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Autore: DonatellaR    20/07/2012    3 recensioni
E’ la storia di un mistero antico e irrisolvibile, filosofico e universale. Di un’ergosfera sulla terra. Di una singolarità nuda. Di un orizzonte degli eventi dove tutto e il contrario di tutto è possibile. Di Argyris e di Spyros, così diversi e così complementari. Un viaggio dentro la matrice stessa delle storie.
Genere: Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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ADYNATON






ADUNATON







Premessa






Questa storia nasce per caso in un caldo primo pomeriggio romano mentre fissavo rapita il tatuaggio di una mia amica. Capirete di cosa si tratta se andrete avanti con la lettura.
Un fulmine al ciel sereno e questo personaggio ha iniziato a perseguitarmi. Chi mi conosce bene sa che non mi do pace se non me ne libero attraverso la scrittura. Da qui sono nati viaggi mentali assurdi a cui ho cercato di dare un senso dignitoso, anche se non so se sono riuscita nell’intento. Me lo comunicherete voi, caso mai decideste di recensirmi alla fine di questo parto senza pretese particolari. Solo di intrattenervi come le favole di una volta e magari farvi un po’ pensare nel mentre.
E’ la storia di un mistero antico e irrisolvibile, filosofico e universale. Di un’ergosfera* sulla Terra. Di una singolarità nuda. Di un orizzonte degli eventi dove tutto e il contrario di tutto è possibile. Di Argyris e di Spyros, così diversi e così complementari. Un viaggio dentro la matrice stessa delle storie.























Cos’è divino?Ciò che non ha né origine né fine.
Talete



All’estrema punta meridionale di Kos la sabbia lambiva persino le alture e solo le erbacce osavano radicarsi spazzate dai venti capricciosi della costa.
Gli animali erano assenti, eccezion fatta per gabbiani e creature del sottosuolo.
Là i temporali si abbattevano impietosi e il sole rodeva come se ci si trovasse all’equatore. Per questo i turisti erano rari e gli autoctoni non vi costruivano.
La convergenza di correnti diverse rendeva impraticabili le onde e quindi anche gli impavidi surfisti preferivano altri lidi in cui spingere le loro tavole.
Ciononostante si diceva che sul crinale ovest, sotto ad una collina di pietra, ci fosse una casa di calce bianca, le tipiche finestre azzurre a celarne l’angusto interno a cui era addossato un albero cavo ed essiccato. Alcuni erano convinti non ci abitasse nessuno ma in parecchi dissentivano a riguardo.
Gli anziani raccontavano bizzarre storie all’ombra del platano di Ippocrate. Suo padre riteneva che queste avessero sostituito le leggende sui mostri marini come idre e sirene. Lo trascinava sempre via quando Ertemios si toglieva la coppola nera e si grattava la pelata, chiaro segno che stesse cominciando a narrare l’ennesima vicenda inventata. Ogni volta aggiungeva nuovi particolari per arricchirne l’intreccio.
Una vecchia megera curva sbucava da quella casa di tanto in tanto. Nessuno la conosceva e tutti erano pronti a giurare non fosse dell’isola. Asserivano con gran scosse di capo che sarebbe dovuta essere morta da un pezzo perché era già anziana quando loro erano piccoli.
- No, no, come fai a saperlo? L’hai vista? – interrompeva brusco uno di loro, immediatamente sostenuto nella sua insidiosa domanda.
Poche volte negavano. Erano pronti a giurare sull’icona di San Nicola di averla scorta a sedere sulla sua sedia dall’intelaiatura di paglia rovinata dal tempo.
La maggioranza riferiva di averla avvistata da lontano e di non aver rilevato caratteristiche dissimili dalle proprie mogli scomparse o viventi. Nessuno si era avvicinato abbastanza da vederla dritta in volto.
Tra di loro un uomo basso non partecipava a quelli che la madre di Spyros aveva etichettato come “deliri collettivi”. Rimaneva in disparte per poi borbottare sullo scemare dell’argomento:
- Non bisognerebbe mancare di rispetto agli spiriti parlandone.
Lo zittivano in maniera acida, rimbrottandolo sul fatto che non fosse un fantasma ma una persona viva. E subito apportavano testimonianze di gente che l’aveva afferrata per un braccio prima che rientrasse defilata dentro la sua abitazione.
Era un discorso infinito.
E come l’infinito li affascinava ed era carico di congetture in una spirale di inverosimiglianza.
Ne discutevano sempre dopo l’ora del sonnellino e Spyros entrava nella piazza a discorso già inoltrato con il pallone di cuoio consumato di suo padre. Colpiva con dei sassolini bianchi la finestra del suo amico Kosmas senza troppa convinzione. Non di rado finiva per appoggiarsi al bordo della fontanella ad ascoltare il blaterare di quel capannello di vegliardi.
Era più travolgente di una partita di calcio tra due ragazzi. I loro compagni di classe abitavano in diversi quartieri della cittadina e d’estate ognuno si disperdeva per i fatti suoi. Nella città vecchia esistevano più case che abitanti, i giovani risiedevano altrove.
La madre lo rimproverava spesso per il suo insaziabile interesse per i racconti di individui non istruiti. Ormai era grande e l’anno prossimo sarebbe andato al Gymnasio[2]. Non poteva sciuparsi il cervello con storie dal sapore mitico.
Ma era quella la sfumatura intrigante, ardua da sentire per intero.
Lui era arrivato soltanto a metà.
Apparentemente questa donna muta e sorda sembrava reagire alle domande. A seconda dell’età delle persone che l’avevano incontrata, aveva risposto impugnando un bastone dai detriti della spiaggia.
Cerchiava segni incomprensibili.
Al che Spyros corrugava la fronte, si avvicinava a loro e chiedeva spiegazioni.
Che genere di segni?
Oh, punti raggruppati, linee doppie, spirali.
Il ragazzo pensava fossero una forma di comunicazione che nessuno era stato abbastanza presente a se stesso dal voler decifrare.
Guarda caso chi vi si era incrociato era sempre un figlio di un capraio a zonzo per la radura, esperti bevitori, gente a cui mancava una rotella.
Pochi di loro avevano avuto incontri ravvicinati.
Forse nessuno.
Gli involontari testimoni se ne ritornavano a casa a vuoto, ancora più scombussolati di quando si erano imbattuti nella misteriosa signora.
Spyros aveva notato l’atteggiamento timoroso e sprezzante del vecchio con la chierica e lo sguardo serafico della cui opinione nessuno si curava. E anche quel giorno passava di lì e scuoteva la testa. La piega all’ingiù delle labbra screpolate rendeva la sua faccia cotta dal sole per le lunghe spedizioni in barca una maschera di disapprovazione.
Percepì gli occhi del ragazzino su di lui e levò la testa di scatto.
Si guardarono, il volto del bimbo leggermente paonazzo per l’imbarazzo di essere stato scoperto a fissarlo.
- Tu sei come me. – proferì, assorto.
Il ragazzo manifestò di non aver capito l’affermazione.
- Sei attratto da questi racconti e credi ci sia un fondo di verità. – spiegò avvicinandosi a fatica sotto il sole cocente, appoggiandosi anch’egli al bordo della fontanella della piazza.
- Lei no? – si concentrò nell’usare un modo di rivolgersi formale come gli aveva insegnato sua madre. Altrimenti gli sarebbe sorto naturale utilizzare il tu come con i suoi coetanei. Il punto era che quell’uomo gli sembrava di conoscerlo.
- Ti dispiace se ci spostiamo all’ombra eeee…nome ?
- Spyros.
- Ah. Argyris. – tese la mano che il giovane strinse con diffidenza. Non sapeva se stava facendo bene a dare retta ad un estraneo.
Si spostarono all’ombra di una viuzza tranquilla.
- Sai cos’è la paura, bambino?
- Ragazzo. – corresse infastidito. Non gli piaceva l’abitudine degli adulti di annoverarlo ancora tra i lattanti, quando invece si era alzato di due spanne dall’estate precedente.
Il vecchio sorrise lieve aspettando una risposta.
Si inumidì le labbra, pronto a fornire una definizione scontata di un qualcosa che credeva di conoscere nei minimi particolari.
Il timore gli attanagliava la gola allorché nascondeva situazioni e malefatte ai suoi genitori. Un voto basso a scuola, botte tra compagni, qualcuno che gli aveva rubato un astuccio o delle penne.
Eppure si accorse dall’espressione severa dell’uomo che egli si riferiva ad un tipo differente di paura.
La pelle gli si accapponò mentre scrutava impotente le sue pupille ravvivate da una luce sinistra e severa.
- Mpf. Non lo sai. – bofonchiò, quasi soddisfatto di non aver ottenuto nulla da lui.
- La paura è ciò che ti immobilizza. – disse infine il ragazzino senza rendersene conto. Le parole gli rotolarono incontrollate sulla lingua.
- Si. – fu sorprendentemente d’accordo Argyris che dava la netta impressione di non concedere con facilità il suo favore ad alcuno – Ti atrofizza arti e cervello. Ti cattura nella sua rete. E se non si reagisse, durerebbe in eterno.
Spyros doveva ammettere che non aveva mai pensato a quella eventualità. In generale la vinceva confessando l’accaduto e i genitori lo mettevano in punizione. Raramente seguivano conseguenze dolorose e fatali. I compagni che lo trattavano male non erano molti e comunque uscito dalle mura scolastiche era al sicuro tra quelle domestiche.
Non aveva conosciuto lo smarrimento alla sua età, era troppo presto. Le sue esperienze erano ridotte in proporzione all’angusto lembo di terra in cui era cresciuto.
L’anziano indicò verso il platano.
- Vedi quegli uomini laggiù? Raccontano storie di cui non sono stati protagonisti. Storie che gli hanno trasmesso i loro padri e persino in quel caso non posso assicurarti che gli stessi le abbiano vissute. Scolpiscono l’aria in maniera coinvolgente, eh? – ora che stava di nuovo sorridendo in una specie di ghigno compiaciuto notò il molare argentato e arguì che il nome con cui si era presentato era probabilmente un soprannome[3].
Spyros non si concesse la briga di annuire, teso a comprendere dove volesse andare a parare. Era un ascoltatore nato, come lo lodava spesso la maestra, e sapeva che era una pratica che non tornava utile solo nelle lezioni. Chi stava a sentire aveva una marcia in più, suo padre glielo ripeteva sempre.
- Io ero uno a cui non piaceva stare a sedere e bersi tutto quello che gli raccontavano. Quando ero bambino, c’erano ancora alcuni che credevano alle sirene e alle fauci dell’inferno nel mare. – sghignazzò indulgente – Ho navigato per molti anni e so che il massimo che si possa trovare in acqua sono correnti contrarie che si scontrano. I fenomeni naturali di questa terra sono il vero pericolo per un marinaio. – fece una pausa, detergendosi con un fazzoletto di lino il sudore sulla fronte.
- Tuttavia, non sono un non credente. Non mi reputo più intelligente di quelli là che scaldano le sedie all’ombra. Ci sono misteri – si avvicinò appoggiando le mani sulle spalle smilze di Spyros – che non ci si può illudere di governare con l’uso delle parole. Sai cosa stanno facendo in realtà quelli là? – accennò alla piazza col capo.
Il ragazzino negò con la testa.
- Esorcizzano la loro paura dell’ignoto. Si parla allo sfinimento sempre di questioni incomprensibili. - Il giovane si chiese se invece lui fosse in grado di capirlo. O forse non ne parlava proprio perché lo capiva?
- I miei genitori dicono che è arroganza credere di sapere. – ribatté, cercando di non essere scortese e di assumere un tono riflessivo. Nello sguardo di Argyris balenò una saetta.
Aveva detto qualcosa di sbagliato?
Gli si imporporarono le gote. Il vecchio aveva ripreso a fissarlo e lo stava palesemente valutando.
Si ritrasse sostenendosi al muro di intonaco bianco, fingendo un’indifferenza che non lo caratterizzava.
- Si…lo è per quei disgraziati laggiù così come lo è stato per me. – fu vago. Non lo guardava, perso nella contemplazione del fondo di quella stradina che digradava a picco. Il mare era di un caldo blu dorato, pacifico. Punte bianche aleggiavano sulla sua superficie, gabbiani e imbarcazioni.
Spyros non riusciva ad immergersi in tale calma. Era la presenza dell’uomo che gli induceva questo effetto? Per quanto bramasse essere altrove e non pensare a nulla, la fame di conoscenza gli impastava le papille gustative, assetandole.
Era spiazzato, riteneva che Argyris fosse diverso dai tizi che sproloquiavano alla frescura del platano. Adesso gli voleva far intendere di essere uguale a loro.
- Siamo stati mossi dalla stessa forza. Quella che i nostri antichi solevano chiamare Hybris[4].
Colse la sorpresa sul suo viso. Sorrise scrollando le spalle.
- So cosa pensi, ma quando andavo a scuola io ci insegnavano molte più cose sull’antica Grecia di quante ne insegnino a voi oggi. Lasciai l’ultimo anno delle medie con un’accettabile istruzione. Non erano anni facili come adesso. – Spyros si astenne dal roteare gli occhi. La critica era nei geni morenti della tarda età.
- Sai perché ti sto parlando?
Fece cenno di diniego.
- Perché mi sembri un ragazzo umile, Spatos.
- Spyros. – rettificò senza meraviglia. Le persone anziane erano un disastro con i nomi.
Annuì aggrottando le sopracciglia.
Era sicuro si sarebbe ingannato ancora.
- Io non lo sono stato. Sono andato per conoscere, ma già credevo di sapere. Avevo già una mia idea, capisci?
No, non capiva a cosa si stesse riferendo.
Gli lanciò un’occhiata interrogativa. L’altro trasse un profondo respiro.
- Quando mi sono ritirato dalla vita marinara, sono andato a verificare i loro racconti. – lo delucidò abbassando repentinamente la voce, come se qualcuno li stesse udendo. Spyros avrebbe compreso in seguito che era solo paura per ciò che gli era successo.
- Non c’era nulla, ragazzo, nulla! – urlò di colpo, poi capacitandosene, continuò affievolito – Un mare divoratore di sabbia e pesci ma nessun indizio di case, alberi rinsecchiti o, peggio ancora, di vecchie megere.
Sembrò ripercorrere quella scena dietro le cortine dei suoi occhi assenti.
Chinò il capo, la visiera della coppola che sfiorava il mento.
- E sai che ho fatto? – domandò retorico.
Spyros non riusciva a prevederlo. Lui se ne sarebbe tornato a casa deluso dalla fiducia malriposta.
Argyris incastonò improvviso le iridi nelle sue, levando il volto.
- Ho riso. Ho riso come un matto.
Arroganza.
Si tormentò la punta del mento con le dita.
- Fiumi di fandonie inventate per un appezzamento dimenticato da… - si bloccò come se gli si fosse gelata la lingua nella ventilata calura.
Avrebbe voluto comprendere “da cosa” però ebbe l’impressione che se si fosse azzardato, Argyris avrebbe concluso definitivamente la sua narrazione.
- Ha visto qualcosa. – constatò cauto.
Deglutì a forza.
- Ti dispiace se ci sediamo su quegli scalini laggiù? – indicò la sua sinistra.
Assentì e gli porse timidamente un braccio. Non pareva passare un buon momento e temeva potesse svenire in maniera inavvertita. Era pallido. Si interrogò se fosse il primo a cui confessasse la sua storia.
Lo aiutò a sedersi.
Non stava svenendo ma aveva bisogno di rinvigorirsi. Suo padre aveva l’abitudine di sorseggiare acqua e limone la mattina. Si augurò di poterlo lasciare un secondo per andare a preparare la miscela in casa.
- Torno subito. Non se ne vada. – gli raccomandò. Anche se non aveva idea di dove potesse recarsi in quello stato.
Fu di ritorno cinque minuti dopo con un bicchiere che offrì all’anziano.
- Beva, la prego. Le farà bene. – questi squadrò l’intruglio e riconoscendolo fece una smorfia di gratitudine e lo buttò giù d’un sorso.
- Aaah. – schioccò con la lingua, soddisfatto. L’acqua fredda era stata mescolata con la calda per non fargli surgelare lo stomaco.
- Sei un ragazzo premuroso. – commentò – O forse solo molto curioso.
Spyros arrossì appena, colto nel sacco.
Contemplò i tetti delle case all’orizzonte.
- Non riuscivo ad andarmene. Per quanto ci provassi, tornavo al punto di partenza. Mi muovevo a rallentatore come in un sogno. – la voce gli si era smorzata. Se la schiarì, cercando di conferirsi un tono. Un uomo temerario che aveva attraversato un immenso terrore.
- D’un tratto ho udito un suono. Assomigliava all’ululare del vento e invece era un…Un sibilo nell’aria. Ho realizzato cosa dicesse solo dopo. – la sua faccia era greve e sofferente – Adikia.
Il suo interlocutore si accigliò.
- Che significa?
- E’ greco antico per “ingiustizia”. Di conseguenza tutti i soffi di venti che si susseguirono mi sembravano vocaboli indecifrabili talmente ero impazzito per il colpo precedente. Fui in grado di muovermi da lì soltanto verso sera. – si coprì la parte superiore del viso con una mano – A casa scoprii con estremo sgomento che aveva trascorso un mese imprigionato in quel punto.
Spyros era un ragazzino che stava assumendo lo scetticismo adolescenziale ma rimaneva un lato di lui che credeva senza riserve. Quell’uomo non si era unito al circolo ciarlante di anziani perché la sua era un’esperienza autentica, vissuta in prima persona. Lo appenava esporla per un senso di colpa di cui non afferrava il motivo.
- Non è contento di essersi salvato? – era una domanda stupida e non era sicuro di ciò che volesse sapere.
Lo osservò con l’espressione tipica degli adulti quando i piccoli mostrano di non capire: dolcezza mista ad un pizzico di impazienza.
- Sono stato punito per la mia arroganza. Mi sono dimostrato irrispettoso di… di quello che ritengo sia un mistero.
Gli occhi di Spyros si erano ingranditi per lo stupore. Allora c’era veramente qualcosa su quel promontorio!
- Lei non ha visto perché non ha creduto? – sbottò in un sorriso amaro.
- Si, in sostanza, si.
Il ragazzino scrutava i ciottoli delle scalette, rotondi e sfalsati. Cosa sarebbe accaduto ad uno che avesse creduto? Avrebbe scorto di più? Una vecchia? O altre creature? L’ipotesi lo avvinceva.
Argyris gli mollò una pacca comprensiva sulla spalla.
- Se sei convinto, non c’è nulla di male nel soddisfare la propria curiosità.
Era uno strano individuo. Un normale vegliardo lo avrebbe ammonito del pericolo, lui, al contrario, lo invitava a coronare la sua fantasia.
Rimasero a mirare il mare in silenzio e Spyros considerò impossibile gli capitasse la probabilità di verificare il suo racconto.



- Come ti sembrano ? – la nonna lo abbracciò con gli occhi riponendo le sue speranze in una risposta positiva.
Spyros gustò la morbida consistenza delle frittelle cipolla e menta. La patina di fritto crocchiava liberando il sapore deciso e fresco.
Sorrise d’approvazione.
- Sono buonissime! – se ne ficcò un’ulteriore in bocca, conquistato. Bevve dell’ayran[5] per inghiottirla meglio. Leccò l’asprezza del latte caprino sulle labbra.
Erano trascorse settimane dalla chiacchierata col vecchio sulle scalette.
Quella notte l’aveva sognato. Le guance scavate dalle rughe e le iridi grigiastre che risplendevano nella notte simili a gemme incandescenti.
Stava a ridosso della scalinata di un tempio greco e gli accennava con un rametto di pino mediterraneo di salire fino in cima. Lui eseguiva meccanico.
- Vai avanti. – gli aveva intimato dabbasso. Al centro della struttura era posizionata una piattaforma in marmo candido. Vi era un simbolo che pareva un otto orizzontale. Ne inseguiva con un indice la linea, perplesso e inspiegabilmente ammaliato dal disegno.
Un sordo clangore.
Il coperchio si spostava in trasversale e Spyros era investito da un vento risucchiante che lo spingeva all’interno della botola oscura.
Non sapeva se si era lasciato vincere dalla straordinaria forza.
Si era svegliato di soprassalto.
Non lo sorprendeva la natura del sogno. I nonni abitavano proprio vicino all’estremità meridionale di Kos, a Kamari.
Ebbe un’illuminazione.
- Nonna, sai qualcosa di una certa signora che vive qui sulla punta?
La donna che stava sgrassando di buona lena la padella per friggere nel lavandino si interruppe lanciandogli uno sguardo stranito.
- Spy, ci sono solo rocce, sabbia e erba secca là. – lo liquidò con cipiglio severo. Le parole non si accordavano con la sua faccia guardinga. Tornò alla sua occupazione titubante.
- Chi t’ha messo in testa quest’idea?
Fece spallucce.
- Racconti che ho sentito in giro. – la nonna imprecò nel dialetto locale che assomigliava al turco. Spyros non ne comprese il significato perché i suoi genitori evitavano di parlarlo in casa e non gliel’avevano insegnato.
Sospirò.
- Che dicono di preciso?
Temporeggiò. Sapeva che non era stato furbo da parte sua confidarsi con lei ma doveva pur indagare.
- Molti dicono ci abiti una vecchia dall’età sconosciuta e che questa a volte tracci dei segni sulla sabbia se le si fa una domanda. – dichiarò il più in fretta possibile perché la sua progenitrice aveva il brutto vizio di interrompere quando pensava di conoscerne più di lui.
Stranamente stette a fissarlo per diverso tempo senza pronunciare motto. Sembrava stesse scegliendo le parole adatte in greco comprensibile.
- Quella zona è adynaton[6]. – emise lentamente - E’ proibita. Prenderei a calci chiunque ti abbia inculcato in testa queste stupidaggini! – si tolse il grembiule, gettandolo con rabbia burbera sullo schienale di una sedia accanto a lui.
Respirò a fondo, calmandosi a poco a poco.
- Spyros, ascoltami bene. Gli uomini sono troppo curiosi e avidi. Sono incapaci di spegnere la loro sete. Denudano il sacro per avere ragione sulle loro convinzioni. – si abbassò, poggiando i forti gomiti sul tavolo di formica, gli afferrò le guance tra le mani – Tu sei un bravo bambino, caro. Non violare quel confine.
Spyros muoveva gli occhi a sinistra e a destra, impacciato. L’avrebbe fatto comunque, solo che non immaginava come.
La sera, rigirandosi nel lettino scomodo della stanzetta arrangiata per lui, captò strepiti e discorsi concitati nel cubicolo accanto. Distinse unicamente “oracolo” e “caos”.
Si addormentò sudato e agitato dallo scompiglio che aveva creato tra i suoi nonni in genere sempre quieti.
La mattina fu svegliato dai belati di protesta delle capre del nonno Costa.
Le caricava sul retro del furgoncino dalla tintura scrostata e arrugginita per portarle in un luogo adatto al loro pascolo.
Spyros in genere gli faceva compagnia ma in questa occasione non fu disturbato con suo vistoso disappunto. Aprì la porta della cucina di slancio, procurando un sobbalzo di paura in Costa che stava incartando pane, formaggio e una bottiglietta di tsipouro[7] fatto in casa. L’espressione delusa del ragazzino gli fece chinare gli occhi immediatamente colpevole.
- Sbrigati, ragazzo…le capre sono nervose. – borbottò permissivo. Nonna Grigoria non avrebbe mai e poi mai regalato una siffatta concessione quando bisognava impartire una lezione. Pur se in quel caso Spyros non capiva dove avesse errato. Perché prendersela tanto per delle storielle? Significava allora che esisteva un fondo di verità.
Saltò sul veicolo dalla parte del passeggero, pranzo al sacco e bottiglia d’acqua ghiacciata che sarebbe stata fresca al loro arrivo.
Non aveva idea di dove fossero diretti poiché il nonno sceglieva posti di volta in volta differenti.
Si spinsero lontano, su per le montagnole di roccia bianca accecante e giù percorrendo piccole vallate abbandonate dalla civiltà. Quando Costa spense il motore in un gracchiare strozzato dovevano essere le nove abbondanti. Non aveva l’orologio da polso d’estate ed era obbligato a fare una stima approssimativa della posizione del sole.
Sciolsero al pascolo le capre che parevano restie a vagare per conto loro. Il vecchio le incitò con una pertica corta nei deretani e queste capirono l’antifona.
Il vento soffiava forte e si ripararono dietro un rialzo del pendio per fare colazione. Costa non spiccicò parola come se il gatto gli avesse mangiato la lingua. Accadeva spesso chiacchierasse volentieri dei suoi animali, spiegandogli ciascuna fisima da cui erano affetti, svelandogli episodi divertenti. Ora era muto e Spyros stava sperimentando una noia assoluta.
Dopo pranzo l’uomo si stese sui sedili anteriori del furgoncino per schiacciare un pisolino. Spyros buttò indietro gli occhi disperato mentre attaccava a ronfare come una locomotiva.
Si stava guardando intorno per individuare un posto riparato in cui poter sdraiarsi a riposare quando udì in lontananza un belato.
Contò le capre sparse nella pietraia sottostante al monticello su cui erano. Si ricordava fossero una quindicina e il numero pareva riportare.
Sbuffò calcandosi il cappello in testa. Era un’ora troppo calda per avventurarsi a recuperare una possibile capra dispersa.
Un altro belato.
Proveniva da sud in linea d’aria.
Si girò.
Il nonno non sembrava essersi accorto di nulla. Era abbandonato su un fianco, il capo sul braccio disteso. Al suo risveglio si sarebbe lamentato allo sfinimento per i dolori dovuti a questa posizione. Non vedeva l’ora.
Prese in prestito la pertica nodosa e rinsecchita per farsi strada tra i sentieri impervi. Sperò non si fosse spinta in qualche piccolo burrone, non avrebbe rischiato la pelle per recuperare un animale smarrito.
Camminò inerpicandosi per le collinette, scivolando e sdrucciolandosi a tratti.
Si fermò un paio di volte, l’orecchio teso in ascolto.
La capra aveva smesso di belare da un pezzo e lui non riusciva a quantificare da quanto stesse vagando.
Scalò un’alta collina oltre la quale pensava si trovasse la bestia in maniera approssimativa.
Appena arrivò alla cima fu costretto ad aggrapparsi al pezzo di legno con ogni sua energia. Un vento violento sferzava inclemente il litorale costiero su cui era approdato.
Osservò impressionato il mare. Si era spinto così lontano?
Della capra non vi era l’ombra.
Si risolse di tornare indietro sconsolato e non fare parola col nonno dell’increscioso accaduto.
La coda dell’occhio catturò un’immagine sulla retina.
Una casetta sulla spiaggia.
Quadrata.
Artigliata da un albero spigoloso, arido simile alla mano di una Lamia[8].
Realizzò subito cosa fosse.
Non si accorse nemmeno stesse scendendo rapido il crinale per raggiungere la spiaggia.
Quando l’istinto di fuga risalì la sua gola occludendogli per un secondo la deglutizione era troppo tardi.
Era lì, ad una manciata di metri dall’abitazione.
I granelli di sabbia gli entravano nelle fessure degli occhi, costringendolo a stropicciarseli per il fastidio.
Posò una mano sulla parete granulosa dell’abitacolo per non farsi scalzare dalle raffiche terribili.
E la vide.
Avrebbe spergiurato non ci fosse nessuno affianco all’uscio fino a pochi secondi prima ma data la vista offuscata non poteva essere completamente sicuro.
La vecchia era ricurva su una sedia sfilacciata, i capelli distribuiti in ciocche sparse e corte, le punte come onde. Una leggera vestaglia blu abbottonata sul davanti scuro le copriva il corpo. Le braccia cadenti erano raccolte in grembo e le gambe erano composte, i piedi infilati in zoccoli di legno dalla tomaia nera.
Sotto l’attaccatura dei capelli, sulla nuca recava un simbolo che lo fece sobbalzare all’indietro e cadere malamente nella sabbia per la forza contraria del vento.
Si mosse come ridestata da un sonno profondo.
Aveva un otto orizzontale tatuato sulla pelle.
I gomiti di Spyros facevano troppo male per rialzarsi con prontezza.
Serrò le palpebre in attesa del peggio imminente.
Non successe nulla.
Riaprendole notò che la donna adesso era in piedi davanti a lui.
Reggeva un ramoscello di ulivo. I bulbi si muovevano sotto gli occhi chiusi come impazziti.
Un timore gelido lo ghermì bloccandogli respirazione e stomaco ma non si spostò di un millimetro.
Stava per morire? L’avrebbe presto scoperto.
La donna gli indicò un punto dietro le sue spalle. Voleva che la seguisse. Si rialzò a fatica. Arrancò, i gomiti doloranti.
Questa solcò un cerchio di medie dimensioni sulla sabbia farinosa.
E rimase immobile a fissarlo.
La sabbia iniziò ad essere trascinata intorno a loro in direzione del disegno.
Come se si ritraesse.
No.
Come se vi fosse aspirata.
Era attirata in un cerchio che diventò fossa.
Buco.
Baratro.
Ad una velocità impressionante.
Risucchiava tutti gli elementi che capitavano.
L’acqua del mare precipitò a cascata al suo interno.
Spyros si aggrappò, disperato, alla veste dell’anziana. Aveva vinto la sua fifa davanti ad una paura più grande.
La vecchia era impassibile sulla sua posizione.
Se non si fosse tenuto a lei, il bambino sarebbe sprofondato nel buco nero che si allargava enorme di fronte a loro. C’era qualcosa di affascinante e sublime allo stesso tempo in quella cavità di cui non si scorgeva il fondo.
D’improvviso ebbe un lampo.
Quell’immagine si era composta frammento su frammento nella sua mente ogni volta che ascoltava gli anziani aggiungere un tassello alla storia.
La casa.
L’albero.
La vecchia.
Ma il simbolo?
C’era una spiegazione anche a quello?
Frugò nella sua memoria.
No, non riusciva a collegarlo a qualcosa.
Non si era capacitato di stare osservando intensamente il viso rinsecchito della donna.
Lei sembrava ricambiare nonostante le palpebre chiuse.
Nella sua testa emerse una voce abissale.
- Io sono ciò che ti aspetti.
Aprì gli occhi di scatto e Spyros non li poté più distogliere, irretito.
Perso nel loro vuoto siderale in cui si distinguevano fulmini di reticoli elettrostatici, nebulose, stelle infuocate, luci morenti, esplosioni e fiamme incandescenti.
Le sue iridi erano ghiaccio fumante e liquido.
Per lo spavento la sua presa si allentò e cadde nel buco.


- Spy, non hai toccato la tua moussaka[9]. – i grumi di besciamella bruciacchiata lanciavano bagliori giallastri alla luce della lampadina economica della cucina. Alzò le pupille verso l’espressione bonaria di sua nonna.
- Te la meriti tutta dato che hai recuperato la capra. – si rese conto che Costa aveva già ultimato la sua razione nella scodella di ceramica.
Lui non aveva fame.
Aveva lo stomaco chiuso dalle tenaglie dell’incertezza. Oh, non si era dimenticato ciò che aveva vissuto.
- Quale capra?
Grigoria lo squadrò perplessa.
- Non essere sciocco, su su, mangia. – gli intimò dolcemente.
Il nonno non parlava, di tanto in tanto sfregava il pollice contro l’indice e lo scrutava.
Si affrettò a mangiare, controvoglia. Scoprì di avere fame e sete come se fosse disidratato.
Costa doveva aver mentito per lui. Non aveva riportato nessun animale dalla sua “escursione”. Dubitava ci fosse mai stata una bestia in pericolo.
- Vado a riposare. – annunciò l’uomo come se fosse stanco in modo indicibile.
Spyros era stato via quattro ore.
Non gli sovveniva come fosse tornato e se fosse precipitato sul serio da qualche parte.
Era caduto in un tempo dilatato all’infinito in cui gli era sembrato che la sua massa corporea si allungasse per poi ruzzolare su dei sassi calcarei. Gli stessi di una minuscola altura non lontano da dove si erano accampati con il loro gregge.
Il progenitore, ormai sveglio, lo aveva accolto silenzioso. Le capre erano già radunate per essere spinte sul furgoncino.
Nel tragitto di ritorno non era volata una mosca.
Lo scombussolio lo sovrastava.
Dove era finito?
Che cosa aveva visto veramente?
Non riuscì a scoprire il motivo per cui il nonno l’avesse coperto.


Argyris comprese non appena lo avvistò in disparte, il braccio ancorato al suo pallone come ad un salvagente.
Non disse nulla, si limitò a dedicargli uno sguardo accigliato. Forse prevedeva sarebbe rimasto nell’ombra e quella sarebbe stata la sua ultima visita prolungata alla piazza.
Spyros accostò il pallone più stretto alla sua ascella e si fece avanti nella cerchia di uomini seduti. Questi interruppero la narrazione di un fatto futile gettandogli occhiate smarrite.
E il bambino iniziò a raccontare la sua storia.
Magari la più assurda di tutte.
O una come le altre. Chissà.
Argyris sorrise. Spyros ci aveva creduto e ora stava continuando la tradizione.
In un ciclo che non si sarebbe esaurito sino alla fine dei tempi.
Un ciclo infinito.


















Note

Quando ho iniziato a cercare nozioni sul concetto di Infinito il primo in cui mi sono imbattuta è Anassimandro, uno dei filosofi presocratici discepolo di Talete, di cui ci sono pervenuti alcuni frammenti. In uno di questi è enunciato:
Principio degli esseri è l’infinito…da dove infatti gli esseri hanno l’origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità: poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo. **********
Il “principio” è chiamato in greco antico “apeiron” (ἄπειρον), ovvero senza confini, non soggetto all’età e al decadimento, che produce di continuo gli elementi che ci circondano e dai quali deriviamo. Anassimandro credeva che infiniti mondi fossero generati e fossero distrutti in maniera ciclica.
Leggendo ciò non poteva non balzarmi in mente una teoria interessante sull’origine dell’Universo. In questa si suppone che l’uovo cosmico del Big Bang sia sorto dalla disgregazione di un universo dalla precedente espansione. Un simile destino attende la materia nel momento finale della sua disgregazione in un buco nero in quiete. Esso spunta ribollendo in un altro universo. Può essere venuto da altrove per diventare il nostro mondo.
Alla fine di un buco nero ci potrebbe essere un buco bianco che sbuca in un altro universo. La teoria della relatività di Einstein legittima addirittura l’esistenza di un varco spazio-temporale, conosciuto come ponte di Einstein-Rosen*********** e che forse potrebbe trovarsi all’interno di questi misteriosi baratri.
La cosa che mi interessava era questa possibilità dell’universo di potersi replicare in maniera infinita grazie all’espediente del buco nero. Come le storie che hanno sempre la stessa struttura di base (elementi semplici) ma cambiano di volta in volta le modalità (nascita, diffusione ed espansione).
Di seguito mi sono imbattuta nella singolarità nuda. Un concetto astratto ma lontanamente possibile, secondo il quale se capitasse un fenomeno contrario alle leggi fisiche finora conosciute queste si auto annullerebbero all’istante e la scienza non potrebbe esistere come la intendiamo oggi. In particolare potrebbe verificarsi nel caso di disgregazione di una stella asimmetrica. Nella punta meridionale di Kos avviene una singolarità nuda che sta in un unico orizzonte degli eventi************ , una denominazione usata nel caso di un buco nero di Schwarzschild per indicare una superficie sferica che circonda una singolarità posta al centro della sfera. Quest’ultima è un punto nel quale la densità sarebbe infinita e le leggi della fisica, secondo la teoria della relatività generale, perderebbero di significato.
La vecchia è qualunque cosa voi vogliate che sia, ma sicuramente è un’entità vicina alla divinità del Caos greco, la prima ad affiorare dal mare nero del nulla. Una sacerdotessa. Uno spirito. Un elemento. Magari l’apeiron stesso.


[1] Elissoide oblato il cui confine tende a combaciare con l’orizzonte degli eventi ma in prossimità dell’equatore se ne distacca. Prevista dal modello matematico di Karl Schwarzschild. Su questa superficie il tempo è immobile e si crea una condizione di possibile immortalità.
http://it.wikipedia.org/wiki/Ergosfera

[2] Spyros ha dodici anni. In Grecia le elementari durano sei anni, e il Gymnasio tre anni. E’ l’equivalente delle nostre medie.

[3] Argyris = argentato.

[4] ὕβρις = arroganza, tracotanza, orgoglio, eccesso.
http://it.wikipedia.org/wiki/H%C3%BDbris

[5] Bevanda di yoghurt, acqua e sale tipica di Turchia e Grecia. Kos è molto vicina alla costa turca e ho pensato sia possibile la bevano. http://it.wikipedia.org/wiki/Ayran

[6] “cosa impossibile”.

[7] Distillato tipico greco.
http://en.wikipedia.org/wiki/Tsipouro

[8] Megere parassite e rapitrici di bambini dell’antichità greca. L’equivalente delle fate irlandesi e dei demoni lilu babilonesi.

[9] Piatto tipico greco simile alla nostra parmigiana.
www.bbc.co.uk/food/recipes/moussaka_6812

[10] I presocratici e la nascita della filosofia, Emanuele Severino racconta, La Biblioteca di Repubblica, 2011.

[11]
http://it.wikipedia.org/wiki/Ponte_di_Einstein-Rosen

[12] http://it.wikipedia.org/wiki/Orizzonte_degli_eventi

   
 
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