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Autore: AntheaMalec    26/07/2012    11 recensioni
John Watson gli stava nascondendo qualcosa. Era l’unica opzione possibile e la cosa lo stava maledettamente infastidendo. Lo continuava a fissare da giorni come se fosse una stupida cavia da laboratorio –lui, il grande Sherlock Holmes– e prendeva appunti su uno stupido taccuino nero, passandosi di tanto in tanto la penna tra le labbra dischiuse –lo voleva decisamente morto. Quel John così misterioso e imperscrutabile stava diventando una spina nel fianco troppo dolorosa per reggere ancora, quindi Sherlock incominciò a stendere la sua tela.
Genere: Fluff, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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A study in Sherlock

 

 

 

When the rain is blowing in your face,

and the whole world is on your case,

I could offer you a warm embrace

to make you feel my love.

Bob Dylan

 

 

 

John Watson gli stava nascondendo qualcosa. Era l’unica opzione possibile e la cosa lo stava maledettamente infastidendo. Lo continuava a fissare da giorni come se fosse una stupida cavia da laboratorio –lui, il grande Sherlock Holmes– e prendeva appunti su uno stupido taccuino nero, passandosi di tanto in tanto la penna tra le labbra dischiuse –lo voleva decisamente morto. Aveva provato ad…acquisirlo in tutti i modi,  ma tutto sembrava andare contro di lui e John aveva preso il vizio di portarselo sempre con sè. Sherlock aveva pensato di provare a leggerglielo addosso, cosa stava combinando contro di lui, ma tutto ciò che riusciva a dedurre erano nozioni superficiali che non portavano a nessun risultato. Il compleanno di Sherlock era troppo lontano per cercare un’ipotetica idea per un regalo, così come le vacanze natalizie. Quindi niente doni, niente appunti per un nuovo caso, complice il noioso silenzio di Lestrade, niente di niente che potesse fargli capire cosa scrivesse tutto il pomeriggio. Quel John così misterioso e imperscrutabile stava diventando una spina nel fianco troppo dolorosa per reggere ancora, quindi Sherlock incominciò a stendere la sua tela.

 

John Watson aveva avuto una brillante idea ed era intenzionato, per una volta, a portarla a termine senza ripensamenti. Essendo decisamente stufo di quell’essere introverso e misterioso che era il suo coinquilino –migliore amico, collega, compagno di avventure, compagno di letto…quante cose era diventato?– aveva deciso ad un ingegnoso piano d’attacco.

L’aveva chiamato ‘Uno studio in Sherlock’, la  banalità del titolo era una prova evidente della sua scarsa fantasia. Ogni giorno si alzava dal letto –che fosse piacevolmente occupato o desolatamente vuoto– e cercava di adottare gli stessi metodi con la quale Sherlock lo affascinava in ogni caso. Si era impresso nella memoria la tonalità più profonda nello sguardo del suo coinquilino la sera tarda, quando suonava una di quelle canzoni tristi, accostato alla finestra.

Aveva seguito i suoi gesti mentre faceva complicati esperimenti sul tavolo, le mani bianche che giravano, prendevano e premevano come quelle di un medico con un paziente particolarmente fragile, quei momenti in cui sedeva a testa in giù sul divano semplicemente perché si annoiava, o quando faceva i soliti gesti quotidiani quali bere dalla sua tazza di the –in modo indecente– o usare il telefono durante il viaggio in taxi. Era arrivato a un punto in cui aveva deciso di usare un taccuino per stare dietro a tutto ciò che faceva Sherlock, mentre sentiva gli occhi dell’altro perforare il cuoio nero del quadernetto per scoprire ciò che ci scriveva John. Quest’ultimo aveva capito più che bene l’irritazione che Sherlock stava covando in quei giorni per lui e la sua maledetta penna, quindi ci prendeva più gusto di quanto volesse ammettere realmente. Per una volta non era lui quello in svantaggio sull’altro.

Nella prima pagina del suo taccuino John aveva scritto con cura il nome di Sherlock nella prima riga, soffermandosi ad incurvare elegantemente la S in modo da rendere giustizia a quel nome tanto strano quanto bello –un po’ come la persona che lo possedeva.  

Aveva poi incominciato a scrivere tutte le caratteristiche di Sherlock, cercando di essere il più obbiettivo possibile e di non farsi accecare da quel tumulto di emozioni che il solo pensarlo esplodevano in lui senza limiti. Egocentrico, pigro –quando voleva– introverso, impaziente, intelligente, creativo, dinamico, sexy –ops, cosa diceva sull’offuscamento di pensieri?– fuori dal comune, innocente, calcolatore, arrogante, dolce –in quei suoi rari momenti in cui si lasciava coccolare nel letto o sul divano– esibizionista, possessivo, protettivo, ironico…John aveva riempito una pagina piena solamente descrivendo Sherlock Holmes, l’unico consulente investigativo al mondo. 

Dalla seconda pagina in poi John aveva incominciato a scrivere ciò che gli passava per la testa. Frasi sui suoi comportamenti, sui suoi ragionamenti e anche sulla piacevole piega che aveva preso il loro rapporto, facendo diventare il medico estremamente guardingo riguardo a quel taccuino che conteneva ormai parole scomode per un uomo tutto d’un pezzo qual era lui. Nel suo studio di Sherlock aveva notato come tutto ciò che il detective vedeva o sentiva veniva solamente catalogato come nozione, per poi essere inserita tra le cose di reale importanza o nella sua spazzatura mentale. A John un po’ dispiaceva che non riuscisse a godersi pienamente il mondo che lo circondava, che non riuscisse a vedere la bellezza di un paesaggio senza pensare a un possibile omicidio nascosto tra gli alberi. Solo una cosa aveva attraversato la traiettoria di Sherlock e quella cosa era il cielo.

Quando, nel caso del dipinto falso, John aveva scoperto la reale genuinità dell’anima di Sherlock, nascosta sotto strati e strati di cinismo, era rimasto senza fiato. Era vero che teoricamente parlando l’aveva reputato come un’inutile ingombro di spazio nel suo hard drive, ma fatto rimaneva che catturava la sua attenzione e tanto bastava a far capire a John quanto il suo compagno potesse ritenere meravigliosa una cosa così quotidiana come delle stelle in un cielo scuro. Aveva sentito il cuore di Sherlock così vicino da credere di poter allungare le dita per poterlo toccare. Un cuore di vetro, probabilmente.

Fatto sta che il cuore di John, quella notte era caduto insieme a una stella cadente.

C’erano state altre volte, invece, in cui John aveva osservato Sherlock immerso nel suo Mind Palace, sdraiato sul divano ad occhi chiusi. Quando, un brutto giorno piovoso di dicembre, aveva notato un lampo di tristezza passare per le iridi chiare, aveva sentito una morsa all’altezza del cuore che gli aveva fatto desiderare di toccarlo e promettergli che non lo avrebbe mai più lasciato solo, anche se tutti lasciavano tutti, prima o poi.  

John aveva scritto anche dei rari momenti in cui Sherlock aveva aperto il suo guscio fatto di aculei e aveva fatto vedere la parte assolutamente splendida che c’era dentro di lui. Quelle volte in cui coccolava superficialmente la signora Hudson –a John appariva sempre un sorriso quando era spettatore di quelle scene– o quando era proprio lui il centro delle sue attenzioni.

Sapeva che Sherlock non era affatto solo cervello e razionalità, aveva sentito del buono in lui dal primo giorno in cui avevano condiviso l’appartamento e quella certezza si era rafforzata di volta in volta, prendendo una consistenza materiale; c’era molto più bontà in lui di quanto egli stesso credeva.

John aveva pensato che Sherlock si potesse sentire solo, ogni tanto, sempre chiuso tra le mura della sua intelligenza elevata da trovare noioso e ridicolo tutto il resto. Tutto il resto tranne John, sperava, ma non avevano mai toccato l’argomento, vuoi per imbarazzo da parte di John, vuoi per la brava tradizione inglese di mantenere ognuno i propri spazi. Tranne il piccolissimo particolare che John non aveva più uno spazio personale da quando il suo coinquilino glielo aveva confiscato senza chiedere –aveva fatto così con tutto di lui, pezzo per pezzo. John si sentiva come un prescelto per aver visto almeno una piccolissima parte della specialità di Sherlock e probabilmente lo era davvero, vista la sua rubrica telefonica.

John aveva semplicemente scritto di Sherlock, per giorni. Pagine piene, alcune annotazioni a bordo pagina, delle cancellature scure che contrastavano con il colore bianco del foglio. Si era chiesto, nascosto tra quelle pagine che gli suonavano come fidate confidenti, se Sherlock non volesse che uscisse con nessun altro che non fosse lui perché voleva averlo tutto per sé o semplicemente volesse tenerlo sotto chiave per non aver paura che trovasse qualcun altro con cui passare il tempo. Si era chiesto se quella pseudo relazione in cui vivevano lo soddisfacesse in tutti i modi in cui soddisfava John o se lui lo facesse solo perché era l’unica persona che gli era sempre stato accanto, come un fratello. Aveva scritto anche della sua famiglia, per quel poco che aveva sentito dire, o delle sue relazioni con Lestrade, Molly, Donovan e Anderson –decisamente pagine non positive per ovvi motivi. Gli piaceva studiare Sherlock e quando chiudeva quel quaderno sentiva una strana sensazione diffondersi per tutto il corpo, come se avesse adempiuto al suo dovere, come se comportandosi così stesse effettivamente più vicino a Sherlock proprio come quando lo stringeva nel buio della sua camera da letto.

Forse era il sintomo dell’innamoramento, una nuvola di leggerezza dentro di sé e al suo fianco.

O forse era semplicemente Sherlock Holmes, un bellissimo enigma che rimaneva irrisolto nonostante tutti i buoni propositi.

 

 

“John!” Tuonò in modo petulante la voce di Sherlock dal salotto. “John Watson!” Ripetè, scandendo bene ogni sillaba. Dio, era snervante quando cominciava così. Tre giorni senza un caso da risolvere e ritornava allo stato di asilo nido nel giro di un nanosecondo. “Sto cucinando, Sherlock, non posso stare ai tuoi ordini.” “Ma non mi sento bene!” John si fermò davanti ai fornelli, sbuffando nervosamente. Sapeva per certo che quello che stava dicendo il suo coinquilino era tutto uno stupido piano per avere la sua attenzione, ma ciò non faceva calmare il suo stupido animo da dottore altruista. ”Che sintomi avresti?” Borbottò dalla cucina, tenendo le orecchie in allerta e sentendo un lieve tossire dall’altra stanza. “Penso di avere la febbre, John.” Strascicò. Sospetto, decisamente sospetto. L’ultima volta che Sherlock si era ammalato l’aveva scoperto con difficoltà –probabilmente se non fosse stato un medico non ce l’avrebbe fatta vista la sua cocciutaggine– e aveva dovuto usare la forza per trattenerlo a letto per almeno un giorno.  “Sherlock, se mi fai venire di là per niente è la volta buona che…” lasciò sfumare la frase, sapendo benissimo che ogni minaccia sarebbe stata del tutto ignorata o derisa. In fondo, che cosa voleva fare contro Sherlock Holmes? Era già tanto se riusciva a tenergli il muso per un giorno intero senza capitolargli davanti come un adolescente con gli ormoni impazziti. “John, potrei morire da un momento all’altro!” Quante diavolo di volte doveva ripetere il suo nome? Il melodramma era di casa dagli Holmes, questo era certo. Lasciò perdere il sacchetto di pasta mezzo aperto e si fiondò in salotto, con un cipiglio irritato sul viso.

Sherlock era ovviamente sdraiato sul divano, la vestaglia che strabordava fino a finire sul pavimento e la camicia tutta stropicciata. Si avvicinò al sofà mentre gli occhi di Sherlock lo seguivano insistentemente. Appoggiò la mano sulla sua fronte –lascia perdere i brividi, lascia perdere i brividi– avvalorando così la sua tesi iniziale.

“Sei freschissimo, Sherlock.” Un sorriso furbetto nacque sul viso del consulente investigativo. “Che bravo dottore.” Sussurrò, passandosi la lingua tra le labbra. “Ora potresti passarmi il telefonino?” “Avrei voglia di tirarti un pugno in questo momento.” Disse fra i denti John, prendendo dal tavolino –ci voleva così tanto ad allungare un braccio?– il cellulare in questione.

“Oh, sono sicuro che tu voglia mettermi le mani addosso, John. Non sono sicuro in quale situazione vorresti farlo.” Il medico sbarrò gli occhi, rimanendo immobile per una manciata di secondi. Dove era finito il ragazzo che si allarmava alla parola sesso? John si chiese se non fosse stato lui a cambiare le valvole di quella macchina tutto cervello.

Si schiarì la voce, appena la presa di Sherlock si chiuse sul telefono nella sua mano. “E’ tutto?” Dio, suonava tanto come amabile cameriere. “In realtà no…” John rimase ad ascoltare la fine di quella frase che non arrivò. Lo stava prendendo in giro? “Non vuoi scrivere anche questo sul tuo caro taccuino?”

Ah, ecco qual era il problema. John già stava pregustando l’aria di quieto isterismo che sarebbe derivata da quella conversazione. Ritornò in cucina non concedendogli nessuna risposta, con un indelebile sorriso stampato in faccia. “John! John odio essere ignorato!” “Anche io odio un sacco di cose, Sherlock, ma bisogna imparare a conviverci.”

Lo vide comparire nel vano della cucina con le braccia incrociate. “E’ per caso un sottile insulto nei confronti del mio carattere?” “Hai per caso la coda di paglia?” “Cos’è tutto questo sarcasmo?” “Perché continui a fare domande?”  “Perché ti ostini a nascondermi cosa scrivi su quel dannatissimo aggeggio?” John stava rischiando l’esaurimento nervoso con tutte quegli interrogativi senza risposta. “Sono affari…privati.” Sherlock sembrò profondamente oltraggiato dalla frase appena sentita. “Affari privati? Sei tu il ragazzo onesto e comprensivo nella coppia!”

Bum. John sentì distintamente i polmoni smettere di fare il proprio lavoro, insieme al cuore. Se la sessione di coccole era più che rara con Sherlock Holmes, le dichiarazioni verbali erano decisamente un sogno irrealizzabile. “Oh…” Fu tutto quello che gli uscì di bocca, prima che il cervello si ricollegasse con i neuroni.

Perché conosceva bene il suo compagno e conosceva ancora meglio quello sguardo. C’erano due sguardi che non potevano essere fraintesi: lo sguardo da sappiamo-entrambi-cosa-sta-succedendo –quello che non sopportava affatto– e un altro, quello più raro ma evidente da ho-intenzione-a-tutti-i-costi-di-prendermi-ciò-che-voglio, lo sguardo di richiesta –ovvero estorsione– per scoprire dove fosse nascosta la scorta segreta di sigarette, per capirci.

“Una persona non può essere buona per sempre, ragazzo calcolatore e arrivista della coppia.” Sherlock sbuffò, roteando gli occhi verso il cielo. “Dovevo provarci.” “Hai veramente la maturità emotiva di una focaccina di mirtilli, Sherlock, davvero complimenti.” John ritornò a prestare attenzione a pentole e fornelli, cercando di far finta che non esistesse. Non andavano d’accordo su molto, loro due. In realtà non andavano d’accordo quasi su niente. Battibeccavano quasi tutto il tempo e si sfidavano ogni giorno.  Nonostante tutte le loro differenze, però, John si era preso una cotta –ovvero innamorato perso– proprio di uno come Sherlock. Aveva annotato anche quello, nel suo studio di Sherlock, come fossero irrimediabilmente due persone inconciliabili che erano attratte come calamite.

Preso com’era dai suoi pensieri non si accorse nemmeno della vicinanza improvvisa dell’altro. “Ti ho… – si schiarì la voce – offeso in qualche modo?” John, non rispose, trovando estremamente interessanti le penne di pasta che cadevano nella pentola. La mano incerta di Sherlock si soffermò a mezz’aria prima di buttarsi in una corsa a perdifiato con quella di John, che continuava a spostarsi dalla presa dell’altro non appena le dita affusolate gli sfioravano il dorso. “Non mettere a dura prova la mia pazienza, John.” Lo redarguì Sherlock, dopo numerosi tentativi di contatto falliti.

John, a quel punto, si lasciò far rinchiudere la mano nella prigione bianca di Sherlock, senza una parola. Avere un contatto con il corpo di Sherlock era un continuo di emozioni diverse. La presa stretta, ma mai invasiva, come di qualcuno che sa perfettamente cosa vuole –e molto probabilmente Sherlock sapeva bene chi fosse e cosa volesse dalla vita. John sospirò mentre la flebile intenzione di aprire il suo quadernino e di scriverci tutto quello che stava provando si affievoliva sempre più. Si girò nel poco spazio che gli era rimasto, tra il corpo di Sherlock e il piano della cucina, ritrovandosi faccia a faccia con uno dei migliori capolavori che madre natura avesse avuto il piacere di creare.

A pagina dodici del suo taccuino, John aveva descritto Sherlock fisicamente. Aveva parlato dei suoi occhi, la prima cosa che lo aveva attratto come una falena alla luce, con un colore così particolare da essere indescrivibile e una profondità così dilatata da poterci cercare il mondo per ore. John adorava letteralmente spendere le notti a guardarli, quando la situazione si faceva più calda del previsto. Gli piaceva la piccola macchia scura sopra la pupilla destra e le diramazioni di colore più scuro che prendevano quando Sherlock provava emozioni forti.

Era sceso sulla linea del naso e su quella degli zigomi –dove Sherlock puntava per fare il figo, riuscendoci oltretutto benissimo– descrivendo l’ombreggiatura che creavano le ossa pronunciate quando c’era la semioscurità nella stanza o il modo in cui assumevano tratti dolci, quando le guance si increspavano in un sorriso, creando rughe d’espressione tutt’intorno alla bocca. E poi c’era la riga spessa delle sopracciglia, la fronte alta, le labbra a cuore –che lo facevano morire ogni volta– i riccioli scuri soffici al tatto, il collo sensuale, le dita impertinenti, il fisico asciutto e le gambe lunghe che completavano la sua bellezza esteriore. Si era chiesto, mentre si perdeva tra le righe del suo taccuino, come le ragazze fossero riuscite a stare lontane da lui per tutta la sua vita, a eccezione di Molly Hooper. Se non si contavano il brutto carattere –che si poteva gestire con una gran bella dose di pazienza– e la sua stupida convinzione di essere impermeabile ai sentimenti, era chiaro. “Perché non mi vuoi dire cosa scrivi su quel libretto?” John abbassò lo sguardo sul bottone della camicia di Sherlock –pessima idea– prima di ritornare a guardarlo negli occhi. “So che parla di me.” Cercò di trattenere un’espressione tranquilla per non farsi scoprire subito. “Beh, ti posso garantire il contrario.” Sherlock si spostò pochi passi indietro, muovendo le braccia in aria in un atteggiamento stizzito. “Oh, andiamo, non cercare di dirmi bugie, John. So per certo che scrivi su di me.” John per risposta alzò le sopracciglia, rimanendo in silenzio a guardarlo. “Non capisco tutto questo bisogno di segretezza. E’ per caso uno di quei diari che tengono le ragazzine, John?” Lo punzecchiò Sherlock, ritornando più vicino. “Certo che no!” Beh, in realtà gli sembrava davvero così, negli ultimi tempi. Ci aveva nascosto anche una foto di Sherlock da piccolo, confiscata a Mycroft con un glorioso ricatto, tempo prima. Un piccolo Holmes riccioluto con le mani nel fango: a John veniva sempre da sorridere quando la vedeva. “Dai, John, perché non vuoi dirmelo?” Ah, ah, ah, davvero non un bel segno. Aveva sentito il suo cervello gridare pericolo non appena quelle parole erano uscite dalle labbra dell’altro, con quel tono che usava sempre per arruffianarselo dopo un fatto particolarmente spiacevole –quasi sempre ai danni di John. Lo vide avvicinarsi pericolosamente al suo corpo e d’istinto andò indietro, sbattendo contro il ripiano della cucina. Dannazione, era caduto in trappola. “Qualunque cosa tu stia pensando, Sherlock, scordatelo. Quel taccuino è…” Le parole gli morirono in gola quando il suo Sherlock gli chiuse la bocca con la propria. Un bacio impacciato, a labbra chiuse e occhi aperti. Sapeva che il consulente investigativo non era propriamente un genio in quelle situazioni, quindi apprezzò comunque il gesto. Apprezzò davvero tanto, visto che le mani si mossero da sole, andando a infilarsi tra i capelli –Dio, sì– e poi giù, in una lenta carezza fino alle spalle. Stava già cedendo come una squallida marionetta di quarta categoria. “Sh…erl…” John pensò fosse meglio lasciar perdere, visto che il suo cervello aveva levato le tende per mollarlo lì da solo, in balia di cuore e ormoni. Lo avrebbe sgridato, dopo.

 

Fase uno: stravolgerlo. Perfettamente riuscita. Sherlock sapeva che John non sarebbe durato due secondi se l’avesse baciato e, beh, non che la cosa lo avesse ripugnato più di tanto, alla fin fine. Ora sarebbe bastata completare la fase due, ovvero dirgli qualche frase assolutamente banale e sdolcinata, e poi avrebbe potuto tranquillamente prendere quel taccuino e leggerlo una volta per tutte. “Quattro ore e qualche minuto.” Sussurrò sulle labbra di John, in modo da accarezzarle a ogni lettera. “…cosa?” Lo vide riaprire gli occhi socchiusi come un gatto dopo la dose extra di coccole e Sherlock si chiese come diavolo riuscisse ancora a seguire il piano mentre c’era quello sguardo che lo stava divorando da cima a fondo. “Il tempo per cui non mi hai baciato, quattro ore e qualche minuto.” Borbottò, cercando di pronunciare quelle parole con il tono più superficiale possibile. Era un innocuo passatempo, quello di contare le ore che passavano tra un bacio e l’altro, un modo come un altro per scacciare la noia che ottenebrava quei giorni senza senso. Osservò gli occhi di John luccicare appena e le mani, ancora ancorate alle sue spalle, strinsero di più la presa mentre le pupille si dilatavano del 45%  –aveva davvero visto qualcosa che gli piaceva tanto?.  “E’ una delle cose più belle che tu mi abbia mai detto, Sherlock.” Sussurrò John, prima di rituffarsi sulle sue labbra.

Sherlock era sempre stato convinto –e lo era tutt’ora– che la gamma delle emozioni umane non esistesse. Era tutta questione di chimica, l’amore questione di endorfine. Con una siringa di Pentothal si poteva togliere ogni esigenza affettiva –solo macchine di carne e niente più. Ma poi nell’universo di Sherlock era entrato John e le cose si erano assurdamente complicate. Dentro di lui era nato qualcosa di indesiderato –affetto?– che aveva messo radici e aveva invaso tutto il peggio della gramigna. Poi era stato troppo tardi: non aveva più potuto fare nulla per sradicare quel senso di protezione che sentiva nei suoi confronti e John non aveva fatto niente a sua volta. Un limbo da cui non c’era via d’uscita e la cosa metteva in soggezione Sherlock più di quanto volesse ammettere.

Gli infilò una mano tra i capelli, apprezzando il mugolio di piacere che provenne dalla bocca di John, mentre con l’altra incominciò a tastargli le tasche superiori della camicia, trovandole miseramente vuote, per poi passare a quelle dei pantaloni. ”Sherlock…”  

 

Dio, sentiva le mani di Sherlock ovunque e quelle labbra lo stavano confondendo come la peggiore droga in circolazione.

Gli morse il labbro inferiore, facendo pressione sulle sue spalle affinché indietreggiasse, fino al salotto. Fece beccare a Sherlock una gomitata contro il vetro della porta e quasi non inciamparono per una pila di libri messi sul pavimento del soggiorno. “Mi vuoi uccidere, per caso?” Mormorò Sherlock contro la bocca di John che sorrise divertito. “Mi hai scoperto!”

Aprì un momento gli occhi per individuare il divano nella traiettoria disordinata che stavano seguendo e ci arrivò mentre Sherlock lo seguiva docilmente con gli occhi chiusi e le labbra ancora premute contro le sue. Lo fece sdraiare sul sofà e lo raggiunse, stendendoglisi addosso.

Sentiva la pelle andare completamente a fuoco e i pantaloni avevano incominciato a essere stretti da un bel po’ di tempo, ormai. “Aspetta…aspetta un momento.” John aprì gli occhi per quell’improvviso e spiacevole ritorno alla realtà. “Che cosa c’è?” Domandò John, già pronto a uno dei soliti sproloqui senza senso che Sherlock gli propinava ogni volta che dovevano fare attività fisica. “C’è qualcosa sotto la mia schiena.” John si fece forza sulle braccia per far inarcare la schiena a Sherlock e far tirare fuori quello che sembrava essere un libro, ma alla quale John non prestò molta importanza, perso com’era a contemplare il viso di Sherlock, così vicino al suo da poter sentire il suo respiro sulla pelle.

Lo studio di Sherlock Holmes avrebbe riempito milioni di taccuini e ancora non sarebbe stato abbastanza perché nessuna parola poteva davvero descrivere tutto ciò che era, nel bene e nel male –decisamente nel bene in quel momento.

Il braccio di Sherlock scomparì per un momento dall’altra parte del divano dove il tonfo sordo del libro segnò la fine della pausa. John si riappropriò di quelle labbra che ormai gli spettavano di diritto e aspettò che l’altro le socchiudesse per introdurre la lingua nella sua bocca e approfondire il bacio.

Gli accarezzò il palato e poi l’arcata dei denti mentre la mani risalivano il suo petto per appostarsi sulle guance, in un contatto intimo e piacevole che fece percorrere a John un altro brivido lungo la colonna vertebrale.

Quando sentì la testa di Sherlock scivolare sempre più indietro fino a staccarsi dal bacio, John riaprì gli occhi accigliato, seguendo d’istinto le labbra dell’altro. “Credo davvero che dovremmo staccarci.” Proruppe il consulente investigativo. John continuò a guardarlo stralunato, cercando la spina per riconnettere il cervello. “Come scusa?” Chiese con voce roca John, non smuovendosi di un millimetro dalla sua posizione. “Non possiamo farlo ora, John! A metà pomeriggio, oltretutto. Il mio cervello ha bisogno di lavorare oggi.” Ma di cosa diavolo stava blaterando? Chi cavolo aveva detto che quello era l’uomo più intelligente dell’intera Inghilterra? “Fammi capire bene, tu non vuoi fare sesso perché vuoi lavorare?” “Sì, a un esperimento, c’è un importantissimo passo che…” Fu il turno di John di chiudergli la bocca, lasciando perdere i continui mugolii contrari dell’altro. Perché non si era potuto trovare un fidanzato con un metabolismo normale? Quando sembrò essersi acquietato un poco, John lasciò scendere la mano sinistra, prima ancorata alla sua guancia, giù fino al collo, per arrivare al primo bottone della camicia viola che era solito indossare –era una maledetta punizione, quell’indumento. La slacciò in fretta, lasciando la sua bocca solo per depositargli una serie di piccoli baci sul collo per poi morderlo. Sherlock gemette sotto quel gesto, dando a John una scarica di adrenalina direttamente nelle vene. Si staccò un momento da lui, dandosi un minuto per osservarlo semplicemente. La camicia slacciata lasciava trasparire il petto tonico e la pancia magra costellata da nei –uno, due, tre, quattro, sui quali posò, uno per volta, i polpastrelli, tracciando un firmamento soltanto sul suo corpo.

Nella penombra che derivava dalla persiana abbassata, John sentì il groppo in gola dall’emozione di aver finalmente trovato una persona così, soltanto per lui. L’altra faccia della medaglia, la metà mancante per completare la mela. Avrebbe voluto saper disegnare e tracciargli un ritratto da inserire nel suo taccuino e custodire gelosamente per sé, ma visto che ciò era impossibile cercò di imprimersi quell’immagine nella retina e nella memoria. I capelli scompigliati che nell’oscurità parevano china, gli occhi acquosi che lo scrutavano in cerca di chissà cosa e le labbra più rosse del solito dischiuse in cerca d’aria. “Mi stai guardando in modo inquietante, John.” Il medico si lasciò andare in una risata, affondando il viso nell’incavo naturale tra la spalla e il collo. “Non ti piace farti guardare dal tuo ragazzo onesto e comprensivo?”

Mormorò, ritornando a posare baci su tutta la pelle libera che aveva a disposizione e facendo scivolare la camicia, ormai inutile, fino a gettarla malamente sul basso tavolino. Si era quasi pentito di usare quel pronome possessivo, ma ormai il danno era fatto e tanto valeva far finta di non averci fatto caso. “Mi piace sempre il modo in cui mi guardi.” Era stato appena più di un sussurro, ma a John arrivò come un urlo nei timpani. Lo baciò ancora, stavolta teneramente, tenendo a freno la passione che sembrava voler esplodere in tutto il suo corpo. Quel giorno era in vena di comportarsi da bravo fidanzato, evidentemente.

Quando percepì le mani di Sherlock all’estremità del suo maglione tirò su le braccia per facilitargli il compito e si chinò nuovamente su di lui, stavolta più sicuro dei propri gesti. Inventò un percorso sul corpo di Sherlock con le labbra e le mani che lasciavano carezze ovunque, facendo lasciare al diretto interessato sospiri concitati, per la soddisfazione di John. Che avesse ancora il coraggio di dirgli che era meglio il suo esperimento a quello che stavano vivendo in quel momento! Sherlock sembrava un gatto quieto tra le sue braccia, lasciandosi toccare e baciare ma rimanendo stabile nella sua posizione, le dita ferme sul suo petto e gli occhi socchiusi –sempre ad osservare, sempre a dedurre. I capelli di Sherlock lo avevano legato a lui, il suo sguardo lo aveva trafitto, l’arco dei suoi arti superiori erano una dolce prigione. Ci avrebbe fatto l’amore sempre, solo per il modo che aveva di guardargli le labbra mentre si fermava a riprendere fiato di quell’aria calda e satura di sentimenti contrastanti, per il modo in cui gli lasciava prendere il comando –per una volta– senza fare nulla per fermarlo. Tutto quell’attesa stava diventando decisamente troppo. Si rituffò sulle sue labbra, mordendo e muovendole voracemente sulle sue, mentre le mani prendevano, toccavano e accarezzavano fino a raggiungere la meta desiderata. Sbottonò abilmente i pantaloni eleganti, strattonandoli verso il basso con un riguardo minimo. “Ehi, stai attento questi pantaloni costano!” “Sherlock, fammi un favore…” Gli mormorò sulle labbra, riprendendo a toccarlo con più insistenza, ora che poteva sentire distintamente l’eccitazione che provocava in lui. “…’sta zitto.” Andò a liberarsi anche dei suoi pantaloni, per darsi quel minimo sollievo che gli serviva per non impazzire del tutto, scalciandoli via con l’aiuto delle gambe. Prendendo totalmente alla sprovvista John, Sherlock si mosse, facendo una strana contorsione per spostarsi e arrivare sopra di lui. “Sherlock, cosa diavolo…” Lo sguardo che il detective gli riservò –da dove proveniva tutta quella malizia?– lo fece rimanere immobilizzato per un paio di secondi. “Ora tocca a me.” Un gemito strozzato si formò nella gola di John, che si dimenticò l’apparato respiratorio e tutte quelle cose inutili che non fossero Sherlock, il suo Sherlock, il suo Sherlock che stava…”Sher…lock!”

 

‘Nonostante sia restio ad ammetterlo a me stesso o ad altre persone, Sherlock è il miglior uomo e la persona più umanamente umana che possa esistere. E’ vita, adrenalina e se questo studio in Sherlock non sia riuscito a farmi capire più di tanto tutto ciò che di misterioso c’è in quell’uomo, sicuramente mi ha fatto capire cosa sia quell’uomo per me.’ Sherlock era rimasto paralizzato al centro della cucina mentre leggeva quelle ultime righe del prezioso taccuino di John Watson. Sentiva una cosa strana al centro del petto e in mezzo alla gola, qualcosa che gli faceva mancare il respiro e bruciare gli occhi. Pensava davvero quelle cose di lui? Lanciò l’ennesima occhiata nel salotto, dove John dormiva beatamente stringendo il cuscino con la bandiera dell’Inghilterra. Tirò su con il naso, dando un’occhiata superficiale a tutta la stanza e alla pentola che era rimasta abbandonata sul fornello. Sentiva di aver perso il suo controllo e si sentiva nudo senza, troppo esposto e troppo vulnerabile. “Sherlock?” Mormorò una voce assonnata. Sherlock prese svelto una decisione, ritornando nella stanza e rimettendo a posto il quadernino nella tasca posteriore dei pantaloni di John, per terra. “Sono qui.” Rispose, riprendendo il suo posto tra le braccia di John. “Dov’eri andato?” Gli chiese John, strofinando il viso sulla spalla nuda di Sherlock. “Nulla di importante.” Soffiò, lasciandosi coccolare in silenzio, socchiudendo gli occhi e rilassandosi. Per una volta poteva concederglielo, dopotutto.

 

 

 

 

Note:

Devo ringraziare Jessie che mi ha fatto conoscere la bellissima citazione di Carrisi, ovvero: “Il dolore non esiste. Come tutta la gamma delle emozioni umane d’altronde. E’ solo questione di chimica. L’amore è questione solo di endorfine. Con una siringa di Pentothal posso toglierti ogni esigenza affettiva. Siamo solo macchine di carne.”

Ringrazio Nerween che è sempre il massimo, che mi dà il massimo e che mi fa sentire la persona migliore del mondo.

   
 
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