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Autore: gattaccionero87    26/07/2012    0 recensioni
Vendetti la mia anima per tre deisderi. Ora che è arrivato il momento di pagarne il conto, forse riesco a trovare un piccolo cavillo legale.
Genere: Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Una mano. Magra. Ossuta. Stringeva forte la mia. Aveva una forza straordinaria. Io ero affaticato. Stanco. Stanco morto. Lasciavo il mio corpo in balia delle onde. Non c'erano alternative. Davo per scontato il mio annegamento. In quelle acque putride. Viscose. Strane. Non le acque che mi ricordavo quando venni sbalzato fuoribordo da un'ondata. Una di quelle gigantesche.

Ma adesso c'era quella mano. Spuntata dal nulla. Con una forza incredibile. Mi sollevò sulla sua imbarcazione. Una chiatta di legno marcio. Un miracolo che galleggiasse ancora. Sospinta da non so quale forza.

Mi adagiò supino. Ero quasi senza sensi. La vista era appannata. Vedevo solo strane figure senza contorni. Quasi ombre. Sentii una voce. Chiese se io fossi l'ultimo per oggi. Sentii una risposta affermativa. E sentii dire che allora si poteva finalmente tornare indietro.

 

Percepii la chiatta cozzare contro qualcosa. La forza delle onde diminuire. Probabilmente un molo. Le persone che scendevano. Io ancora troppo esausto per muovermi. Non sentivo le gambe. A dirla tutta, non sentivo proprio il mio corpo. Mi sentivo leggero e pesante allo stesso tempo. Il mio salvatore mi prese per il colletto. Mi sollevò come se fossi una piuma. Mi disse di darmi una mossa. Di seguire la fila davanti a me. La fila di persone già sbarcate. Un serpente umano. Si perdeva nella nebbia. Nebbia color ocra. Scura. Densa. Sulfurea. Con un filo di voce chiesi dove mi trovavo. Il mio salvatore mi guardò accigliato. Mi diede uno spintone e barcollai sulla banchina. Di legno. Marcio anch'esso. Ero l'ultimo della fila. Che procedeva lenta ma incessante a perdersi nella nebbia. Mi voltai per ringraziare chi mi aveva salvato. Ma non vidi nulla alle mie spalle. Potevo sentire solo il rumore del mare. Perso anch'esso nella nebbia.

 

Si procedeva lentamente. Passo dopo passo. Apparentemente senza meta. Guidati come da una sensazione. Non capivo più niente. Chiamiai chi mi precedeva. Non ottenni risposta. Non si voltò neanche a guardarmi. Gli chiesi dove ci trovavamo. Le mia parole si persero nel nulla. La persona davanti a lui già non la si poteva vedere. Inghiottita dalla nebbia. La stanchezza lasciò il posto al nervosismo. Lo presi per la spalla e lo girai di forza. O almeno tentai di farlo. Non riuscivo a spostarlo. Neanche con tutte le mie forze. Per quanto esile fosse la figura davanti a me. Il mio animo virò bruscamente dal nervosismo allo spavento. Dalla nebbia sbucò timidamente fuori un cartello. Uno di quelli piantati nel fango. Fatto di legno marcio. Con una scritta viscosa. C'era scritto: Non si può comunicare. Sentivo il fiato diventarmi pesante. I battiti del cuore accelerare. Le mani sudare. La paura a cominciare a farsi spazio nel mio corpo. Corpo di cui non riuscivo a percepire la consistenza però.

Gridai. Mi voltai di scatto. Scappai più veloce che potei. Sei falcate nella direzione opposta. E mi ritrovai di nuovo in fila. Terrore. Provai puro terrore. Mi voltai un'altra volta. E corsi via. Sei falcate. E ancora andei a sbattere contro chi mi precedeva in fila. Disperazione. Provai pura disperazione. Che mi fece voltare per la terza volta e scappare. Sei falcate. Ancora la schiena di chi mi stava davanti. Urtai qualcosa con il piede. Il sostegno di un cartello. Non si può tornare indietro, recitava.

 

Avanzammo. Non so per quanto. Il tempo e lo spazio erano concetti estranei a quel luogo. Forse un'eternità era passata. Forse pochi minuti. Forse percorremmo chilometri su chilometri. O pochi metri. Ma ad un punto, ci fermammo. Un cartello. Informava di avanzare uno alla volta. Ero troppo perso nella surrealtà di quella situazione per porgermi domande. Troppo perso nella paura.

Aspettammo. Forse per un'altra eternità. Poi la persona che mi precedette avanzò. Un passo e si perse in quel fumo denso.

Aspettai. Da solo. Per l'ennesima eternità. Poi sentii il bisogno di avanzare. Cauto. Passi lenti. Pesanti. Come l'atmosfera che mi circondava. All'improvviso, la nebbia svanì. Di punto in bianco.

 

Sì, bianco. Vedevo solo il bianco adesso. Quasi accecante. Ma nitido. Definito. Fine. Leggero. Non più soffocante come la nebbia della banchina.

E vedevo un uomo. In giacca e cravatta. Occhiali scuri. Una faccia come tante si vedono in giro. Seduto ad un tavolino. Su di esso, una pratica chiusa. Si tolse gli occhiali. Li ripose nel taschino della giacca. Sollevò il suo sguardo su di me. Mi invitò con un gesto a sedermi davanti a lui. Presi la sedia. Ci appoggiai sopra il mio corpo. Stanco. Per il quasi annegamento, Per la lunga camminata. Per la paura. Ma rincuorato nel vedere finalmente qualcuno. Qualcuno con cui comunicare, apparentemente. Gli chiesi dove mi trovavo. Non mi rispose. Gli chiesi se mi sentiva. Non mi rispose. Cominciò ad aprire la pratica e a sfogliarla. Lentamente. Urlai. Gli dissi che qualunque scherzo fosse mai quello, gliel'avrei fatta pagare.

Chiuse la pratica. Mi fissò negli occhi. I suoi occhi. Non potrò mai dimenticarli. Spenti ma pungenti allo stesso tempo. Mi chiese se io fossi l'anima n° 16.456.968.145. Attonito. Ero attonito. Non so se per aver finalmente sentito una voce rivolgersi a me. O per la domanda in sé. Ma non riuscii a proferire parola. Istanti o eternità in silenzio. A guardarci negli occhi. I suoi occhi. Disse allora che tanto non importava la mia risposta. Era una domanda retorica. Lui sapeva già chi fossi. Mi disse che io d'ora in poi sarei appartenuto a loro. Tutto detto senza emozioni. Senza lasciar trasparire umanità. Come fosse una frase preregistrata.

Mi alzai di scatto dalla sedia. Una reazione involontaria. Non sapevo in realtà cosa fare. Non sapevo neanche dove mi trovavo. Che avrei potuto mai fare. Mi invitò ancora a sedermi. Mi calmai. Mi sedetti, E dalla pratica tirò fuori un foglio. Lo guardò attentamente. La sua voce cambiò tono. Un misto di rimprovero e soddisfazione. Come la maestra che becca l'alunno e copiare il compito. Mi chiese se non ricordavo. Cosa dovrei ricordare, ribattei. L'accordo, disse. Girò il foglio verso di me. Me lo spinse fin sotto agli occhi.

Aspettò una mia reazione. Reazione che non arrivava. Lei ci ha venduto la sua anima in cambio di tre desideri, disse. Lei ci appartiene, incalzò.

 

Era vero. Me lo ricordavo benissimo. Avevo venduto la mia anima al diavolo. Un giorno. Tanti anni fa.

Ero un neolaureato in giurisprudenza. Carta straccia praticamente. Il favoloso mondo dei laureati con incarichi pagati a peso d'oro non mi apparteneva. Passavo le giornate a maledire il mondo. Avrei dato qualsiasi cosa per fare carriera. Perfino la mia anima. Da ateo, non me ne importava nulla. Avrei fatto un affarone dal mio punto di vista. E l'occasione si presentò. Un giorno. Quel giorno. Si presentò a me come un cliente. Ma disse subito che in realtà era lì per un altro scopo. Mi aveva trovato sull'elenco telefonico a sua detta. E che una volta vedutomi, aveva capito che avevo bisogno di aiuto. Del suo aiuto. Lo stetti ad ascoltare non so neanche io il perchè. Forse per il fatto che, anche se finto, era l'unico cliente che mi aveva contattato in quattro mesi. E mi propose un accordo. Disse che io avevo qualcosa di prezioso. Qualcosa che lui bramava. Mi guardai attorno, nel mio monolocale. Era lì che ricevevo i clienti. O presunti tali. Monolocale riarrangiato in fretta a dar parvenza di studio legale. Lì mangiavo. Lì dormivo. Lì lavoravo. Lì consumavo lentamente la mia vita. Se riesce a vedere qualcosa di prezioso qui intorno si serva pure, dissi. Lui non distolse i suoi occhi dai miei. Prese la sua borsa. La aprì. Tirò fuori un foglio. Me lo porse. La mia risata riecheggiò per tutto il condominio. Si interruppe solamente quando ritornai con lo sguardo su di lui. Non rideva. Non aveva distolto lo sguardo da me neanche per un secondo. Era come se mi stesse mangiando con gli occhi. La risata mi si strozzò in gola. Mi sentii leggermente a disagio. Forse per il tempo che perdevo con lui. Gli chiesi ridacchiando se lui fosse il diavolo. Rise. Un povero diavolo semmai, rispose sorridendo pure lui. Già un povero diavolo. Proprio come me.

Guardai meglio il foglio. C'erano tutti i miei dati precompilati. In bianco solo lo spazio per la firma. La mia anima in cambio di tre desideri e di un incentivo iniziale.

 

Ma io ero un avvocato. Sconosciuto. Senza clienti. Ma pur sempre con la mentalità di un avvocato. Anche quando si trattava di stare al gioco. Quel contratto era aria fritta. Avrei ceduto qualcosa che non esisteva. In cambio di cosa? Di un genio della lampada? Ma non potei non chiedere cosa fosse l'incentivo iniziale.

E lui parlò coi fatti. Aprì ancora la borsa. Tirò fuori quattro mazzette da 25.000 l'una. E tornò a fissarmi. Io sbigottito. La mia bocca aperta. Se le cose avessero continuato a girarmi come negli ultimi due anni, tutti quei soldi li avrei visti in una vita intera. Si schiarì la voce. L'incentivo serve a far capire agli scettici come lei la mia serietà, disse.

E i desideri? Chiesi. Il contratto sa quali sono i veri desideri che lei porta nel suo animo, rispose. Adesso mi chiederà di firmare col sangue magari, lo sbeffeggiai. Assolutamente no, queste sono cose da secolo scorso, basta una firma con la biro. Era serio. Temibilmente serio. Pensavo di essere finito in qualche show televisivo. O che fosse tutto un sogno. Ma quei 100.000 appoggiati sul tavolo erano reali. Temibilmente reali. Potevo toccarli. Li contai. Lo guardai con aria indagatrice.

Sono soldi puliti, disse. Aveva capito i miei pensieri. Il mio sguardo indagatore si trasformò in sguardo attonito. Senta, mi prenda come un milionario eccentrico, disse.

Firmai.

 

I primi tempi passarono normali. Nelle solite frustrazioni della vita quotidiana. Un giorno incontrai un amico. Compagni di università. Ma lui aveva già fatto carriera. Portfolio clienti di prim'ordine. Industriali. Banchieri. Politici. Gente che conta. Gente che paga. E bene. Molto bene. Ci demmo appuntamento per una birra. A ricordare i vecchi tempi. E a parlare del presente. Era stufo di essere un dipendente. Vero, in uno dei più prestigiosi studi legali del paese. Ma voleva di più. Voleva fondare il suo studio. Però gli serviva il capitale iniziale. Gli serviva un socio. Qualcuno di nuovo. Qualcuno di cui fidarsi. Non uno squalo come tutti i suoi colleghi. Fu come sventolare la coscia di una zebra davanti ad un leone. E il leone ero io.

Due mesi. E mi trovai catapultato nell'alta società. Al lavoro ci pensavano i dipendenti. Io la vita me la godevo. Ricevimenti. Galà. Vacanze. E donne. Tante donne. Bellissime. Una più bella dell'altra. Una più intelligente dell'altra. Tutte le donne che volevo. Tutte le donne che avevo sempre desiderato.

 

Così quel contratto finì nel dimenticatoio. Fino ad ora. Adesso mi trovavo in non so quale posto. L'inferno forse. Seduto ad un tavolino. Non era proprio l'inferno che dipingono ai bambini nelle lezioni di catechismo. Vedo che le è tornato tutto in mente, disse l'uomo seduto davanti a me. La sua voce mi riportò alla realtà. Sempre che quella si possa chiamare realtà. Possiamo procedere allora, aggiunse.

Si alzò dalla sedia. Fece per voltarsi. Ma io gridai, aspetti! Si voltò verso di me. Ma allora io sono...morto? Chiesi in lacrime. Mi girò le spalle. E fece ancora per andarsene. Ma io gridai un'altra volta, aspetti! Si voltò ancora una volta verso di me. Occhi spenti. Ma lasciavano trapelare la sua impazienza.

Io vi ho venduto la mia anima per tre desideri, dissi. Mi guardò con aria inespressiva. O forse era semplicemente stufo di me. Ma io di desideri ne ho espressi solo due, continuai. Il contratto è nullo, concludei. Le lacrime avevano lasciato spazio alla soddisfazione. Stavo tenendo testa ad un funzionario del diavolo. Mica poco. Dimenticai quasi dove mi trovavo. Mi sembrava di essere in un tribunale. A perorare gli interessi del mio cliente. E che interessi! E il mio cliente ero io stesso.

Alle mie ultime parole l'uomo si irrigidì. Si avvicinò al tavolino. Prese la pratica. La aprì. La analizzò.

Mi guardò con disapprovazione. Mi si raggelò il sangue. Mi fece cenno di sedermi. Mi diede la mia pratica. Mi disse di aspettare lì. E lui se ne andò. Perso nel bianco. In un istante.

 

Non so quanto aspettai. Secondi. Minuti. Anni. All'improvviso trasalii. Una mano appoggiata alla mia spalla. Saltai di colpo sulla sedia. Spaventato. Un uomo stava davanti a me. Giacca e cravatta anche lui. Più basso di me. Tarchiato. Baffi alla Poirot. Disse di non aver bisogno di presentazioni. Di seguirlo nel suo ufficio. Doveva discutere della mia lamentela.

Lo seguii. Non so per quanto. Altre eternità forse. A seguire chi? Non lo so. Ad un punto disse che eravamo arrivati. Davanti ad un edificio. Bianco. Che si perdeva nel candore che tutto circondava. Entrammo. Tre navate. Due file di colonne. Sembrava quasi una chiesa. Enormi arazzi appesi alle pareti. Un lungo tappeto rosso al centro. Luce fioca emanata da candelabri appesi alle pareti. Non riuscivo a vedere la fine della navata. Avanzammo. Non so per quanto. Ma sembrava non terminare mai. Tentai di parlagli. Ma non mi rispose. Camminava spedito. Facendo dondolare la valigetta. Di pelle. Nera. Ad un certo punto svoltò a destra. Si fermò davanti a una porticina. Sulla quale era fissata una targhetta. Avvocato del diavolo, c'era scritto. Aprì la porta. Mi disse di accomodarmi nel suo ufficio.

 

Dunque mi trovavo al suo cospetto. Il tanto decantato avvocato del diavolo. E io. Seduto nel suo ufficio. Su una poltroncina di pelle rossa. Davanti a me una scrivania di fine XVII secolo. Enorme. Massiccia. Su di essa un telefono. Un portatimbri. Un tampone. E una targhetta. Avvocato del diavolo, scritto in grande. E sotto più piccola un'altra scritta. Caratteri incomprensibili. E dall'altra parte lui. Seduto su una specie di trono. Forse anch'esso di fine XVII secolo. Mi chiese di porgergli la mia pratica. La analizzò. Rigo per rigo. Sollevo lo sgurdo su di me. Mi chiese cosa non mi fosse chiaro.

Gli spiegai che il contratto era nullo. La mia anima in cambio di tre desideri. Ma solo due effettivamente espressi. E poi la mia morte. Stette in silenzio a fissarmi. Non so per quanto. Poi si alzò. Sbuffò. Si avvicinò all'enorme libreria alle sue spalle. Cercò con lo sguardo qualcosa. Passò in rassegna col dito alcuni tomi. E ne tirò fuori uno. Enorme. Riusciva a malapena a reggerlo con due mani. Saranno state più di ventimila pagine. Lo mise sulla scrivania. Clausole e cavilli contrattuali, recitava la copertina.

 

Aprì la copertina. Consultò l'indice. Fece scorrere il dito alla voce “Casi di decesso prematuro”. Andò alla pagina indicata. Una nuvola di polvere finissima si alzò dalle pagine consumate. Cominciò a consultarlo minuziosamente. La stanza rimbombava dei suoi leggeri mugognii. Lo consultò a lungo. Per un'eternità. Poi lo chiuse. Allungò la mano ad alzare la cornetta del telefono. Alla sua sinistra. Compose un numero di sole tre cifre. Disse che avevano un problema. Un caso di decesso prematuro che usciva dalle clausole contrattuali. Io. Sentii delle specie di urla dall'altra parte della cornetta. La faccia dell'avvocato mortificata. Quasi in lacrime. Arrivo subito, disse. In tono referente. Agganciò il telefono. Mi fissò. Mi disse di non muovermi. Di rimanere lì seduto. Lui si alzò. Usci dal suo studio di fretta.

Rimasi solo. Ad aspettare. Ancora una volta. L'inferno dev'essere davvero tale per gli impazienti. Mi sembrava fossero passate vite intere dal mio arrivo sulla banchina. O forse no. Sentii cigolare la porta alle mie spalle. Mi voltai. Ma non era l'avvocato di ritorno. Era un uomo. In giacca e cravatta. Come tutti gli altri. Si avvicinò a me. Mi disse di rimanere pure seduto. Si sedette pure lui. Sul trono dell'avvocato. E cominciò a spiegarmi la mia situazione.

 

Disse che i contratti usati negli ultimi secoli erano stati stesi dall'avvocato stesso. Ma erano fallati. Non era specificato se si trattasse di desideri donati dal diavolo o desideri effettivamente realizzati. Certo io non ero il primo a morire senza aver realizzato i tre desideri. Mi disse che una volta uno morì senza averne sprecato nessuno. Però ero stato l'unico. L'unico che aveva mai contestato il contratto. L'unico che era riuscito a mantenere il sangue freddo. Di solito tutti si lasciavano cadere nel panico. Non capivano più niente. Si disperavano e basta. Accettavano il loro destino. La conseguenza della loro scelta. Ma io no. Io avevo reagito. Io avevo contestato il loro operato. Io avevo trovato una falla nel contratto. Mi disse che ero in gamba. Che avevo potenziale. Che avrebbero potuto aver bisogno di gente come me. Per una revisione dei contratti. Ora che il precedente avvocato era stato....destituito. Per manifesta incapacità. In vita un errore lo paghi con le lamentele della clientela. Se proprio va male ti fanno causa. Ma all'inferno no. Lì può andare molto peggio.

 

Lo guardai stupefatto. Lui si alzò. Mi raggiunse alla mia poltroncina. Mi mise una mano sulla spalla. Mi chiese se accettavo l'incarico. Accettai. Mi strinse la mano. Uscì dallo studio. Dal mio studio. Mi alzai per la prima volta dalla poltroncina da quanto mi ci sedetti. Un'eternità fa. Girai intorno la scrivania. Toccai con la mano i braccioli del trono. Del mio trono. Bellissime venature d'oro intarsiate nel legno. Mi sedetti lentamente. Cautamente. Forse intimorito dal significato del mio nuovo lavoro. Ma alla fine mi lasciai andare. Appoggiai la schiena allo schienale. Provai uno strano piacere. Restai a contemplare il resto della stanza. Non so per quanto. Mi spostai con il busto in avanti. Appoggiai i gomiti alla scrivania. Presi in mano la targhetta. La girai. Avvocato del diavolo, scritto in grande. E sotto un'altra scritta più piccola. Il mio nome.

   
 
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