In ogni caso, benvenuti!
Come altri prima di me, ho voluto inventare un piccolo seguito alla storia per dare ai nostri amanti una possibilità, vedremo se saranno in grado di coglierla. Sarà una cosa un po' sui generis però, nel senso che ho scritto questi 4 capitoli di getto, dopo aver visto il film qualche mese fa, e quasi 10 anni dopo aver visto la serie, quindi troverete delle cose un po' strane e diverse, dovute alla scarsa memoria e alla "licenza narrativa", vi avviso! XD
E che altro dire se non... Buona lettura! :)
Clouds - Nuvole
Hitomi - Luna
dell’Illusione
Guardo il cielo.
È nuvoloso. Odio quelle nuvole, e
se mi stessero nascondendo Gaea? Se proprio stanotte fosse riapparsa
sulla mia
testa e io non la potessi vedere?
Abbasso la
testa. Faccio sempre così quando il cielo
è coperto. E lo so che non mi fa bene, ma è
più forte di me. Passo più tempo
col naso in su che a guardare per terra.
Cado spesso.
So che dovrei
rassegnarmi al fatto che i miei giorni
su Gaea sono finiti, ma come posso farlo quando lì ho
lasciato il mio cuore, la
mia vita? Nel prato soffice di quei capelli neri come la notte, nel
velluto
marrone e denso dei suoi occhi ho perso la parte migliore di me. Quella
capace
di sorridere, di godere della carezza inaspettata del sole a primavera.
Da quando sono
tornata, da quando mi sono condannata
a questa triste esistenza
– perché è esistenza la mia,
non vita – non ricordo di aver mai sorriso, non davvero,
almeno.
Alzo di nuovo il
viso nella speranza che il cielo si
sia liberato, ma ovviamente non è cambiato nulla. Sfido con
lo sguardo le
coltri grigie, odiandole. Se fosse possibile, il mio sguardo le
trapasserebbe,
tanto è duro e tagliente.
Le odio, stasera
più che mai, queste maledette
nuvole.
Quanti giorni
sono passati? Esattamente 365. Ecco perché
le odio.
Perché
i giorni sono passati e non è mai successo
nulla. E allora, pur di avere una speranza a cui aggrapparmi, mi sono
ripetuta,
giorno dopo giorno, che forse Gaea mi sarebbe riapparsa a distanza di
un anno,
per una sorta di ciclicità o che so io.
Ho vissuto in
funzione di questo maledetto giorno,
vi ho riposto le mie più nascoste speranze. E invece quelle
maledette nuvole
stanno distruggendo tutto. Il castello di carte che mi sono costruita
si sta
sfaldando secondo dopo secondo, l’illusione sta svanendo.
E con essa le
mie forze.
Van
non verrà. Non
rivedrò quel ragazzo straordinario, il suo
sorriso raro ma indimenticabile, le sue ali bianche spiegate in volo
verso di
me. Non mi perderò nel suo sguardo profondo e indagatore,
non lo abbraccerò.
Mi dovrei
rassegnare ma il cuore si oppone, pur nell’agonia,
e un lungo urlo disumano di dolore mi esce dalla gola – il
suo nome –
lasciandomi stordita, affannata e senza più la forza di
reggermi in piedi. Mi accascio
accanto alla finestra mentre lacrime di dolore e frustrazione mi
bagnano il
viso e i singhiozzi mi scuotono e mi fanno male per l’urlo di
prima, che ancora
mi rimbomba dentro prolungandosi.
Incuranti di
tutto il mio dolore, le nuvole,
beffarde, stanno ancora lì, nemmeno un alito di vento a
muoverle; l’aria è
immobile in un modo così innaturale da essere quasi
spaventoso.
Se non avessi
visto molto di peggio mi
impressionerei. Ma ho visto il cielo andare a fuoco, l’acqua
rosseggiare del
sangue dei soldati, la terra scossa e spaccata dal fragore della
battaglia; ciò
che mi circonda non mi può toccare più.
Ed è
in questo istante che realizzo che non avrò mai
pace, perché la mia vera dimora mi è
inaccessibile, mentre mi trascino su una
terra che dovrebbe appartenermi, ma che invece sento forestiera come
mai prima.
“Van,
perché mi hai abbandonata qui? Perché non mi
porti via? Salvami, ti prego”. Il mio è
nient’altro che un sussurro, una
preghiera bisbigliata, il desiderio del condannato. Ormai ho capito che
lui non
verrà più.
E
l’orologio del mio cuore si ferma qui.
Non va
più né avanti né indietro, schiacciato
dal
troppo dolore. Muovo gli occhi ma mi rendo conto che le immagini di
ciò che
vedo non mi colpiscono, mi sento come se mi stessi vivendo
dall’esterno. Nulla mi
tocca più, non mi ricordo di respirare, nel petto nemmeno un
rumore.
Vedo tutto al
rallentatore e sbiadito e capisco, dev’essere
così che ci si sente quando si muore.
È
bello così, non si soffre, non c’è
dolore. Ed è
vero, si può morire d’amore.
Perdo la presa
sul davanzale e mi lascio andare all’indietro,
piano. Il cielo, oltre la finestra, si carica di elettricità
mentre le palpebre
diventano inesorabilmente pesanti e non trovo un solo, valido motivo
per
contrastarne la chiusura.
L’ultima
cosa che vedo è un lampo che, vicinissimo,
squarcia il cielo in due, un’ombra bianca e poi il buio.
Il mio ultimo
pensiero è ancora lui – Van! – penso,
e poi mi lascio andare definitivamente
all’oscurità.
Bene, e questo è il primo! Spero vi sia piaciuto e se vorrete scrivermi ne sarò felice!
A presto col prossimo capitolo! :)