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Autore: hibou    23/07/2012    2 recensioni
Il mondo era finalmente in pace, tutti festeggiavano la vibrante armonia e sensazione di benessere che aleggiava nelle città da quando la libertà era tornata a coronare gli spiriti delle persone.
Un incubo finito, una guerra vinta, il ritorno dalle tenebre, scrivevano i giornali.
Ma non per lei, che l’inferno lo viveva ogni giorno, lo vedeva nei suoi occhi, nel suo viso ogni mattina a colazione. Aprire gli occhi e percepire la sua voce nitida prorompere tra i corridoi, tanto spaventosa quanto odiata. Non riusciva ancora a crederci, non poteva essere vero.
Lo odiava, lo detestava.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Majin Bu, Mr. Satan, Videl
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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E' la prima volta che mi cimento in una fiction che ha come protagonista Videl. Ho voluto fare una prova e allargare i miei orizzonti, spero ne sia venuto fuori un buon lavoro. Essendo non molto pratica di questi personaggi vorrei mi faceste notare i miei errori, soprattutto fatemi sapere se sono riuscita a renderli IC.
Un grazie di cuore per l'attenzione che dedicherete alla mia storia! :)
hibou.




Tra quattro mura








Premeva le unghie contro il palmo della mano chiusa a pugno. Lo sguardo saettava dalla porta al cancello, si concentrava sull’ampia finestra coperta da pesanti tende che non lasciavano spazio ad occhiate indiscrete. Ondeggiò leggermente sulle gambe e sospirò, ripercorrendo mentalmente e per l’ennesima volta il percorso che l’avrebbe portata in camera sua. Il sole alto picchiava sulle spalle e lo stomaco a digiuno dalla mattina gorgogliò affamato.
Stanca di indugiare, afferrò lo zaino ai suoi piedi ed aprì il cancello con slancio, facendolo cigolare e sbattere contro il muretto che cingeva la grande dimora. Corse più che poté con le chiavi d’ingresso in mano, aprì la serratura e velocemente si indirizzò nel lungo corridoio. Percepiva in lontananza le voci della televisione accesa e quella di suo padre leggermente alterata, intento in una ramanzina non troppo convinta. Si guardava intorno con i sensi vigili, spiando all’interno di ogni stanza ogni volta che incrociava un uscio aperto. Percepì i guaiti festosi del cucciolo avanzare verso di se, ma non gli diede importanza. Raggiunte le scale principali, le percorse saltando due, tre scalini alla volta finché, raggiunto il pianerottolo, si fiondò nella propria camera chiudendo energicamente la porta alle spalle, che risuonò per tutta la casa.
Ogni giorno era la stessa storia.
Abbandonò lo zaino al centro della stanza e si stese sul letto, affaticata. Vivere in quella casa era diventato un incubo; costretta da una settimana ad un nuovo tenore di vita, trovava pace solo nel momento in cui si allontanava per adempiere agli obblighi scolastici. Ogni scusa era buona per scappare; non ricordava nemmeno l’ultima volta che aveva passato un pomeriggio di relax stesa nel divano in soggiorno. Non ricordava nemmeno l’ultima volta che aveva parlato con suo padre. Disdegnava i pasti e le stanze principali; quei pochi momenti in cui era costretta a fare ritorno, si segregava in camera e provava timore persino nel percorrere il corridoio alla volta del bagno. Si sentiva una ladra, un’estranea costretta ad una vita di silenzio e fughe continue.
Sbuffò esasperata, coprendosi il volto con il cuscino e graffiando il lenzuolo sgualcito. Tutto per colpa sua, per timore di incontrarlo.
 Il mondo era finalmente in pace, tutti festeggiavano la vibrante armonia e sensazione di benessere che aleggiava nelle città da quando la libertà era tornata a coronare gli spiriti delle persone. Un incubo finito, una guerra vinta, il ritorno dalle tenebre, scrivevano i giornali. Ma non per lei, che l’inferno lo viveva ogni giorno, lo vedeva nei suoi occhi, nel suo viso ogni mattina a colazione. Aprire gli occhi e percepire la sua voce nitida prorompere tra i corridoi, tanto spaventosa quanto odiata. Non riusciva ancora a crederci, non poteva essere vero. Lo odiava, lo detestava.
Molte volte, come in quel momento, nella solitudine della sua camera, si chiedeva se mai un giorno sarebbe riuscita a convivere con il suo essere, a concepire l’idea di dover condividere la sua vita con la creatura che aveva seminato l’orrore della morte. Si domandava quando tutto questo avrebbe avuto fine, e si sforzava di trovare un motivo per giustificare la decisione di suo padre e farlo sembrare meno colpevole di quella pena che, invece, era tutta opera sua. Si sentiva sola, prigioniera in una grande villa che l’aveva vista crescere e farsi donna, incatenata tra quattro mura che da sempre l’avevano protetta e riscaldata nelle fredde sere d’inverno.
Sentì le lacrime pungerle gli occhi e strinse le braccia contro il cuscino, stanca e afflitta da quella situazione insostenibile. Dei colpi risuonarono contro il legno della porta facendola sobbalzare, e la voce profonda di suo padre la richiamò con forza.
Non diede risposta e ciò costrinse l’uomo a bussare più forte e aumentare di intensità il tono e gli epiteti dolci cui era solito riferirsi a lei.
Esasperata si asciugò gli occhi umidi ed aprì appena l’uscio, giusto per poter intravedere il viso barbuto e lo sguardo preoccupato di Mister Satan.
“Che c’è?” chiese modulando la voce, risultando comunque astiosa. Il padre la fissò intensamente e sospirò: “E’ pronto il pranzo, non scendi a mangiare?”
“Non ho fame” rispose la ragazza, tradita dallo stomaco che si oppose con fermezza gorgheggiando. L’uomo sorrise, lanciandole un’occhiata eloquente. Di tutta risposta Videl sbuffò e spalancò la porta, avviandosi con lentezza e nervosismo per le scale, seguita dal padre felice di poter condividere un momento con lei.
Scesero al piano inferiore e Mister Satan la precedette nell’entrare nella sala da pranzo. Lo vide correre e sedere a capo della grande e lunga tavola e puntare i gomiti con cipiglio infuriato contro l’individuo alla sua destra.
“Maledizione Majin Bu! Ti avevo detto di non iniziare ad abbuffarti finché tutti non erano a tavola!” ringhiò agitando i pugni.
La grande creatura rosa sorrise con la bocca unta, voltando la testa di lato con fare interrogativo: “Ma Mister Satan, io avevo fame” rispose semplicemente, tornando a torturare una succulenta coscia di pollo che reggeva tra le mani.
Videl restò immobile all’entrata della stanza, fissando con disprezzo la creatura ingorda che non si era accorta della sua presenza. Il padre sospirò rassegnato dal comportamento di Bu e si volse alla figlia, facendole segno e pregandola di avvicinarsi.
“Quello è il mio posto” si rivolse la ragazza al mostro, che posò per la prima volta lo sguardo su di lei facendola rabbrividire. Strinse i pugni.
“Perdonalo, Videl cara!” proruppe il padre, lievemente imbarazzato e giungendo le mani; “Bu non lo sapeva e ha preso il primo posto libero e...”
“E’ una settimana che vive in questa casa, come fa a non saperlo?” ringhiò, gli occhi sempre fissi su di lui che ridacchiò felice.
Mister Satan deglutì, tamburellando le dita sulla tovaglia linda. “Su tesoro siedi qui accanto a me. È solamente un posto, non c’è motivo per cui...”
“Bene, che si tenga anche il mio posto allora!” gridò la ragazza interrompendo il padre. Videl si avvicinò alla tavolata, afferrò bicchiere, posate e piatto posti dal suo lato e li lanciò contro la creatura, che bloccò il boccone a mezz’aria e posò uno sguardo confuso su di lei.
“Che vuoi prenderti ancora, la mia camera?!” sbatté i palmi aperti sul legno, facendo tintinnare le bottiglie e i viveri.
“In effetti non è male la vista dal tuo balcone...” fu il commento di Bu, che, pensante e dito sul mento, non capì il senso delle sue parole.
“Ti sei preso la mia casa, ti sei preso mio padre! Hai distrutto il pianeta e fatto fuori migliaia di vite innocenti!” un singhiozzò le scappò tra le labbra, scuotendole le spalle al ricordo della morte di Gohan. “Ti sei preso la mia vita, e ora anche il mio posto a tavola. E dovrei fare finta di niente, dovrei fingere che in questi mesi non sia successo nulla e convivere con un assassino!”
Voltò lo sguardo verso il padre e lesse risentimento in quegli occhi così profondi e simili ai suoi: “Mi dispiace papà, non ce la faccio.”
Restarono a guardarsi per un momento interminabile, ognuno immerso nel dolore dell’altro, tra la sofferenza di una vita condivisa con un individuo abominevole e quella creata dal vedere l’infelicità negli occhi della propria unica figlia.
Corse fuori dalla stanza e percepì la voce di Mister Satan chiamarla e i suoi passi correrle incontro. Uscì di casa, superò il cancello, si ritrovò in strada. Senza pensarci due volte spiccò il volo verso le montagne e si lasciò dietro gli occhi tristi di suo padre e l’immagine sgradevole di quel mostro. Si lasciò dietro il ricordo delle uccisioni, delle esplosioni e della sofferenza e si diresse verso la sua piccola oasi di pace, quella che sapeva farla ridere, consolare, comprendere. Aumentò la velocità Videl, e volò verso i monti Paoz, chiedendosi se mai, un giorno, l’incubo di Majin Bu avrebbe smesso di perseguitarla.
 
  
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