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Autore: candycotton    23/07/2012    1 recensioni
Anno 2181. Hestla.
Lo scienziato Sycor ha iniziato, più di 50 anni fa, il suo piano malato di trasformare l’imperfetta popolazione di esseri umani uccidendoli e donando loro una seconda vita, grazie all’impianto di fili metallici e organi sostitutivi, creando così una nuova razza, i Sostituti.
Rigel e Bion. Due ragazzi alla ricerca di vendetta, in un mondo che sembra aver tolto loro ogni cosa.
Ma niente è quello che sembra su Hestla, ed è fondamentale saper riconoscere gli Umani dai Sostituti, la verità dalle bugie, il tradimento dalla fiducia, il bene dal male.
In un vortice di equivoci, doppiogiochisti, imbrogli e verità, i due ragazzi riusciranno a raggiungere la meritata rivincita su quel mondo spietato? E gli esseri umani, saranno disposti a lasciarsi trasformare? Saranno disposti a morire per vivere una vita all’apparenza migliore?
Un mondo sull'orlo della guerra. Un'intera popolazione perseguitata e sottomessa. Un ragazzo e una ragazza pronti a combattere con un destino ignoto che li attende..
Genere: Azione, Fantasy, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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9

Il viaggiatore solitario

seconda parte

 

 

 

Mentre mangiava, Bion si convinceva sempre di più che quella colazione, quel ben di Dio, era la cosa migliore che le fosse capitata da tanto tempo. O forse era il fatto di non aver ingerito niente per due giorni e di avere il corpo così svuotato che qualunque cosa ingurgitasse le sembrava una benedizione.

Kalb la osservava con interesse. “Vedo che apprezzi la mia cucina, è un vero piacere starti a guardare”.

I loro sguardi si incontrarono, e Bion si accigliò. Il sorriso sul bel volto di Kalb si affievolì appena, prima che lui abbassasse il capo.

“Grazie, davvero” fece Bion.

Ma lui sembrava offeso per qualcosa. Si disse che forse gli era balenato alla mente qualcosa riguardante qualcosa di personale che lo aveva rattristato.

“Pensi che possa vedere Rigel? Ehm, il mio amico…”

Kalb non la guardò. Si lasciò cadere fiaccamente su un divano e borbottò un “certo”.

Bion uscì dalla stanza e ripercorse il corridoio, l’unica parte di quella casa che avesse visto fino ad allora. C’erano altre due porte, oltre a quella della stanza dove si era risvegliata. Ne aprì una, ma si rivelò essere un bagno piccolo e ordinato, da cui saliva un fresco profumo di pulito. Andò avanti e aprì l’altra.

La stanza era in penombra, perché il sole non batteva così forte oltre le finestre, da quella parte. Inoltre, c’erano due tendine grigie ricamate, che facevano da filtro ai raggi del sole.

Il letto era a due piazze, ampio e d’intaglio antico. Un’occhiata veloce all’arredamento circostante le fece pensare che quella camera doveva essere appartenuta ad una vecchia signora.

Rigel era steso, il volto quasi interamente ricoperto di bende appoggiato sul cuscino. Gli occhi – una delle poche parti che la fasciatura lascia intravedere – erano chiusi. Il petto si alzava e s’abbassava placido.

Bion si avvicinò al suo capezzale. Appoggiò una mano sul letto, molto vicina ad una delle sue,  dischiusa sulle candide lenzuola. Voleva prendergliela, toccarla come avevano fatto a Tiva, anche se era stato solo per scherzo. Ma non lo fece. Rimase ferma, distante e continuò a guardarlo.

Di colpo, si ricordò il suo volto traumatizzato, coperto di lacrime e sangue, che aveva visto un attimo prima di svenire nel bosco. E si ricordò anche di Freya, della splendida lince rossa che non sarebbe più zampettata al loro fianco come un angelo custode.

Bion sentì gli occhi bruciarle e il respiro mozzo. Proprio lei che non piangeva mai, ora si ritrovava a farlo per un animale di cui non le era mai importato tanto.

Ma per Rigel era diverso. Freya era stata la sua anima gemella per così tanto tempo…

Forse era per quello che piangeva. Per come Rigel l’avrebbe presa una volta sveglio. Per quello che avrebbe provato sapendo per davvero che la lince l’aveva lasciato.

“È il tuo ragazzo?”

Bion lanciò un grido sommesso. Si asciugò gli occhi con le dita e si voltò. Kalb era appoggiato allo stipite della porta, le mani comodamente infilate nelle tasche del giubbotto e le gambe incrociate.

“No… no”.

“Ah”.

Bion fu certa di aver intravisto il lampo di un sorriso sulle sue labbra, prima che abbassasse di nuovo il mento.

“È solo un amico”.

“Strano. Non l’avrei detto”.

Bion camminò verso di lui lentamente. “Cosa vuoi dire?”

Kalb arretrò fino a trovarsi con la schiena contro il muro del corridoio. Guardò Bion dall’alto, mentre un rinnovato sorriso gli compariva sulle labbra.

Lei lasciò la porta della stanza di Rigel socchiusa, prima di uscire.

 “Soltanto che non sembrate conoscervi bene abbastanza da essere amici”.

Bion lo fulminò con un’occhiataccia. “E tu? Tutte queste camere, cucini, sei un buon samaritano, e non hai neanche un po’ di compagnia?”

Kalb continuò a fissarla ostinatamente. Proprio come se non avesse mai visto nient’altro che valesse la pena di essere osservato. Come se non riuscisse a staccarle gli occhi di dosso, nemmeno se avesse voluto.

“Le Sostitute non mi attirano”.

Bion sbuffò una risata. Lo guardò, sentendosi improvvisamente contagiata dalla sua spensieratezza. “Posso chiederti quanti anni hai?”

“Perché?”

“Curiosità”.

“Ventiquattro”.

“E come mai non ti hanno ancora trasformato?”

Kalb si morse il labbro. “Non mi hanno cercato nei posti giusti. Oppure, molto più probabile, non sono abbastanza interessante perché lo facciano”.

All’improvviso, Bion si rabbuiò. Il sorriso si spense dalle sue labbra, e capì perfettamente dove Kalb voleva andare a parare. Nessuno l’aveva mai cercato, voleva dire che a nessuno importava se lui fosse ancora umano o meno. Invece loro, lei e Rigel, erano stati seguiti, attaccati e quasi uccisi. Loro sì, che erano interessanti. E Kalb voleva sapere come mai.

“Cosa intendi?” Bion gli si avvicinò ancora di un passo, fino a trovarsi molto vicino a lui. Lo scrutò attentamente.

“Mi chiedo cosa portiate con voi. Sembra che siate piuttosto ricercati. Voglio dire, non avevo mai visto tanti Sostituti armati tutti in una volta…”

Bion era pensierosa. Da quello che ne sapeva, sia lei che Rigel erano preziosi per Sycor. Ricordò con un tuffo al cuore quello che aveva sentito dire ai militari mesi prima, riguardo all’assidua ricerca di Rigel che però non aveva fruttato nessun risultato. E poi c’era lei, che gli era scappata da sotto gli occhi…

Ma ogni pensiero le scivolò via e non dovette ribattere a Kalb, perché una voce flebile li raggiunse alle loro spalle. Bion si riscosse e socchiuse la porta della stanza di Rigel. Entrò; Kalb la seguì.

“Ehi…”

Rigel era sdraiato, l’espressione fissa al soffitto. Teneva gli occhi socchiusi e sembrava ancora debole e non del tutto presente a sé stesso, come nel dormiveglia.

“Come ti senti?” chiese Bion in un sussurro.

Lui voltò il capo, l’espressione stanca e assente.

“Stavo riflettendo se dirvelo o meno, ma comunque lo avreste scoperto ugualmente. Benvenuti a bordo di Chérie” Kalb allargò le braccia in un teatrale gesto, “la mia astronave”.

Entrambi, perfino Rigel sotto il fitto intreccio di bende, gli lanciarono uno sguardo esterrefatto che fu accompagnato dalla risata bassa e armoniosa di Kalb.

“Non la trovate magnifica? E non avete ancora visto niente”.

“Questa è un’astronave?” borbottò Bion, confusa. Sapeva parecchie leggende sulle astronavi, le era stato detto fin da piccola che erano macchine volanti immense e molto rare, di solito tramandate come un tesoro preziosissimo da padre a figlio per generazioni. Il possessore di un’astronave era legato ad essa da un vincolo invisibile, e spesso spezzarlo era impossibile, se non con la morte.

Questo gli impediva di vivere una vita normale, essendo costretto a prendersi cura dell’astronave prima di tutto.

Bion lanciò un’occhiata amareggiata a Kalb: ora comprendeva quale doveva essere il suo stato d’animo. Avrebbe voluto rimangiarsi le parole dette in corridoio.

“Penso che il tuo amico abbia bisogno di riposo, ora. La notizia l’ha sconvolto e forse farà più fatica ad addormentarsi. Andiamo di là”.

Bion guardò Rigel: per come lo conosceva, non era uno che si lasciava prendere troppo dalle emozioni. E infatti il suo sguardo era tornato impassibile, sebbene un po’ scombussolato. E non aveva detto niente riguardo a Freya…

Probabilmente era ancora sotto sedativi, o qualunque cosa Kalb gli avesse dato per attutire il dolore. Si notava che non era ancora pienamente in sé, sveglio e vigile. Così decise che era meglio fare come aveva detto Kalb, e lasciarlo riposare. Mentre si allontanava, Rigel richiuse gli occhi.

“Siamo di nuovo tu e io”.

Quando si volse, incontrò gli occhi celesti di Kalb che la scrutavano, qualche spanna sopra di lei e le venne spontaneo domandarsi se non avesse fatto apposta ad intromettersi nella conversazione per darle un taglio.

 “Perché non andiamo a sederci in salotto?”

Bion rimase a bocca aperta alla vista di quello che lui aveva definito “salotto”. Gli pareva una parola molto riduttiva. Era una stanza enorme, almeno grande tre volte la sala della casa di Rigel. Era arredata in modo sfarzoso, lussuoso. C’erano quadri alle pareti, tavolini con sopra eleganti soprammobili, un tappeto rosso e oro e perfino un arazzo appeso ad una parete. Sulla destra della stanza c’erano un paio di divani bianchi all’apparenza molto soffici e comodi, accompagnati da una poltrona in tinta unita e un tavolo basso su cui troneggiava un ampio vaso di girasoli.

La cosa che stonava nella stanza e che Bion notò subito, era una piccola porta in fondo, grigia, di metallo, molto moderna che non ci azzeccava affatto con il resto della mobilia così antica e ricercata.

“La sala comandi”.

Kalb le apparve di fianco, le braccia incrociate sulla schiena e il volto che non tradiva emozione. “Ti stavi chiedendo cosa c’è oltre quella porta, no? La sala comandi” spiegò, in tono pratico e alquanto divertito.

Bion gli sorrise. Averlo accanto le faceva una strana impressione. Non lo conosceva, ma quando la guardava in quel modo così gentile e un po’ malinconico, le sembrava che la conoscesse da sempre.

I suoi modi le piacevano. Non aveva mai conosciuto nessuno che le riservasse tutte quelle attenzioni e allo stesso tempo sapesse il fatto suo abbastanza da non apparire appiccicoso. E forse, dopotutto, anche lei le aveva fatto una buona impressione…

Si scrollò quei pensieri dalla testa e seguì Kalb fino ai divani. Si sedette e prese un bicchiere colmo di un familiare liquido violaceo che lui le offrì un istante dopo. Era succo di lampone.

Kalb prese posto sull’altro divano, di fronte a Bion, sporgendosi sul tavolino.

“Allora, vuoi chiedermi qualcosa?”

Bion alzò gli occhi su di lui, che la fissava con un lieve sorriso sulle labbra. Appoggiò il bicchiere di succo sul tavolino tra di loro e posò le mani sulle ginocchia. “Ho sentito parlare delle astronavi più come leggende e ora, be’, sono solo molto affascinata…”

“Da me?”

Bion non poté evitare di sorridere. Si trattenne. “Da ogni cosa”.

Kalb annuì sapientemente senza toglierle gli occhi di dosso. “Cosa vuoi sapere?”

“Perché pensi che voglia sapere qualcosa?”

“Perché è quello che traspare dalla tua faccia ogni minuto da quando ti sei svegliata”.

Era tornato per un istante serio e la scrutava con attenzione.

“Devi avermi osservata bene” sussurrò lei strappandogli un mezzo sorriso. “Tu sei umano. Cosa ci fai qui? Hai un’astronave, potresti andartene, fare qualcosa…”

“Tipo cosa?”

Bion ci pensò un attimo. Non sapeva cosa, ma pensava che con un potere del genere, possedere un’astronave dovesse almeno permettergli di fare qualcosa di grandioso. Ma forse non era necessariamente vero. Forse avere un’ astronave non significava avere il potere di cambiare il mondo.

“Ti risponderò”, disse Kalb, “anche alle domande che non mi hai fatto”.

  
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