?”.
Succede qualcosa di imprevisto. Qualcosa di brutto. Qualcosa che è indice di predisposizione al suicidio.
Le do uno spintone.
“Mi hai stancato con queste scenate da primadonna, Asuka. Ne ho i coglioni pieni fino a scoppiare. Scendi da quel cazzo di piedistallo e togliti il pisello dalle mutande”.
Ma bene. Sono un quattordicenne morto.
Fottuta bocca. Cosa ti salta in testa?
Il ceffone che mi arriva non è più leggero, né meno doloroso di un missile terra-terra. La faccia mi si piega di quarantacinque gradi abbondanti.
“Che? Cazzo? Mi? Hai? Detto?”.
Cerco goffamente di rimediare: “Scusa, mi sono lasciato andare. Scusa”.
“Che? Cazzo? Mi? Hai? Detto?”.
Salto rapido dall'altra parte del letto. Magari così le ci vorrà un po' prima di prendermi e sgozzarmi.
“Asuka, calmati. Ragioniamo”.
“Io non voglio ragionare. Io ti voglio spellare vivo”.
Neanche fosse una tigre fa un balzo assurdo verso di me. Solo la fortuna e dei riflessi miracolosi mi evitano una dura punizione corporale.
Fuggo più veloce che posso per tutta la casa, lanciandole addosso richieste di pietà. Lei risponde grugnendo e maneggiando qualcosa a mò di forcone.
La salvezza per il mio organo genitale si presenta sotto forma di Misato, che proprio in quel momento rientra in casa e ci vede schizzar davanti a lei.
“Fermatevi! Cosa state combinando? Mi devastate l'appartamento!”.
Asuka, stranamente, si arresta. Quando non sento più la sua incombente presenza alle mie spalle mi fermo anch'io, già piuttosto stanco.
Poi qualcosa mi pizzica l'orecchio. È Misato, che ha provveduto a farle altrettanto.
Ci sbatte senza creanza sul divano.
“Allora marmocchi, che diavolo succede?”. Mai sentita così furiosa.
Asuka scatta in piedi, manco avesse le molle. “Questo screanzato si è permesso di trattarmi in maniera incivile”.
Sento in me ardere lo sdegno per la descrizione dei fatti clamorosamente lacunosa.
“Ehi! È vero, ho esagerato. Ma tu sei arrivata in camera mia senza neanche bussare e hai preteso una cena da re ignorando quello che stavo facendo”.
“E cosa c'è di male in questo?” replica con stizza.
*crack*
Ho realizzato. Finalmente ho realizzato.
Questo tono. Questa cattiveria. Questo disprezzo.
Lei non tornerà.
Questa non è lei. È solo un guscio incompleto.
Asuka, amore. Mi mancherai.
Mi metto a piangere in maniera incontrollata. O meglio, questo è ciò che vorrei fare.
Invece mi alzo dal divano, in silenzio. È così che si fa quando si commemora una persona defunta.
Mi limito a un acido “Saresti dovuta morire lì, sappilo” e me ne vado.
Mi volto un'ultima volta.
Asuka è una beffarda rappresentazione dell'odio più incandescente.
Misato piange.
Mi piace pensare che abbia capito.

[Quella notte]

Non riesco a dormire.
Come cazzo posso dormire?
Oggi ho definitivamente seppellito il mio tesoro più prezioso.
Quella che adesso se la sta ronfando della grossa nella stanza accanto mi odia.
E io odio lei.
Sì, la odio.
Odio ciò che rappresenta.
Odio ciò che è.
Odio ciò che non sarà.
Non troverò mai più il coraggio di dichiararmi.
Nella cella è stata una fortunatissima serie di coincidenze a conferirmelo, come un dio conferisce la sua benedizione ai paladini nei giochi di ruolo.
Non è cosa che mi è propria.
Non tornerà.
E, non tornando quello, non c'è possibilità alcuna che torni lei.
Tutta la convinzione. Tutta la determinazione. Tutto l'afflato dell'eroe.
Ciò con cui ho affrontato, e vinto, mio padre.
Tutto perduto nella nebbia.
E me con loro.
Non voglio star qui.
Mi alzo senza far troppo casino.
In cucina trovo la generosa scorta di birra della signorina Misato. Me ne apro una.
Sì, di solito non bevo. Ma questa è un'occasione speciale.
“Alla tua, Asuka. Che tu possa riposare in pace”.
Me la scolo tutta di un fiato. Buona.
La seconda arriva più filata di un treno.
“Alla tua, Asuka. Non avercela con me, ho fatto del mio meglio”.
E il mio gargarozzo si bagna di nuovo.
Va avanti così per sei lattine: prima di svuotarle le alzo oltre la testa e brindo mestamente al mio inestinguibile amore.
Molto prima della sesta sono ubriaco fradicio.
Le mie gambe mi guidano verso il soggiorno. Le mie mani afferrano le chiavi della Renault Alphine, appoggiate distrattamente sul tavolo. Qualcosa di non ben definito mi fa uscire di casa, scalzo e in pigiama.
In men che non si dica sono al volante del macinino più pericoloso del West.
In ancora meno, avendo fortunosamente uno sprazzo di lucidità, vedo un palo della luce rombare a tutta velocità verso di me.
Ecco, ora lo definisco.
Rimpianto.
   
 
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