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Autore: KillerKing    23/07/2012    12 recensioni
"L’Ordine ci accolse fra le sue fila e ci diede da mangiare, ci diede un’istruzione. Ci insegnò a leggere e scrivere, ci insegnò il greco e il latino.
Ci insegnò a combattere.
Tutto in cambio di una fedeltà assoluta e senza riserve, tutto in cambio dell’assimilazione di quell’unico precetto: Nulla è reale. Tutto è lecito."
La storia di un membro dell'Ordine degli Assassini, un personaggio (storico?) che è però conosciuto per tutt'altro motivo.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Piccola premessa: Questa breve storia è pura finzione. Non intende quindi offendere la sensibilità, le credenze o le convinzioni di nessuno. L’ho scritta perché l’idea mi sembrava valida. Buona lettura!

 
 
Nulla è reale. Tutto è lecito. Me lo hanno ripetuto per tutta la vita, sin da quando ero troppo piccolo per capire cosa volesse dire.
Nulla è reale. Tutto è lecito. E’ il Credo che l’Ordine mi ha insegnato sin da quando mi tolsero dalle strade di Gerusalemme, dove vivevo di quello che riuscivo a rubare.
Erano in tanti come me, orfani o con genitori che non potevano, o non volevano, occuparsi di noi. L’Ordine ci accolse fra le sue fila e ci diede da mangiare, ci diede un’istruzione. Ci insegnò a leggere e scrivere, ci insegnò il greco e il latino.
Ci insegnò a combattere.
Tutto in cambio di una fedeltà assoluta e senza riserve, tutto in cambio dell’assimilazione di quell’unico precetto: Nulla è reale. Tutto è lecito.
La nostra esistenza, l’esistenza stessa dell’Ordine, è votata ad un unico scopo: liberare gli uomini dalla schiavitù della tirannia. Far sì che siano abbastanza forti e motivati da riprendersi la libertà quando gli viene tolta. E così, una volta cresciuti, fummo mandati dovunque il fuoco dell’insurrezione avesse bisogno di essere alimentato. In Egitto come in Palestina, in Grecia come in Galilea. In ogni luogo in cui l’Aquila di Roma affondasse il suo crudele rostro.
Ero appena rientrato da una missione a Damasco, quando i miei mentori mi dissero che dovevo controllare da vicino un uomo. Un predicatore originario di Nazareth, il figlio di un carpentiere. Si chiamava Joshua.
Girava di città in città predicando come fosse una sorta di profeta, e stava raccogliendo intorno a sé qualche seguace. Era un uomo convincente e carismatico e i miei maestri mi ordinarono di accodarmi a lui. Forse quell’uomo non era altro che un fuoco di paglia, ma chiunque potesse rappresentare in qualche modo un pericolo per Roma, noi lo tenevamo d’occhio per vedere se potesse tornare utile ai nostri scopi.
E così entrai fra i seguaci di Joshua e cominciai a viaggiare insieme a lui. Era incredibile come sapesse attirare l’attenzione su di sé. Dovunque andasse si riunivano persone intorno a lui ad ascoltare il suo verbo e le sue parabole. Prima decine, poi centinaia.
Passammo mesi insieme, giorni di meditazione e preghiera, anche se il “Maestro”, come noi lo chiamavamo, si rivolgeva ad un dio al quale, in fondo al mio cuore, io non credevo. Joshua portava conforto agli ammalati, condivideva il cibo coi reietti, consolava i tristi e difendeva i più deboli. Con i miei stessi occhi lo vidi salvare un’adultera dalla lapidazione con la sola forza delle sue parole. Era un uomo probo e giusto.
Ma dopo aver assistito a quell’episodio commisi un errore che un uomo della mia schiatta non avrebbe mai dovuto compiere: cominciai a guardare Joshua non più come un obiettivo o un eventuale bersaglio, ma come un amico. E con questa nuova consapevolezza nacque anche l’angoscia di ricevere, un giorno, l’ordine di affondare la mia lama celata nel suo cuore. Cercavo di non pensarci, mi recavo al covo dell’Ordine a fare rapporto il meno possibile, nell’illusione di sottrarre Joshua allo sguardo dei miei capi. Ma, come avevo temuto, la situazione cominciò in breve a precipitare.
Gli altri seguaci ad un certo punto cominciarono a chiamarlo non più “Maestro” ma “Figlio di Dio”.
E, dopo una certa reticenza iniziale, questo appellativo cominciò a piacere anche a lui.
Io cercai in tutti i modi di smorzare questo fervore perché sapevo che non avrebbe portato a nulla di buono, ma gli altri accoliti cominciarono a guardarmi con sospetto e circospezione e a tenermi distante dal mio amico. E comunque, più passavano i giorni, più la fama di Joshua aumentava. E con essa il fanatismo.
Su di lui cominciarono a girare storie assurde: si diceva che avesse mutato l’acqua in vino durante uno sposalizio e che avesse sfamato una folla moltiplicando cinque pani e due pesci. Addirittura si cominciò a mormorare che fosse stato concepito e partorito da una vergine per volontà divina.
Le storie passavano di bocca in bocca e di città in città, sempre più esagerate ed ingigantite e le persone ci credevano. Ci credevano per disperazione, perché il giogo di Roma e degli uomini preposti alla gestione delle province era sempre più opprimente, sempre più soffocante. E le autorità religiose del Sinedrio Ebraico non erano da meno.
Il popolo voleva il suo eroe.
Joshua fu presto travolto dalla sua stessa leggenda. Cominciò a comportarsi come se fosse veramente il Figlio di Dio, promettendo la salvezza eterna a chi avesse seguito la sua parola. Alcuni seguaci pagarono delle persone per gridare ai quattro venti che Joshua li aveva guariti da malattie mortali, altre per dichiarare di essere state liberate da demoni che avevano in corpo. Il mito di Joshua era ormai diffuso in tutta la Giudea.
Poi venne la goccia che fece traboccare il vaso.
In lungo e in largo si diffuse la notizia della morte di un amico di Joshua, Eleazar di Betania. Il “Figlio di Dio” si presentò davanti al suo sepolcro quattro giorni dopo la sua  “morte” e davanti ad una folla estasiata gridò solennemente: “Eleazar, alzati e cammina.”
Eleazar, ancora avvolto dalle bende funebri, uscì dalla tomba fresco come una rosa e la folla andò in delirio.
Inutile dire che era tutta una messa in scena, io lo sapevo. Eleazar se ne stava nel sepolcro da quattro giorni e l’odore di decomposizione che usciva dalla tomba era dovuto alle carogne di alcune capre messe lì di proposito. Forse alcuni sospettarono qualcosa ma i seguaci del “Maestro” li misero a tacere.
Joshua fu accolto in Gerusalemme in trionfo.
E fu proprio a Gerusalemme che mi giunse il dispaccio che da così tanto tempo temevo di ricevere: Joshua era divenuto un ciarlatano, un mistificatore, non migliore dei Sacerdoti del Sinedrio. L’Ordine aveva decretato la sua morte.
Piansi, piansi come mai avevo fatto, rintanandomi in una squallida osteria e stordendomi col vino. Perché non ero stato abbastanza abile da evitare che si giungesse a questo?
Senza contare che non era solo il mio Ordine, ormai, a volere il mio amico morto. Avevo una rete di informatori ben pagata e molto efficace. Il Sinedrio lo giudicava ora troppo fastidioso e pericoloso, dopo la storia della resurrezione di Eleazar. Ed anche una parte del popolo, che inizialmente lo seguiva, gli si era rivoltata contro. Perché quella parte di popolo aveva sperato di trovare in lui il messia che avrebbe guidato la rivolta contro i Romani e che li avrebbe resi di nuovo liberi. Probabilmente quello che il mio stesso Ordine si aspettava da lui. Ma Joshua invece predicava “ama il tuo nemico” e “porgi l’altra guancia” perché solo così si poteva sperare di essere accolti dal Padre Suo nel Regno dei Cieli.
Il cappio attorno al suo collo si faceva sempre più stretto e forse anche lui se ne era accorto.
Io intanto continuavo ad esitare. Anche se Joshua non era più la persona che avevo imparato ad amare come un fratello, non riuscivo ad ucciderlo come mi era stato comandato. Nuovi dispacci mi furono recapitati sollecitandomi ad agire, ma io raccontavo a me stesso che non era mai il momento giusto.
Ma ora il momento è arrivato, anche se non sono stato io a volerlo.
Poche ore fa, durante la cena per festeggiare la Pasqua, Joshua ci ha guardato tutti, me e gli altri undici seguaci con cui condivideva il pasto, affermando che uno di noi lo avrebbe tradito. Poi ha guardato fisso me ed ha detto: “Quello che devi fare, fallo in fretta”.
Io non avevo idea di cosa stesse dicendo, ma gli altri seguaci mi hanno aggredito e sono dovuto fuggire. Di corsa mi sono recato dal mio migliore informatore per cercare di scoprire la verità, ma il maledetto non voleva parlare. Ha sciolto la lingua solo quando gli ho puntato la lama celata alla gola.
E così ho saputo.
Quel pomeriggio un uomo mandato dal mio Ordine si era recato al Sinedrio spacciandosi per me. Lì, in cambio di trenta denari d’argento, aveva esposto ai Sacerdoti quali sarebbero stati i movimenti di Joshua quella sera, dove trovarlo e quando.
Un altro adepto dell’Ordine era stato poi incaricato di dire tutto a Joshua poco prima della cena, di dirgli che io l’avevo venduto e che ormai non aveva più scampo.
Lo cattureranno nell’uliveto del Getsemani e quando Il mio amico si accorgerà che l’uomo insieme alle guardie non sono io sarà ormai troppo tardi. Come l’Ordine sia stato messo al corrente di tutto, lo ignoro.
Ed ignoro quale morte sarà data a Joshua, anche se è facile immaginarlo.
Quello che so, è che anche la mia condanna è stata emessa. Ho trasgredito agli ordini. Non obbedendo ho messo in dubbio il Credo. E la mia pena sarà la morte.
Ora sono qui, nella mia casa, ad aspettare coloro che mi daranno la pace eterna.
Ma non me ne andrò come i miei carnefici si aspettano, non gli darò la soddisfazione di uccidere un uomo supplice.
Le mie armi sono al mio fianco, la mia lama celata è pronta a scattare.
Perché seppur rinnegato, io sono quello che sono, e non mi importa con quale epiteto sarà ricordato il mio nome.
Sono Yahudah Ish Kariot.
Sono un Assassino.


  
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