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Autore: _M e l_    24/07/2012    1 recensioni
Era stanco, Marco. Troppo stanco.
«Avete vinto voi» sussurrò al vuoto e, dopo anni di notti insonni, finalmente si addormentò.
Aveva capito cosa doveva fare. Aveva capito come poteva salvarsi.
Ed ora, si sentiva al sicuro.

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La Shot è stata scritta per il contest estivo "Lo slash è un diritto", indetto da Il_Genio_del_Male e Florelle sul gruppo di Facebook "Lo slash è un diritto", con i prompt: Spogliatoio e, anche se solo accennato, "Chiedilo a lei". Il tema trattato è Omofobia.
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Rating Arancione: nella storia sono presenti atti di bullismo, omofobia e suicidio.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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Al diavolo tutti
[1726 parole]






Marco sedeva stancamente sulla panca dello spogliatoio, un asciugamano intorno alla vita e uno intorno al collo, che utilizzava per asciugarsi il viso e il petto.

Sapeva che doveva sbrigarsi, ma dopo due ore di estenuanti esercizi fisici il suo corpo si rifiutava categoricamente. Persino la doccia non era riuscita a rilassarlo, teso com'era in quel periodo, e lui ne aveva un'estenuante bisogno. Di mangiare, di dormire, di respirare liberamente. Ma non ci riusciva, e il motivo era appena arrivato alle sue spalle. Alto, con un corpo robusto e un ghigno sul viso pieno, Gianni aveva spalancato le porte dello spogliatoio, seguito dalla sua solita cricchia di amici.

Doveva muoversi prima, si maledisse Marco, mentre sperava vivamente che il pavimento sotto di lui lo inghiottisse per portarlo via da lì. Al sicuro.

Quei pochi ragazzi che erano rimasti svanirono istantaneamente alla vista di Gianni, che, lentamente, si avvicinava a quella che era divenuta la sua vittima preferita da tre anni a questa parte. Marco.

Dal canto suo, il malcapitato non poteva fare altro che tremare. Non aveva un fisico atletico, anzi, tutt'altro, e, con i suoi tredici anni, era alto la metà di Gianni e dei suoi compagni sedicenni. Non aveva speranze.

«Ciao, Marco» disse, affabile, arpionandogli la spalla e stringendo le dita più del dovuto. Marco deglutì, già sapendo cosa sarebbe accaduto, e, balbettando, disse:«C-- c-- cosa vu-- vu-- vuoi?»

Gianni rise, portando la mano dietro la nuca di Marco e spingendola forte verso il basso.

«Ma sentitelo: c-- c-- cosa vu-- vu-- vuoi»

Marco arrossì, mentre anche il resto del gruppetto si aggiunse alle risate di Gianni.

«Non posso far visita ad un amico senza volere qualcosa?» continuò quest'ultimo, fingendo innocenza, poi, con noncuranza, si sedette al suo fianco.

Marco, in risposta, si alzò, schiacciandosi contro l'armadietto, per distanziarsi dal gruppetto il più possibile.

«Non siamo amici» sibilò, con un po' di coraggio e un po' di stoltezza. Di certo contraddirlo non avrebbe migliorato la situazione. Per sua fortuna – ma molto probabilmente gliel'avrebbe fatta pagare dopo, quando avrebbe messo fine a quella messinscena –, Gianni sembrò non sentirlo.

«Allora, Marco, cos'hai fatto ieri?»

Marco fu scosso da una violenta fitta di rabbia – e d'impotenza:«Non sono affari tuoi»

Il pugno arrivò improvviso, colpendogli la pancia e costringendolo a piegarsi in due per il dolore.

«Credo che lo siano invece. Miei e della scuola intera. Vedi, Marco, ne abbiamo già discusso: feccia come te non può stare in questa scuola, anzi, lasciatelo dire, non dovrebbe proprio esistere»

Marco sentì gli occhi pungere:«Non sono feccia, non sono come loro» protestò a mezza voce.

Perché non lo capivano? Lui non era gay.

Un altro pugno lo colpì; Marco si piegò sulle ginocchia, strizzando gli occhi e stringendo i denti per non far uscire alcun tipo di lamento. Non voleva dargli soddisfazione.

«Non sei come loro? E allora perché ti comporti proprio come loro? O forse vuoi dirmi che la danza è uno sport da maschi?»

Stavolta fu un calcio ben assestato a colpirlo e non poté trattenersi: gemette di dolore, provocando il compiacimento di Gianni.

«Non mi piace essere preso in giro, dovresti averlo capito» gli sussurrò Gianni all'orecchio, tirandogli i capelli per fargli alzare la testa – incavata nello spazio tra le ginocchia e il petto.

Fu così che vide il resto del gruppo farsi avanti sempre di più. Fu così che capì che la messinscena era finita.

«Che ne dite, ragazzi, di spiegargli un'altra volta che gente come lui non la vogliamo qui?»

 

 

 

***


 

Marco si strinse nel cappotto, mentre sbuffi di vento gli s'infilavano fin sotto i vestiti, penetrandogli nelle ossa.

Aveva lo stomaco in subbuglio e l'unica cosa che avrebbe davvero voluto fare era vomitare.

Affrettò dunque il passo, voglioso di tornare a casa il più presto possibile. Non che lì fosse meglio, ma Marco sentiva il bisogno del suo bagno e della sua stanza e del suo letto. E di qualcosa che loro non avevano ancora toccato, in cui loro non avevano ancora messo piede.

Il solo pensiero lo fece tremare vistosamente, e le prime lacrime iniziarono a cadere.

Si chiese come avesse fatto a resistere tanto, come mai non fosse crollato subito dopo che Gianni e la sua banda l'avevano lasciato sul pavimento dello spogliatoio debole e tremante, ma poi la disperazione lo invase e cercare una risposta non fu più possibile. Dopo circa dieci minuti giunse a casa.

Tentando di fare meno rumore possibile, aprì la porta di casa e si avviò verso la sua camera. Non aveva nessuna voglia di vedere il padre in quel momento, eppure non fu fortunato, incrociandolo all'imbocco delle scale.

Il suo sguardo era pieno di delusione e ribrezzo, e Marco per saperlo non aveva bisogno neanche di guardarlo, perché erano anni che era così. Quattro anni, esattamente da quando aveva deciso di iscriversi a una scuola di danza.

«Ti hanno di nuovo picchiato, eh? Di sicuro avranno avuto ottimi motivi» disse, per poi voltarsi e tornarsene nel salotto – con le sue birre e la sua tv costantemente sintonizzata su canali che parlavano di sport "maschili", come a sottolineare che lui sì, che era un uomo.

Per Marco era la ferita più dolorosa e quasi non rantolò di sofferenza a quelle parole taglienti.

Nessuno, in quel piccolo paesino in cui tutti si conoscevano, aveva preso bene la sua decisione, iniziando a guardarlo con diffidenza anche se era solo un bambino.

Marco ancora ricordava delle litigate che sua madre era stata costretta a intraprendere con i vicini, gli amici e il suo stesso marito. Ricordava anche che alla fine tornava da lui e, con un sorriso sincero, gli diceva:«Al diavolo tutti quanti. Io sono fiera di te, Marco»

E a Marco quello bastava per davvero. Era stato facile dirsi “al diavolo tutti” quando aveva accanto a sé sua madre. Era stato facile anche dirsi “al diavolo anche papà”, perché sapeva che c'era almeno una persona che lo sosteneva e difendeva.

A Marco bastava. Ma la vita sembrava avercela con lui. Difatti, la madre morì un anno dopo, lasciandolo solo e arrabbiato.

Marco proprio non riusciva a perdonarla per ciò che gli aveva fatto, eppure non riusciva ad odiarla.

Era stata l'unica che non l'aveva allontanato, spaventata dalla possibilità che potesse diventare qualcosa che non era.

Scoccò un ultimo sguardo a suo padre, intento a vedere una partita di rugby, e sentì le lacrime premere per uscire. Non sono gay: era quello che gli avrebbe voluto urlare, se solo fosse servito a qualcosa. Ma sapeva che sarebbe stato inutile: la paura che dominava le menti delle perone in quel periodo cancellava impunemente la ragione, e non c'era alcun modo per farla tornare.
Per la seconda volta in quella giornata, Marco si sentì impotente. Per la prima volta, Marco si arrese.

Salì su per le scale e, arrivato in camera, si stese sul letto, come un'automa.

Era stanco, Marco. Troppo stanco.

«Avete vinto voi» sussurrò al vuoto, e, dopo anni di notti insonni, finalmente si addormentò.

Aveva capito cosa doveva fare. Aveva capito come poteva salvarsi.

Ed ora, si sentiva al sicuro.

 

 

 

***


 

Marco s'inchina, mentre mazzi di fiori vengono lanciati sul palco dal pubblico in festa.

Si è appena concluso lo spettacolo in cui era stato ingaggiato come primo ballerino, e non avrebbe potuto ballare meglio. Era stato il migliore, e il pubblico glielo riconosceva, mostrandogli la propria approvazione con forti applausi e grida di giubilo.

Marco, gli occhi lucidi dalla commozione, osserva il teatro: sono tutti in piedi - non ne può essere più felice.

Dopo, il suo sguardo viene attratto da una donna in prima fila. Indossa un lungo vestito nero, che fascia perfettamente le sue forme e risalta il chiarore della sua pelle. I capelli, lasciati sciolti, le cadono dolcemente sulle spalle, incorniciandole il viso dolce. “È bellissima”, pensa Marco. “Ed è mia. La mia bellissima ragazza.”

Marco le sorride, e lei ricambia, applaudendo più forte e mandandogli un bacio con quelle labbra carnose e rosee.

Marco è fiero di se stesso: gliel'ha fatta vedere a quegli idioti dei suoi compaesani. È diventato un famoso ballerino e ha una fidanzata stupenda. Sì, è davvero fiero di se stesso.

E, adesso, se qualcuno avesse ancora dei dubbi sul suo conto, saprebbe cosa rispondergli:«Chiedilo a lei»

E, adesso, se qualcuno avesse ancora dei dubbi sul suo conto, ci sarebbe lei a dirgli:«Al diavolo tutti»

 

 

 

Marco assapora quelle immagini ogni volta che chiude gli occhi da tre anni. Sono la sua rivincita, il suo sogno.

Ma non si può vivere di sogni per sempre, vero, Marco? E tu sei troppo stanco per combattere affinché si avverino. Troppo debole.

Marco assapora quelle immagini anche in questo momento. Le vede defluire dal suo corpo insieme alle emozioni che gli provocano. Vanno via, una dopo l'altra, con il sangue che gli sgorga dalle ferite sui polsi, e il tutto si mischia all'acqua che lo circonda.

Ha capito cosa doveva fare da quel giorno in cui si era arreso definitivamente. Era passata una settimana, durante la quale lui ci aveva pensato e ripensato, scegliendo il luogo e il modo più adatti, e poi finalmente il momento era arrivato.

La giornata era iniziata normalmente: Marco aveva seguito tutte le lezioni, prendendo appunti come suo solito, fino alla quarta ora, quando tutti i suoi compagni di classe si erano diretti giù verso lo spogliatoio.

Si erano cambiati ed erano andati di corsa dalla professoressa per iniziare la lezione, tutti eccetto Marco, che era rimasto lì, nelle docce, con l'acqua calda che gli scorreva sul corpo.

Sapeva che nessuno sarebbe andato a cercarlo, dato che a nessuno importava di lui, quindi si era mosso con estrema calma.

Si era seduto sotto il getto d'acqua e, con un coltellino ben affilato, si era lasciato dei profondi tagli sui polsi. Le sue mani non avevano tremato, dalle sue labbra non erano usciti versi di lamento, sulle sue guance non erano scese lacrime, nel suo cuore non c'era stata traccia di paura.

In quel momento, lui si sentiva bene. In quel momento, riusciva solo a pensare a quelle immagini e al fatto che avrebbe finalmente riposato senza alcun pensiero per la testa.

Quando sente delle voci venire dallo spogliatoio, lui spera solo che a trovarlo sia Gianni e la sua banda.

Quando sente delle voci chiamare il suo nome, lui riesce solo a dire:«Al diavolo tutti»















 


Ooooookay, non so cosa dire.
L'argomento è difficele da trattare, ed io non sono sicura di esserci riuscita al meglio, ma non ho saputo fare di più.
Nella mia testa, la storia dovrebbe essere ambientata negli anni di spicco dell'omofobia, ovvero gli anni '80-'90.
Spero davvero di non aver appena pubblicato una ca**ta colossale; personalemte ancora non riesco a capire se mi piace o meno xD
Qualsiasi parere è bene accetto :) 


Ringrazio, dunque, chi recensirà, chi metterà la storia tra le preferite/seguite/ricordate e chi leggerà solamente :)
Vostra,
       _M e l_


La Shot è stata scritta per il contest estivo "Lo slash è un diritto", indetto da Il_Genio_del_Male e Florelle sul gruppo di Facebook "Lo slash è un diritto", con i prompt: Spogliatoio  e, anche se solo accennato, "Chiedilo a lei". Il tema trattato è Omofobia.
   
 
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