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Autore: Due Di Picche    25/07/2012    0 recensioni
«Allontanati Valley, non riesco a guardare i fuochi».
«Non li vedresti comunque e poi non sono così belli».
«Se è per questo nemmeno tu sei un bello spettacolo». La mia voce cominciò a tremare quando mi accorsi che le mie parole non combaciavano con i miei pensieri.
«Stai mentendo».
«Non è vero!», ribattei. Non avrei mai ammesso davanti a lui di provare qualcosa nei suoi confronti.
«Allora provamelo. Guardami come sempre, con ira. Dimmi che mi odi, Ginevra!»
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Due parole...

Eccoci qua al quinto capitolo! Non ho voglia di perdermi in chiacchiere perchè fa caldo (:P) perciò molto velocemente faccio i soliti ringraziamenti a chi commenta, a chi segue la storia e a chi semplicemente la legge... ringrazio come sempre Alyce_Maya che mi aiuta la revisione dei vecchi capitoli (in campo grammaticale) XP
Baci
Due Di Picche

*** 




5.Perché mi mandi in confusione…
 
Non avevo mai pensato a quanto l’alba fosse simile al tramonto: forse perché non l’avevo mai vista in vita mia. Ero sveglia e un forte dolore mi martellava la testa. Distesa sulla spiaggia, con gli occhi socchiusi, osservavo il sole nascere. Vicino a me, sedute, c’erano Eleonor e Sue.
Appena notarono che ero di nuovo cosciente mi aiutarono ad alzarmi. Non avevo freddo. Una camicia bianca e larga mi copriva le spalle e le braccia. Quando l’avevo indossata?
Recuperando il cappello poco lontano da me, continuavo a farmi domande su domande. Avevo vaghi ricordi della serata. Una gran confusione offuscava quei piccoli frammenti di puzzle che, senza incastro, continuavano a vorticare nella mia testa.
Incrociai le braccia intorpidite e sbattei più volte le palpebre. Un brivido inaspettato mi percorse; qualcosa stava per cambiare me lo sentivo.
“A che ora passa il primo autobus?” chiesi alle ragazze senza distogliere lo sguardo dal mare.
“Alle sette e mezza” mi rispose Sue.
Non sapevo che ora fosse ma sicuramente mancava ancora un bel po’ .
“Si può sapere cos'è successo ieri dopo il concerto tra te e Valley?” quel cognome era l’ultimo dei miei pensieri ma il primo dei miei problemi.
Scossi la testa appoggiando una mano sulla tempia. Il dolore era allucinante “Non lo so. Mi avete fatto bere, poi ho bevuto ancora. Ho vaghi ricordi”
Molto vaghi. E quello più preoccupante era sicuramente lo sguardo di Aaron talmente vicino da riuscirmici a specchiare. Occhi svegli, di un verde intenso. Una vera confusione.
 
 
Avevo lasciato la Wilson sulla spiaggia. Faceva freddo perciò le avevo messo addosso la mia camicia da vero gentleman. Mi ero sempre rifiutato di fare il gentiluomo con lei, ma vederla addormentata e quindi indifesa, mi aveva fatto quasi paura.
Ero nel lussuoso pullmino della famiglia Power, quella del nostro capo band, e stavamo rientrando in città. 
Marina e Sven si erano addormentati. Matt, nonostante fossero le sei del mattino, scriveva un sms. Il destinatario? Ovvio, la sua ragazza in trasferta dall’altra parte del mondo per i campionati di pattinaggio sul ghiaccio.
Non avevo mal di testa dato che non avevo bevuto molto. Mi passai un dito sulle labbra mentre ammiravo il sole che, pian piano saliva sempre più in altro. Quello con Ginevra non era stato un vero bacio infondo, e allora perché continuavo a preoccuparmi?
“Hai una faccia.” Disse Matt che si era messo ad osservarmi.
Sorrisi dopo quell’osservazione, ma non spostai lo sguardo. “E’ stato solo un quasi  insignificante bacio a stampo”
Lui era il mio migliore amico da sempre, perciò non mi feci problemi a raccontargli quella mezza verità. 
“Da quando ti fai tanti complessi per un bacio a stampo?”
Mi stiracchiai e risposi con tranquillità “Non mi sto facendo complessi, poi era ubriaca perciò non se lo ricorderà nemmeno. Non è stato nemmeno un bacio a stampo a dire il vero.”
I miei occhi si spostarono inavvertitamente su Marina che, con aria angelica, dormiva appoggiata alla spalla di Sven. Sorrisi per non mostrarmi infastidito dalla situazione. Era passato ormai tanto tempo ma non mi ero ancora abituato al rapporto della bella cantante con l’erede del casato Power.
Cercai di direzionare i pensieri sui miei fastidi, per allontanarli da Ginevra, allontanarli dall’ultima persona che avrebbe dovuto occupare la mia testa.
 
 
Rientrai a casa per le nove di mattina. La posta di sabato non c’era perciò qualcuno, quasi sicuramente la donna delle pulizie, doveva esser passato. Aprii la porta dell’appartamento convinta di esser in piena e completa solitudine, ma ahimè, mi sbagliavo. Rumori provenivano dalla cucina. Rumori che mi obbligarono ad accelerare le mie azioni.
Papà.
Un uomo ormai quarantenne se ne stava seduto sul banco di quella cucina moderna, utilizzata raramente. Vestito in giacca e cravatta, sorseggiava un caffè fatto in casa mentre smanettava con il computer portatile.
Da lui avevo preso gli occhi e il carattere. I lineamenti del mio viso ricordavano di più mia madre, come i miei capelli.
Alzò lo sguardo quando si accorse della mia presenza sulla soglia della porta. Posò la tazza e sorrise “Oh! Ginny. Pensavo di trovarti in casa”
“Ho passato il sabato fuori. Con amici” dissi comportandomi con naturalezza senza mostrare quella lieve felicità che avvampava sul mio volto. Dovevo essere dura nei suoi confronti. Con il lavoro di celebre avvocato che aveva, ormai rientrava in casa molto raramente e della mamma non parlava quasi mai. Così era George Wilson. Un uomo che voleva fuggire dalla realtà immergendosi nel lavoro.
“La mamma. Ti hanno contattato vero?” come da previsione, abbassò immediatamente lo sguardo. 
“Sono andato a parlare con i medici. So che ci sei andata anche tu. Comunque oggi la riportavano al centro di riabilitazione.”
Silenzio. Quando l’argomento era la mamma i nostri discorsi finivano sempre in un silenzio assordante. 
Ero stanca e assonnata “Io vado a dormire. Ho passato la notte praticamente in bianco”
Lo sentii sospirare “Finalmente incominci a divertirti un po’. Ti sveglio per mezzogiorno, così pranziamo insieme, vuoi?”
“Si” dissi finendo quella tazza di caffè e avviandomi verso camera mia “A dopo papà”
Quella domenica mi svegliai alle tre e di George Wilson rimase solo un biglietto appeso al frigorifero con un avviso che riguardava il lavoro. Tipico. 
 
 
Svegliarsi la domenica alle due dopo un sabato di baldoria era il massimo, peccato per la sveglia poco piacevole: una madre su tutte le furie che radunava l’intera famiglia a pranzo subito dopo la chiusura pomeridiana domenicale della pescheria. Ricco? No di certo. Noi Valley eravamo una rispettabile famiglia del quartiere più vecchio della città. Eravamo benestanti e il pesce fresco che vendeva mio padre era molto richiesto dalla gente.
Una copertura perfetta per una star come me, perché nel vecchio quartiere della città di giornalisti non se ne vedevano l’ombra. Un luogo dimenticato dove tutti si conoscevano e tutti si volevano bene: il mio segreto era al sicuro!
“Aaron guarda che della tua vita da star non mene frega niente. Alzati immediatamente” il generale maggiore Hana Valley di origini Giapponesi, madre ormai cinquantenne, mi stava chiamando a rapporto.
Quando arrivai a tavola, per ultimo, notai tutti i membri Valley ai loro posti: di fronte a me, mio padre che distribuiva le porzioni. Kyle Valley era di qualche anno più giovane di mia mamma.
Accanto a me mia sorella maggiore di tre anni: Ran Valley. Studiava per diventare stilista, da sempre migliore amica della nostra cantante, Marina, e fornitrice ufficiale dei suoi vestiti. L'ho sempre considerata molto “strana”: capelli neri tinti di biondo platino, occhiali dalla montatura rosa fluo e abbigliamento appariscente e bizzarro. Alla fine mi ero rifiutato di capirla!
Di fronte a me c’era la bella Sakura Valley. La tipica sorella maggiore: bella e buona in tutti i sensi; di sei anni più grande di me, ormai indipendente con un recente matrimonio alle spalle e anche il dolce attesa. La creatura che portava in grembo quasi da nove mesi era prossima alla nascita.
“Andato bene il concerto?” mi chiese sorridendo Sakura.
“Come sempre” risposi sbadigliando.
Ran sbuffò alzando gli occhi al cielo “Oh, ti sei già abituato a questa popolarità che persino i concerti ti sembrano tutti uguali?” a lei dava dannatamente fastidio che io, il suo sfaticato fratello minore, fossi famoso.
“Alla fine diventa tutto molto monotono. Comunque ho i soldi della serata”
“Quelli devi tenerli per te per quando finirai la scuola” mia mamma mi rispondeva sempre così quando parlavo della quota che ricevevo, una bella somma che i miei rifiutavano sempre.
“Guarda che sono tanti e la porta di legno della pescheria sta marcendo” non che non volessi quei bei bigliettoni ma sapevo che la mia famiglia ne aveva bisogno.
Il volto di mio papà si fece serio. Un’occhiata di rimprovero da parte di un paio di occhi uguali ai miei mi stava fulminando “La porta sta benissimo. Ho già provveduto io a sistemarla”
Deglutii e incominciai a mangiare. Ci fu un attimo di silenzio subito interrotto dal solito e allegro caos che dimorava in quella famiglia, nella mia famiglia.
 
 
Ritornare agli allenamenti mattutini era la soluzione migliore per scacciare via vecchi pensieri. Nella mia divisa rosso fiammante incominciai a ballare da sola in quella palestra deserta. Non c’era nessuno quel giorno a scuola se non l’ansia che Aaron potesse spuntare da un momento all’altro. Solito posto, palestra; solita ora, due di pomeriggio.
La giornata per niente afosa, riusciva a trasmettermi la carica giusta per inventare una coreografia da zero. Settembre non era così lontano come sembrava, e la fine di luglio era un orizzonte molto vicino.
La musica che avevo messo era maledettamente ritmata e coinvolgente, ma da giorni solo “Princess on ice” risuonava nella mia testa come una maledizione.
Mi fermai. Ero sudata. Ripresi fiato e, corrugando la fronte, diedi un calcio all’aria arrabbiata con me stessa. Nemmeno lo sport che amavo di più al mondo, il mio sport, riusciva a distrarmi dal mondo di Valley.
“Dannazione!“ urlai passandomi una mano sulla fronte togliendo via il sudore. 
La musica che avrei dovuto seguire continuava, ma questa volta il mio orecchio fu rapito dalla voce di Valley “Oddio! Sono capitato nel momento sbagliato”
Alzai il volto e vidi il ragazzo dai capelli neri appoggiato alla porta della palestra. Jeans, canottera, infradito.
 
 
Si era accorta tardi della mia presenza. O aveva fatto finta di non vedermi o era stata troppo presa da ciò che stava facendo. Il completino da cheerleader le stava decisamente aderente e quell’aria affaticata la rendeva ancora più eccitante. 
“Qualcosa non va? Problemi di musica?” misi le mani in tasca e sorrisi. Cercai di dimostrami amichevole.
“Problemi con te” secca e acida, la sua risposta mi elettrizzò. E così ero io il problema della sua ira. Nulla di più normale infondo, no?
“Lusingato di essere nei tuoi pensieri”
Incrociò le braccia. Perché lo fece? Forse per rabbia, ma odiavo quando lei incrociava le braccia.
“Non sento il ritmo delle mie canzoni. O altro per la testa” si lamentò lei.
“Intendi un’altra canzone?”
La vidi annuire con il capo mentre si avviava per spegnere lo stereo. Sapevo perfettamente che canzone aveva in mente.
Presi fuori il cellulare e cercai quella musica. Alzai il volume e lasciai che quella dolce canzone scritta da Matt si espandesse in tutta la palestra.
 
 
Mi girai di scatto quando riconobbi l’unica canzone sopportabile dei Black Out, “Princess on Ice”. Valley voleva farmi impazzire? 
Le mie braccia scivolarono lungo i fianchi e un brivido mi percorse la schiena, Aaron intanto si stava avvicinando. La melodia si faceva sempre più forte. Mi piaceva!
“L’ha scritta lui vero?” chiesi senza esitazioni spinta da quell’ardente curiosità risalente ancora a sabato.
“Il chitarrista intendi?”
Annuii con un cenno del capo e poi lo lasciai parlare. Lo vedevo proprio voglioso di avere una conversazione sensata che riguardasse il suo mondo, senza alcol o matematica attorno. 
“L’ha scritta per la sua ragazza che ora è lontana”
“Lo si sente dal modo in cui canta: ci mette proprio passione”
“Perché ci tiene a lei, quella canzone è il pezzo fondamentale della loro storia”
 
 
Non so perché avevo deciso di farmi gli affari di Matt, forse perché aspettavo la domanda fatidica che ogni ragazza mi rivolgeva dopo aver sentito la storia del mio amico. Ginevra non esitò difatti “Tu non scrivi canzoni?”
Sorrisi dandole la risposta più ovvia del mondo “Non ho né ragioni né argomenti per scriverne”
Lei mi fisso dubbiosa. Il suo sguardo indagatore cercava il segno che poteva smascherare quella mia bugia: troppo tempo fa, anche io avevo scritto una canzone.
Sbuffai mettendo via il cellulare. Perché tutti provavano sempre interesse verso Matt? Aveva un passato doloroso, era una persona gentile, dolce, ingenua ma forte. Era molto diverso da me.
“Allora che materia facciamo oggi?” chiesi quando mi trovai a pochi passi da lei. Avevo deciso di chiudere il discorso “mio mondo” per potermi concentrare su Ginevra.
 
 
Così incominciammo l’ennesima giornata all’insegna della matematica. Avrei voluto fargli molte domande riguardo il sabato passato visto che la mia memoria era offuscata, ma non trovai il coraggio. Non volevo neanche immaginare cosa fosse successo, cosa avevo fatto o cosa lui aveva fatto approfittando di me in quelle condizioni.
Aaron non disse niente, io non dissi niente e entrambi continuammo ad ignorare quella giornata che ci aveva coinvolto fuori dall’ambito scolastico.
Appena mi sedetti sull’autobus di ritorno, con i libri di matematica in mano, decisi di rivedere il programma sui radicali che avevamo affrontato quel giorno. 
I miei occhi stanchi non si lasciarono sfuggire una scritta insolita a bordo pagina. Scrittura mediocre, ovviamente maschile. Una matita molto marcata aveva lasciato il segno  “Sorridi più spesso :D ”
Sospirai. Valley stava contagiando anche i miei libri. Girai pagina. Un’altra scritta “sei più guardabile almeno U_U”
Mi specchiai nel vetro del finestrino. Vedevo a stento la mia immagine per fortuna, però riuscii a distinguere la linea delle mie labbra curvarsi verso l’alto. Dio! La stupidità di Valley mi stava contagiando.
 
 
Per la prima voltai provai fastidio nel vedere la mia insegnate privata in dolce compagnia di Christopher Gens. Li avvistai da lontano e non mi avvicinai. Era facile riconoscere un palestrato biondo e un ragazza formosa. Era facile scambiarli per una bella coppia a dire il vero, e tutto ciò non faceva che irritarmi, perché?
Mi nascosi dietro alla colonna del cancello. Sospirai. Cazzo! Ma cosa mi stava prendendo? Perché non ero andato lì a sfotterli entrambi? Perché mi  ero nascosto?
 
Stavo cercando in tutti i modi possibili di liberarmi di Gens senza essere volgare. Mi dispiaceva sotto sotto trattarlo male poverino: era solo cotto di me in maniera assurda. Se solo fossi riuscita a ricambiarlo. Lui però non era al centro dei miei pensieri in quel momento perché il mio cellulare squillava.
“Chris, devo rispondere scusa” lo liquidai, o almeno tentai, con quelle parole portando l’apparecchio all’orecchio.
Immobile. Il mio corpo si impietrì tutto d’un tratto. “Ha tentato una fuga” quella frase mi rimbombava nella testa. 
Mi scansai da Gens, lo ignorai completamente e incominciai a correre verso il cancello, verso la strada alla ricerca di un autobus, un taxi, un passaggio. Dovevo raggiungere l’Istituto di Riabilitazione, dove era ricoverata mia madre il prima possibile, l’unico problema era che si trovava fuori città vicino all’ospedale Centrale.
 
Mi passai una mano tra i capelli neri cercando di togliere dalla mia mente insulsi pensieri. Sospirai per la millesima volta ma continuai ad attendere. Cosa volevo che succedesse?
Una folata di vento mi distrasse. Passi. Una corsa sfrenata contro il tempo. Alzai o sguardo curioso e davanti a me comparve lei, Ginevra.
La ragazza dai capelli biondi vestita con una camicia a fiori e degli shorts neri, se ne stava in mezzo alla strada e si guardava attorno. Destra. Sinistra.
“Ginny!” una voce preoccupata la obbligò a voltarsi e io riconobbi la sua espressione. Avevo desiderato non rivedere mai più quel volto pieno d’ansia e paura. Desideravo dimenticare la faccia di una ragazza sconvolta.
La Wilson si accorse di me. I suoi occhi spalancati mi fissarono. Mormorò qualcosa. Il mio nome? Non feci in tempo a comprendere che subito notai Christopher vicino a lei. Doveva esser stato presente alla sua “trasformazione”. La sua reazione era stata simile alla mia quando avevo visto per la prima volta Ginevra in quelle condizioni. 
 
 
“Cosa succede Ginny? Hai un’espressione terribile. Cosa è successo?” domande, domande e ancora domande. Gens mi stava mandando ancora più in confusione. Mi girava la testa mentre i miei occhi si spostavano da Gens, al cellulare, alla strada e a Valley.  
Rimasi in silenzio continuando a osservare Aaron mentre il mio cervello cercava una soluzione. Avevo i vari numeri d’ufficio di mio padre nella tracolla. Si! Avrei potuto contattarlo.
Tremavo. La mia borsa cadde a terra e l’intero contenuto si sparpagliò. Mi accucciai e precipitosamente cercai quei numeri. L’agitazione e il panico erano tali da non farmi capire più niente.
 
 
Non sapevo come affrontare quella scena di fronte a me. Gens che urlava, lei che non rispondeva ma continuava a cercare qualcosa. Dovevo fare qualcosa.
“Cosa pensi di fare Valley?” mi urlò Chris quando notò il mio avvicinarmi alla Wilson.
La mia voce si fece seria “Quello che non fai tu Gens: mantengo la calma”
Lo zittii. Bene, un problema in meno. Mi accucciai accanto a Ginevra che intanto non si era accorta di me. Le afferrai un polso obbligandola ad accorgersi della mia presenza ravvicinata.
Alzò lo sguardo. I suoi occhi spenti mi trafissero. La situazione era la stessa di quella volta. La parola “panico” era ben stampata sulla sua fronte ma questa volta, più in piccolo, riuscivo a leggere quella “aiuto”.
Rimase in silenzio. Le labbra le tremavano mentre il suo volto, sempre più pallido, la trasformava in un’altra persona. Quell’aspetto di Ginevra Wilson mi intimoriva ogni secondo di più.
“Wilson!” come prima cosa la richiamai poi, incominciai a scandire bene le parole in modo che lei capisse. “Non voglio spiegazioni sul tuo stato ma sembra che tu debba raggiungere una destinazione?”
La vidi annuire con un cenno del capo. Era un buon segno “Bene. Dove devi andare?”
“Fuori città.” Parlava a stento “Lontano. Lontano. Lontano”
Doveva smetterla con i segreti. Non doveva avere paura del mio giudizio. Voleva nascondere una realtà che ormai era appena stata rivelata a due persone che non potevano far finta di niente.
“Dove. Devi. Andare?” riformulai la domanda più lentamente.
Il labbro le tremò mentre sussurrava “L’ospedale Centrale”
 
 
Perché stavo confidando la mia destinazione ad Aaron? Avrei potuto farcela da sola a raggiungere l’Istituto di mia madre, vicino all’ospedale. Come sempre: sola.
Immobile, continuavo a guardarmi attorno presa dal panico. Vidi prima Valley alzarsi, poi Gens prendere il suo posto ed aiutarmi a mettere via i miei effetti sparpagliati a terra, di nuovo nella borsa.
“Sven, ho bisogno di un passaggio. È urgente” Aaron doveva essere al telefono. Stava chiamando qualcuno per me. Mi stava aiutando. Non volevo il suo aiuto ma non osai replicare quella volta.
Perché le azioni folli di mia madre ricadevano sempre sul mio stato d’animo? Non ne potevo più di correre dietro a quell’attrice fallita! Avevo fatto il possibile standole accanto durante la disintossicazione dalla droga, avevo trascorso giorni con lei facendole capire quanto la vita fosse bella se lei avesse mostrato un po’ di buona volontà, e ora, i dottori mi avevano telefonato dicendomi che aveva tentato una fuga. Tutto ciò mi faceva star male. Mio padre non si degnava di trascorrere del tempo con lei, ed io non potevo godermi la vita a causa dell'enorme peso che ero costretta a portarmi dentro.

 
Gens aiutò Ginevra a rialzarsi appena la lussuosa BMW nera dei Power si fermò davanti a noi. Sven scese dal sedile anteriore del passeggero: ovviamente tutte le macchine del casato Power erano munite di autista.
“Cosa succede?” mi chiese con fare preoccupato il bassista di Black Out. Io gli indicai la Wilson spiegandogli lo strano shock in cui la ragazza si trovava e l’urgenza che aveva di raggiungere l’ospedale Centrale.
“Ok. Vi aiuto. Stavo andando giusto da mio padre.” Bene, ero riuscito a chiedere un favore all’ultima persona con cui volevo avere a che fare, odiavo chiedere favori a Sven ma sapevo che, il signor Power, era un medico importante in quell’ospedale.
Dissi a Gens di avere la situazione sotto controllo, lui non esitò, sicuramente si sentiva un verme per come si era comportato prima, per la sua crisi di panico nel vedere la sua Ginny in quelle condizioni.
Feci salire in macchina la Wilson che, per tutto il viaggio, rimase in silenzio. Questo suo strano atteggiamento mi mandava in confusione, quanto desideravo capirla, quanto volevo continuare ad odiarla come all’inizio. Perché non la odiavo? Ora che avevo deciso di imparare a conoscerla non ci riuscivo.
   
 
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