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Autore: Milla Chan    20/07/2012    3 recensioni
[ Quarto episodio della serie di Buret ]
Quella volta, mentre camminava, Danimarca si accorse di lui. Gli rivolse un sorriso enorme e tese le braccia al piccolo. Islanda spalancò gli occhi, una serie di ricordi, di sorrisi, risate e abbracci troppo lontani e troppo diversi da quell’odore acre che si respirava per le stanze. Una volta tutto sapeva di frutti di sottobosco e pino.
In quegli anni non erano neanche andati a raccogliere le more, non si ricordava più che sapore o profumo avessero.
Non riuscì davvero a non indietreggiare.
Per quanto gli fosse dispiaciuto vedere la sua espressione delusa e quasi supplicante in quel momento, per quanto avesse sentito un buco nel cuore a vedere i suoi occhi rattristirsi, Islanda non riuscì ad abbracciarlo, e sentì che da quel momento la parola pabbi non avrebbe più fatto capolino dalle proprie labbra.
Si allontanò a passetti veloci, lasciando l’uomo con le mani a mezz’aria, una ferita che si riapriva all’altezza del cuore.
Genere: Angst, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Danimarca, Islanda, Norvegia
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
- Questa storia fa parte della serie 'Vores historie.'
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Nota:
Questo è il quarto episodio della serie Vores Historie.
Se non avete letto le altre storie, difficilmente capirete il senso di questa.
Buona lettura!

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Danimarca rovesciava gli armadi, gridava, distruggeva intere camere, rompeva qualsiasi cosa avesse sotto mano e crollava in ginocchio con le mani tra i capelli e sul viso sporco.
Non seppe mai, Islanda, se veniva notato quando lo guardava, accucciato negli angoli bui con le ginocchia strette al petto e gli occhi che stavano lentamente imparando a combattere contro l’enorme spavento, a non lasciarlo trasparire.  
Era una scena raccapricciante, vedere il bambino accovacciato che osservava Danimarca come se fosse stato una formica che camminava tranquillamente su un filo d’erba, alla quale non ci si interessa sul serio ma non si può fare a meno di guardarla.  
Finché non entrava Norvegia, buttava un’occhiata sconvolta alla camera e al piccolo nell’angolo. Lì il suo cuoricino di bambino faceva un salto perché era come vedere dei genitori che litigano con violenza.
Non coglieva le parole, ma Nor urlava, il viso deformato dalla rabbia e l’angoscia, prendeva l’uomo per le spalle e indicava il bambino come per far sentire Danimarca colpevole, metteva tutta la sua forza per contrastare quelle mani grandi che, dopo aver provato ad allontanarlo, volevano tirarlo contro di sé, per nulla delicate lo cercavano per contatti inesistenti, ma Norvegia lo afferrava per i polsi ed entrambi si gridavano in faccia.
 
Le voci raschiavano sui muri, aggressive, scrostavano e grattavano via un pezzo di cuore e si perdeva di vista anche il vero significato del litigio.
 
Quel fragore e quelle facce mutate facevano piangere Islanda che, silenzioso, si portava le mani alle orecchie e affondava la testa nelle ginocchia per rannicchiarsi il più possibile e proteggere il cuore, che in quei momenti sembrava pesare veramente troppo. Era insostenibile e non c’erano posizioni che dessero sollievo.
 
Dopo un po’, le persone si stufano di essere comprensive, per quanto pazienti, per quanto incatenate da legami profondi. O forse sono proprio questi legami profondi a rovinare le persone. Probabilmente era successo questo, a Noregur.  
Ormai bastava la vista del sangue delle sue mani, dei mobili rotti per terra, degli occhi spalancati e il respiro pesante a mandare nel panico Norvegia.  
Dopo un tempo infinito –minuti? Ore? Nessuno lo capiva-  di strepitii e paradossali lotte per la pace, le parole diventavano rade, fino a scomparire, sfumare nell’aria, con i muri ancora impregnati di grida, di tristezza e rabbia inespressa, tanto da sembrare ne trasudassero e rimbombassero ancora.  
Ma Danimarca non parlava più, prendeva una sedia e si stanziava difronte alla finestra con le gambe divaricate e le mani sulle cosce,  lo sguardo lontano, assente e vuoto. Forse teneva sotto controllo un rancore che non avrebbe mai voluto riversare su di loro, perché le dita gli tremavano con scatti involontari.  
Norvegia si girava verso il bambino, chiudeva sempre gli occhi con un lungo sospiro e gli tendeva la mano. “Una passeggiata.”, diceva sempre.
 
Islanda aveva visto queste scene ripetersi per così tante volte da sapere ogni singola espressione e l’azione che avrebbe preceduto o seguito un certo gesto.
 
Era sempre nella stessa stanza in cui c’era Dan, perché il bambino lo seguiva.
 
Muoveva passi lenti sulla sua ombra quando girava senza meta.
 
Non era propriamente un gioco, come una volta aveva detto Noregur (“Dovresti smetterla di fare giochi pericolosi.”).
  No, quella era una vera e propria veglia. Si riprometteva che l’avrebbe aiutato, l’avrebbe fermato, ma ogni volta si ritrovava e stringersi nell’angolo più nascosto della sciagurata stanza.
 
Quella volta, mentre camminava, Danimarca si accorse di lui. Gli rivolse un sorriso enorme e tese le braccia al piccolo. Islanda spalancò gli occhi, una serie di ricordi, di sorrisi, risate e abbracci troppo lontani e troppo diversi da quell’odore acre che si respirava per le stanze. Una volta tutto sapeva di frutti di sottobosco e pino.  
In quegli anni non erano neanche andati a raccogliere le more, non si ricordava più che sapore o profumo avessero.
 
Non riuscì davvero a non indietreggiare.
 
Per quanto gli fosse dispiaciuto vedere la sua espressione delusa e quasi supplicante in quel momento, per quanto avesse sentito un buco nel cuore a vedere i suoi occhi rattristirsi, Islanda non riuscì ad abbracciarlo, e sentì che da quel momento la parola pabbi non avrebbe più fatto capolino dalle proprie labbra.
  Si allontanò a passetti veloci, lasciando l’uomo con le mani a mezz’aria, una ferita che si riapriva all’altezza del cuore.
 
Islanda si chiuse nella camera, sdraiandosi sul letto altissimo e solo dopo che fu sicuro si essere solo si lasciò andare in un lungo sospiro, doloroso.
 
Pensò a quando lo aveva abbracciato nonostante fosse coperto di sangue, delle chiazze rossastre seccate sul lenzuolo del fratello, del suo pianto, di quando lo aveva preso in braccio e corso, di quando aveva svoltato l’angolo giusto in tempo per nascondere alla vista l’immagine di una persona che allora si chiamava ancora pabbi saltare addosso a Berwald.
 
Si strinse i capelli tra le dita ricordando il fratello che puntava la spada contro Danimarca. Anche lì sangue per terra.
 
Sangue onnipresente.
 
Sembrava uscire da ogni dove, anche negli incubi, ormai.
 
Sembrava che la casa intera, così enorme, così sfarzosa, fosse stata costruita col sangue, interamente, giorno dopo giorno, lo scorrere dei secondi, dei minuti, degli attimi che avevano reso possibile un dominio assurdo.
 
Aveva tenuto gli occhi chiusi tutto il tempo in cui pabbi vinceva e gli altri soccombevano, era rimasto cieco di sua spontanea volontà per non cedere al mondo reale e vedere che tutto si stava rivoltando contro a pabbi. Fare finta di niente non era stata la soluzione.
Si era arreso all’evidenza, in quella casa nessuno era più sano, neanche Nor lo sembrava più. Ansioso, forse. Provato, preoccupato, nervoso e inquieto. Troppo.
 
Non aveva ancora imparato a combattere i brutti sogni da solo, chi avrebbe dovuto chiamare? Chi gli avrebbe insegnato?
 
Strinse la veste viola, scura e pesante, tra le dita piccole. Le gocce salate caddero e si fermarono sul dorso della mano pallida.
  Gli sembrava tutto così ingiusto.
 
 
-Dan, smettila!-
 
 
Un tonfo al piano di sopra, rumori di ceramiche rotte, di passi svelti e la polvere scese dalle travi del soffitto.  
Sentì il suo nome nel discorso, tra gli strilli, le cadute, i rumori secchi.  
Era forse la seconda o la terza volta che non era lì ad assistere, ma quella camera, ironia della sorte, era proprio sopra alla sua.  
Che il Fato l’avesse fatto apposta per farlo stare male allo stesso modo di quando riusciva a vedere i suoi occhi blu intenti ad abbattere ogni cosa? Che volesse suggerirgli che quella volta stava accadendo tutto per colpa sua, per quell’abbraccio mancato, per quel sorriso non ricambiato?
 
Chiuse le palpebre tremanti fino a strizzarle per bene e premette i palmi delle mani sulla testa, mentre il cuore cominciava a battere forte, nelle orecchie, contro le tempie, sul fondo della gola, contro il petto, violento, aggressivo, schernendolo, ripetendogli che doveva starsene buono mentre Danimarca si uccideva e uccideva tutto il suo creato.
 
 
Fate finire tutto.
 
 
Trattenne il respiro. Non voleva sentire il suo cuore battere così tanto da far male, le litigate, le lotte, non voleva vedere niente, né altro sangue, né altri sguardi tristi, addolorati, compassionevoli, arrabbiati. Si concentrò a fissare la finestra appannata, le gocce d’acqua che vi picchiettavano contro che sembravano voler richiamare la sua attenzione.
  Non voleva essere stretto dalle loro braccia, per quanto volesse loro bene.
Sembravano lupi. Lupi di un branco, dove chi inizia a diventare troppo aggressivo viene avvertito dai ringhi degli altri.  
Come poteva vederli ancora come delle persone quando non erano altro delle creature, delle bestie, esseri pieni di paura?  
Quella paura che aveva portato al distacco, all’arroganza e alla fierezza che in realtà ricoprivano come un mantello d’oro una montagna di frutta marcia.
 
E tutto questo a sua volta aveva fatto crescere un’erbaccia.
 
Un’erbaccia che non riusciva a strappare via dai loro cuori, Islanda, e che cresceva troppo velocemente, metteva le radici troppo in fretta.
 
L’aveva identificata come odio.
 
Non reciproco, né nei suoi confronti, no, assolutamente no.  
Odio verso chiunque si azzardasse ad intromettersi, ad aprire bocca, a ribellarsi, a contestare, ad avvicinarsi. Non credeva che suo fratello ne sarebbe stato capace, anche se per difendere loro tre.  
Mai avrebbe osato anche solo pensare che, affacciandosi alla finestra enorme, avrebbe potuto vederlo, nel cortile allora rosso e liquido, come se niente fosse. Era rimasto concentrato sulle mani che stringevano l’impugnatura ricamata e quando vide un debole movimento in quella carneficina alzò ancora la spada.
 
Islanda spostò lo sguardo e provò a coprire la finestra con le mani, ma la nausea era già troppo forte.
 
Quanti altri giorni avrebbe dovuto passare in quel modo?
Settimane, mesi, anni.
Secoli, forse.
 
 
Scivolò giù dal letto, fissando il soffitto e ascoltando le voci che parlavano ancora, brusche e aspre.
Strusciò verso la porta, tenendo il capo basso e muovendosi silenzioso per i corridoi infiniti, sui tappeti rossi, appoggiando le mani sui muri alti.
 
Alzò la testa solo quando fu davanti al portone.
 
Pensò alle volte che Danimarca l’aveva aperto con facilità ed erano corsi fuori a giocare, sorridendo, sotto lo sguardo attento di Nore.
 
 
Aprì, tirò con tutta la forza che aveva in corpo, cigolò, uno spiraglio di luce e il rumore perforante dello scroscio insistente dell’acqua si fece spazio nella casa. Lui sgusciò fuori nel vento autunnale, socchiudendo gli occhi per ripararli dalla pioggia e dall’aria sferzante.
Ricordò Danimarca che lo alzava in aria e lo faceva girare, lo faceva saltare, ballavano sul prato, mentre Norvegia li guardava con un sorriso accennato, seduto sotto i pini accanto a Tino e Berwald, al quale si appoggiava silenzioso.
 
 
Camminò giù per i gradini, mentre le gocce pesanti gli si piantavano nella pelle come se fossero spilli su una bambola di pezza, sentendo l’acqua gelida scontrarsi contro il suo corpo, il diluvio gli riempiva le orecchie di un rumore costante e asfissiante, abbastanza da farlo sentire come se stesse annegando.
 
 
Finì coll’arrivare sul fango, sentendovici affondare i piedi, legarsi alla terra, con il timore –la speranza- di sparire lì sotto.
 
 
Ricordò gli alberi pieni di foglie, loro che cantavano tutti assieme e battevano le mani, aveva visto addirittura il fratello ridere quando aveva lanciato un lampone verso Danimarca e gli era finito nell’occhio invece che in bocca.
 
 
Si ritrovò a guardare i sempreverdi che ora erano morti, gli aghi secchi e marroni, i cespugli avvizziti e lasciati all'incuria, le cortecce scure e bagnate che ora sembravano veramente troppo scomode per appoggiarvisi, le foglie lo guardavano da sotto i suoi piedi, sconvolte e torturate dall’acqua che scendeva incessante.
 
Anche la pioggia sembrava portare rancore, riversandosi rabbiosa su quei luoghi e scuotendo astiosamente quegli animi già turbati.
 
 
Ricordò i fiori intrecciati e profumati, le canzoni allegre, il coro delle voci che si mescolava al vento, i giochi inventati sul momento, di come Danimarca gli avesse insegnato a fischiare con le foglie.
 
 
Islanda si inginocchiò, stanco. Non gli mancava la forza per sostenere le gambe, ma la forza per sostenere quell’eternità di inquietudini. Affondò le mani nella terra molle e sporca, tra le foglie grandi ma spezzate, fragili e odiate. Si spaventò nel rendersi conto di quanto l’odio fosse contagioso.  
Perché non erano rimaste sui rami, non li avevano aspettati, non li avevano chiamati, non li avevano avvisati che era tempo di raccogliere le more, che il prato era ancora soffice per stendervisi, che gli alberi facevano ancora ombra?
Perché si erano rassegnate a cadere, a morire, senza speranza di rivederli tutti? Sarebbe stato bello, passare assieme le giornate prima che cadessero.
 
Sentiva il vestito impregnato e sporco trascinarlo giù, più giù della stessa terra.
   
Il vento soffiò più forte, tra i capelli, attorno alla veste, deviò il corso delle lacrime e aggiunse altre gocce di pioggia, pungenti, sulla sua faccia immobile e statica.  
Poco contava il fatto che stesse venendo giù il diluvio, che stesse sprofondando nel fango, che stesse rischiando di ammalarsi di nuovo, l’importate era rimanere fuori dalla casa degli orrori e dal gelo –peggiore di quello di pioggia e vento-, che gli bruciava la pelle. Ma sembrava non capire ancora che i ricordi erano ovunque, che la mancanza della famiglia si percepiva in ogni dove ed era stato tanto cieco da non vedere quanto fossero veramente belli quei giorni insieme.
 
Alzò lo sguardo sulla casa, appena in tempo per intravedere attraverso i vetri delle finestre una sagoma scura che veniva afferrata e strattonata, prima che sparisse dietro il muro.  
Islanda piegò il busto in avanti, tossendo violentemente, le mani che scivolavano nel fango, nell’incapacità di tirarsi in piedi, non riuscendo a staccare dai vetri gli occhi, socchiusi a causa dell’acqua.

 
È l’amore che vi ha portati a questo punto?
 
 
No, Islanda non sapeva ancora bene che cosa fosse l’amore, non sapeva che forma dargli né il colore, né tanto meno il sapore o il profumo, ma l’aveva sentito nominare tante volte in passato da Dan, quando si sedevano sotto gli alberi e gli parlava di terre lontanissime o si raccontavano segreti.
Ecco, quando si sussurravano i loro segreti, lui gli si sedeva sulle ginocchia, alla frescura dell’ombra dell’albero e Dan –pabbi- gli mormorava all’orecchio di quanto fosse potente l’amore, diceva che non c’era niente più forte dell’amore, gli raccontava che questo strano amore era la cosa più bella che potesse esistere e che loro erano stati veramente fortunati ad avere Nor, perché li amava e loro amavano lui, che in amore si condivide tutto e si va avanti, nel bene e nel male.
Islanda gli aveva chiesto che forma avesse l’amore, lui aveva riso e aveva risposto di immaginarsi pabbi e Nor che si tengono per mano.

Islanda non ne era sicuro, ma quello gli sembrava amore impazzito come una farfalla in gabbia e lui credette davvero di detestarlo con tutto il cuore.
  L’amore che ha portato all'eccesso, che aveva accecato tutti, perché Nore era consapevole che Dan non stava bene. Forse ai propri occhi stava facendo le cose giuste, vedeva una realtà diversa, distorta, ma in maniera differente da quella di Danimarca. Lo sgridava, lo scuoteva, lo riportava sulla terra, nel loro mondo e finiva con l’abbracciarlo.
 
Perché si dovevano trascinare l’un l’altro in quel pozzo senza fondo?
 
Islanda non vedeva altro che questo. Una caduta verso qualcosa che non potevano controllare. Non aveva idea di come farli risalire, riemergere, non capiva se la loro fosse una discesa violenta, un salto nel vuoto, o un fluttuare leggero ma inarrestabile, impossibile da percepire finché non si è nel bel mezzo del tunnel nero senza via d’uscita, un serpente velenoso che si avvolge silenzioso senza che tu te ne accorga, stringendoti tra le spire fredde e soffocandoti.
 
Quella era la loro follia e Islanda si aggrappava con le dita al bordo del pozzo, chiamando aiuto, sentendosi tirare giù da qualcosa di avido e grottesco.
 

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Angolo autrice.
Nyah! °A°
Dunque, dovrò decidermi a raccogliere queste storie in una serie perché stanno diventando infinite e ci sarà un seguito anche di questa, in un futuro lontano. :D
Spero tanto vi sia piaciuta, perché in fondo non succede veramente niente di concreto, ma penso che un point of view del piccolo di casa fosse necessario...
Un bacione enorme ad Amy che mi ha betato la storia e a tutte le lettrici-stalker e le lettrici che capitano per sfortunato caso su queste storie tristi. °-° <3

 
 


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