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Autore: U N Owen    27/07/2012    1 recensioni
Dieci ragazzi si riuniscono a Dreadpeak Lodge, una lussuosa baita di montagna, ma non tutto andrà come previsto.
A cena, una voce rievocherà l'oscuro passato che li accomuna, per poi recitare un'inquietante filastrocca:
"Dieci piccoli indiani andarono a mangiar,
uno fece indigestione, solo nove ne restar
[...]
Solo, il povero indiano, in un bosco se ne andò,
ad un pino s’ impiccò e nessuno ne restò"

Ispirata a "Dieci Piccoli Indiani" di Agatha Christie, questa storia è scritta a quattro mani da U N Owen e Belfagor, il cui profilo è qui consultabile: http://www.efpfanfic.net/viewuser.php?uid=51754
Genere: Mistero, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Il caso Dreadpeak Lodge



I viaggi in seggiovia avevano sempre innervosito Desmond Ryan Flake, che si teneva saldamente alla sbarra di protezione posta davanti a lui, mentre un sottile velo di neve gli ricopriva i soffici guanti. Ma in quel momento era troppo stanco per preoccuparsi del fatto che quel dannato affare si potesse staccare o chissà quale altra disgrazia, dopo il lungo viaggio che aveva dovuto affrontare era semplicemente distrutto.
«Teso, Flake?» chiese con fare beffardo il ragazzo seduto accanto a lui.
«Taci, Scrapers»
Robert Scrapers era più o meno l’opposto di Flake. Magro e occhialuto, era senza dubbio una mente affilata quanto un rasoio, a differenza dell’altro, alto, prestante, di certo scaltro, ma che puntava molto di più sulla notevole avvenenza. Nella loro diversità battibeccavano spesso, si punzecchiavano, non potevano fare a meno di stuzzicarsi a vicenda, ma al contempo, seppur non volessero ammetterlo, erano diventati stranamente amici. Si erano incontrati nei pressi della seggiovia che dovevano prendere per giungere a Baita Dreadpeak, l’imponente e lussuosa villa di montagna di famiglia Conquest. Erano dunque saliti assieme, e di certo Scrapers non aveva aiutato il compagno di viaggio a rilassarsi, cosa di cui Flake si sarebbe di certo ricordato con gratitudine.
Quegli incontri erano un’incombenza periodica, ma, a detta di James Conquest, il “padrone di casa”, erano strettamente necessari affinché “non dimenticassero”. Sapeva essere davvero ossessivo, se si metteva d’impegno, ma dopotutto era anche grazie a lui se erano ancora tutti lì, di conseguenza avevano sempre evitato di controbattere, anche se non sempre era facile trattenersi, soprattutto per certe sue manie, come il fatto di voler a tutti i costi che il ritrovo cominciasse di lunedì, giorno di chiusura degli impianti, “in questo modo gli sciatori non vengono a romperci”.
Quando furono arrivati alla meta trovarono alcune persone ad attenderli, tra cui, ovviamente, James stesso, serissimo e tutto preso da una fitta discussione.
«La Mantide è già arrivata? Quella diva si fa sempre aspettare.»
«Robert, caro! Cosa ti ho detto riguardo a quel nomignolo? E poi, io posso permettermelo, di fare la diva, a differenza di te.» La voce acida, arrivata da dietro, li fece voltare, e si trovarono davanti colei che era stata chiamata “Mantide”, Eveline de Dispaire, tutta impellicciata e con il suo portamento da gran signora, proprio non poteva passare inosservata, splendida ed elegante com’era sempre, e di certo faceva voltare la testa a tutti i ragazzi. A qualcuno l’aveva pure staccata, o almeno, così sussurravano le malelingue. Di certo la sua stupefacente bellezza le era valsa la fama di cui godeva, fama che lei contribuiva generosamente ad alimentare, senza lesinare aneddoti riguardanti la sua presunta discendenza nobiliare.
L’altra ragazza appena giunta in sua compagnia era Erin van de Logt, che si limitò ad ammiccare maliziosamente in direzione di Desmond, prima di salutare. Ragazza decisamente più semplice nei modi, era certamente altrettanto maliziosa. Snella e attraente, Erin sapeva di certo usare le proprie armi femminili, anche se preferiva tenere un profilo basso, quello della brava ragazza, per poter “cacciare” silenziosamente. C’erano poi aspetti molto più oscuri della sua personalità, che lei occultava con particolare perizia, e di certo non voleva che venissero allo scoperto.
«Chi stiamo ancora aspettando?» chiese Erin, e la risposta non tardò ad arrivare; Alexis Griffin, la biondissima ragazza super organizzata, il capo assoluto, doveva dimostrare di avere tutto sotto controllo.
«Mancano solamente Carl e Isabel, poi possiamo avviarci» e proprio mentre pronunciava queste parole, Isabel Rodriguez arrivò, scese dalla seggiovia, rischiò di cadere a terra e contemporaneamente cominciò a parlare a raffica. Il solito insomma. E, come al solito, tutti persero il filo dopo appena cinque parole. Isabel amava vestirsi con colori sgargianti, che spesso dimostravano poco gusto per l’estetica, sebbene a sua detta risaltassero il bronzeo colore della sua pelle, tipica dei paesi latini, e di certo l’inverno non la tratteneva. Poco dopo arrivò Carl, che pochi degnarono anche solo di un semplice sguardo. La sua figura imponente, che strideva quasi con la sua personalità, semplice fino a sfiorare l’idiozia, si limitò ad accodarsi al gruppo diretto a Baita Dreadpeak.
Dover O’Scolaidhe fino a quel momento rimasto in silenzio, si avvicinò a Kurt Aldrich, un ragazzo minuto, dall’aria cupa e malinconica, per chiedergli se andasse tutto bene; infatti se Kurt già di norma non sprizzava allegria, quel giorno sembrava avvolto da un’aura ancora più negativa.
L’unica risposta che Dover ricevette fu un cenno della testa. Il tragitto fino a Dreadpeak fu piuttosto breve, ma comunque movimentato, grazie alla voce squillante di Isabel che, come suo solito, si sentì in dovere di raccontare tutto ciò che le era capitato da quando si erano visti l’ultima volta, e del fatto che, finite come gli altri le scuole superiori, avesse iniziato il college alla facoltà di infermieristica. Tutti fatti che molti si dimenticarono nel momento stesso in cui vennero pronunciati. Tutto filò dunque liscio come olio fino all’arrivo alla splendida baita, un imponente edificio dalle forme squadrate, in stile neoclassico, il cui tetto era adorno di gargoyle splendidi quanto inquietanti. Oltre un breve colonnato si poteva accedere all’ingresso che dava sul vasto salone centrale; da qui si collegava la maggior parte delle sale dell’edificio principale. L’interno era dominato dal lusso, lampadari di cristallo rischiaravano le ampie stanze e le pareti erano adorne di quadri intervallati da teste di animali impagliate. Erano presenti comfort di tutti i tipi, tra cui un biliardo ed una sala cinematografica privata. Il luogo di cui il padre di James andava più fiero, però, era la “Stanza della Caccia”. Lì si trovavano diversi dei suoi trofei, armi di vario tipo, ed i suoi due amati gioielli, un magnifico lupo ed un gigantesco orso, entrambi impagliati, uccisi da lui stesso. Arrivati qui, dunque, James si affrettò ad aprire il portone per fare strada agli ospiti. Tuttavia, appena entrato, si bloccò guardando a terra.
«Che succede?» chiese Dover «c’è qualche problema?»
«No, nulla. Solo delle … lettere. Ma nessuno manda mai lettere a questo indirizzo. Che strano. Comunque entrate, forza.» Il ragazzo era di certo molto sorpreso. Ci teneva, infatti, che nessuno, a parte loro dieci, sapesse di quegli incontri.
Poggiato per terra, all’ingresso, c’era un corposo plico di lettere, tutte all’apparenza uguali. Sopra ognuna di esse, un nome. Erin van de Logt, Kurt Aldrich, Alexis Griffin, e via dicendo.
«Ce n’è una per ognuno di noi» osservò Carl, al che Scrapers rispose: «Quale sagace intuito! Cosa te l’ha fatto pensare, Kundren?»
«Beh, a questo punto apriamole, no?» Propose Isabel, cominciando a distribuire le dieci buste ai legittimi destinatari.
«Tu dovresti aprire anche qualcos’altro, ogni tanto, mia cara.»
«Cos’è, Eveline, una proposta? Non conoscevo questo tuo lato nascosto.» Flake non ricevette risposta, ma proprio non era riuscito a trattenersi dal lanciare la frecciatina alla reginetta dei doppi sensi. Intanto, spostandosi verso il salotto adiacente l’entrata, ognuno aveva cominciato a leggere la propria lettera, e ciò che si rivelò esserne il contenuto lasciò qualcuno contrariato, altri più interessati e coinvolti, tutti ugualmente stupiti.
Ogni lettera conteneva due fogli, il primo, uguale per tutti, recitava le seguenti parole:
 
 

Una riunione massacrante

Benvenuti, rappresentanti, a questo meeting di vitale importanza per gli affari della politica mondiale. E un benvenuto anche ai due mediatori neutrali che gestiranno il tutto.
La villa in cui vi trovate è completamente a vostra disposizione e qualunque vostra richiesta sarà esaudita. Tutto fila liscio e le intenzioni sembrano le migliori, finchè qualcosa di terribile comincia ad accadere. Infatti, in mezzo a voi, si nasconde uno spietato assassino, o chissà, anche più di uno. Intenzionato ad uccidere tutti, nessuno escluso. Compito degli altri invitati sarà dunque riuscire a sopravvivere e scoprire chi è il misterioso omicida, fermandolo. Chi vincerà, l’assassino, oppure le vittime? Buon divertimento!
 
Firmato:
Arthur Norman Onym
 
 
I personaggi sono i seguenti.
Mr. Whitman: Rappresentante degli Stati Uniti d’America
Miss. Baudelaire: Rappresentante della Francia
Mr. Wilde: Rappresentante dell’Inghilterra
Miss. De Cervantes: Rappresentante della Spagna
Mr. Pascoli: Rappresentante dell’Italia
Miss. Kafka: Rappresentante della Germania
Mr. Dostoevskij: Rappresentante della Russia
Mr. Tōkoku: Rappresentante del Giappone
Miss. Boulevard: Mediatrice
Mr. Ravens: Mediatore
 
 
Il secondo foglio conteneva invece le istruzioni dedicate alla singola persona, la descrizione del personaggio, la sua funzione, tutto il necessario.
«E’ solo una stupida presa in giro» sbottò Conquest, visibilmente irritato «e piuttosto che perdere tempo dietro a certe sciocchezze, dovremmo prepararci per la cena.»
Desmond, al contrario, era piuttosto intrigato da quella lettera. «Perché? Potrebbe essere un divertente passatempo, a me l’idea piace.»
«E’ una specie di gioco di ruolo. In effetti sembra interessante, perché non provarci?»
«Oh, Erin, chissà perché, sei d’accordo con Desmond. La cosa mi stupisce, davvero. Seriamente?» ribatté Eveline.
«Smettetela, sembrate dei bambini di cinque anni.» Alexis Griffin era preoccupata per ben altro, in quel momento; una preoccupazione, in realtà, più generale di quel che non sembrasse, e che trovò voce in Dover.
«Più che tutto, il punto è un altro. Chi è questo “Onym”? Qualcuno di noi lo conosce? Ma soprattutto, come fa a sapere che siamo venuti qui?» Gli sguardi dei ragazzi erano quanto mai eloquenti: nessuno aveva la più pallida idea di chi fosse il misterioso mittente, ne di come potesse sapere dei loro ritrovi.
«E’ inquietante, per favore, smettiamola e andiamo a mangiare, che sto morendo di fame.» esclamò a quel punto Kurt, prendendo per la prima volta la parola. Era quanto mai teso. Si sentì solo qualcuno borbottare «sì, andiamo a cena» e «ha ragione» ed in mezzo un «codardi, ricordatevi anche che è grazie a me se adesso siamo in montagna e non altrove» pronunciato a mezza voce da Flake, che però fece attenzione a non farsi udire, non voleva rovinare tutto per uno sciocco insulto, dopotutto.
«Prendete pure posto nelle vostre camere al piano di sopra, le chiavi sono nelle serrature. Ci vediamo in sala da pranzo tra venti minuti.» Alle parole di Conquest i ragazzi si diressero tutti insieme al primo piano, ancora pensierosi per quanto appena accaduto. Ognuno si preparò con il proprio ritmo, e a poco a poco la sala da pranzo cominciò a riempirsi. Mancavano solo poche persone, quando si sentì distintamente un tonfo proveniente dall’altra parte della casa. Allarmati, si lanciarono tutti, quasi immediatamente, per andare a controllare quanto fosse accaduto, e la scena che si parò loro dinnanzi lasciò tutti senza fiato nello sbigottimento generale. Desmond, riverso per terra ai piedi della scala, in una posa innaturale, con un rivolo di sangue che usciva dalla tempia, era completamente immobile.
«Desmond, stai bene? Ti prego, rispondi!»
«Non fare lo stupido, Flake. Flake?»
«E’ caduto dalla scala?»
«Non c’è battito.» Erin van de Logt, laureanda in Medicina, si era chinata a tastare il polso.
«E’ … è morto.»
  
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