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Autore: roxyed    28/07/2012    2 recensioni
Ho atteso giorni, settimane, mesi, un anno, un anno e mezzo...e attendo ancora, stringendo tra le dita una speranza illusoria, una piccola fiammella che va assottigliandosi giorno dopo giorno; una speranza vaga, opaca, onirica. Un bellissimo sogno.
Questa speranza è, dopotutto, tutto ciò che mi rimane.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: John Watson
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimers! John Watson e Sherlock Holmes non sono miei e non lo saranno mai. Perciò, se dovete incolpare qualcuno per questa one-shot insensata, prendetevela con Sir Arhur Conan Doyle e con Moffat e Gatiss. Thank you, ci ri-sentiamo nell'angolo dell'autore. =))





LONDON RISES

 

 

 

 

 

 

 

 

I shot for the sky
I’m stuck on the ground
So why do I try, I know I’m gonna fall down
I thought I could fly, so why did I drown?
Never know why it’s coming down, down, down.
[1]
 

Le spalle scosse dal pianto. Combaciano perfettamente con l'immagine più vera ed assoluta dell'uomo patetico. Non solo ai margini, ma nella loro interezza. 
Sì, l'uomo patetico, nella sua definizione pura. Sono un uomo patetico? Non lo so. Non ho una risposta a questa domanda, perché...
 
...perchè non ho mai pianto così. Non veramente
 
 
 
*
 
 
 
Non piangevo da un po'.
 
Stretto nel cappotto davanti alla tomba nero lucido, osservo il tuo nome scritto in rilievo e mi spezzo dentro, ancora una volta. Lentamente. Inesorabilmente. Londra, avvolta nella solita pioggerellina bastarda, ride di me. Ride di me a pieni polmoni, sghignazza, e nella mia mente la sua risata riecheggia ignobile come quella di Moriarty.
 
Perchè ridi, maledetta città? Hai perso un genio. Anzi, il genio. E ridi. Non c'è nulla da ridere. Eppure, ogni giorno, camminando per strade di cui ignoro il nome, non posso far altro che notare i sorrisi della gente che mi passa accanto. Li noto. Tutti. Sulle loro facce. Le loro sono solo facce, facce, facce......facce anonime nella folla, espressioni di fantocci senza burattinaio, frammenti di un secondo che si spezza e mai ritornerà.
 
Come una stella cadente. Una stella. Cadente.
 
Consapevolezza, di nuovo.
 
Sento i polmoni paralizzarsi, l'aria si rifiuta categoricamente di uscire. E di entrare. Smetto di respirare. Non so respirare. Non sono neppure sicuro di essere mai stato capace di farlo. Mi porto le mani alla gola, proprio mentre, pigramente, l'aria torna a gonfiare il mio petto, come per dovere. Un attacco di panico. Incredibile come un uomo sopravvissuto agli orrori della guerra non sia assolutamente in grado di sopportare il peso di una perdita. Di una singola perdita. Nulla per il mondo: un granello di sabbia nel Sahara, un sole nell'universo. Per me, il maledetto sole del maledetto sistema solare.
 
Porto la destra a celare un sorriso amaro. Come mi sono ridotto. Tu diresti che spreco il mio tempo (e il mio cervello) a rimuginare su cose inutili. Come ho fatto e faccio ancora, seduto nella tua poltrona, a Baker Street, immaginandomi il giorno in cui ci rivedremo. Sarà un ritrovarsi in grande stile, tipico di te. Ho atteso giorni, settimane, mesi, un anno, un anno e mezzo...e attendo ancora, stringendo tra le dita una speranza illusoria, una piccola fiammella che va assottigliandosi giorno dopo giorno; una speranza vaga, opaca, onirica. Un bellissimo sogno. 
 
Questa speranza è, dopotutto, tutto ciò che mi rimane.
 
-Ciao, Sherlock...- ti saluto, le mani strette a pugno, la mascella contratta....il corpo in tensione, nella sua interezza. Sto cercando di trattenere il pianto, ancora. Non posso piangere di nuovo, l'ho appena fatto. Non. Posso. Butto fuori l'aria con un rantolo, mando giù l'ennesimo groppo alla gola.
 
Oddio, odio  il tuo nome. Odio vederlo lì, scritto sulla lapide. Perchè è troppo vero, troppo concreto, come la lapide stessa. Granito nero. Solido granito nero.
 
Ho sempre odiato i cimiteri. Non ho mai creduto in loro. Li ho sempre trovati intollerabilmente inutili. Andare a pregare -chi o cosa, poi- davanti ad una lastra di pietra -fredda, immobile, materiale- che senso poteva avere? Che maledetto senso poteva avere, Sherlock? Ed ora eccomi qui. Davanti ad una lastra di pietra. Fredda. Immobile. Materiale. Ah, la coerenza vacillante del genere umano. Tu ne avresti riso con disprezzo, ponendoti al di sopra di noi esseri ordinari e meschini. 
 
Mi sfugge un altro sorriso, questa volta divertito; riesco a figurarmi perfettamente il tuo viso, costretto in un'espressione di elementare disapprovazione. Mi commisereresti sicuramente, se mi vedessi ora, qui, un povero diavolo segnato dalla guerra e dalla perdita dell'unica persona veramente importante per lui. Che schifo. Cristo.
 
Mi rifiuto di rimanere qui ad umiliarmi un secondo di più.
 
Allontanandomi dalla lapide, avverto i tuoi occhi su di me. Come sempre. Questa volta, però, non faccio neppure lo sforzo di guardarmi attorno. Perchè non c'è nessuno. Non c'è mai nessuno. Chi dovrebbe esserci? Anche se ci fosse qualcuno, quel qualcuno non saresti tu, e allora addio ad ogni sua qualsiasi importanza.
 
Mi riempio le orecchie dello scricchiolio della ghiaia sotto i piedi, del frusciare dell'erba. Quindi, della solidità dell'asfalto. Ha inizio un'altra giornata. Londra si sveglia, con i suoi dolori e quei sorrisi.
 
Il rombo dei motori, le voci e i passi delle persone. Come ogni giorno. Come ogni momento che trascorro qui, in questo posto. Perchè Londra eri tu. Sei tu. E Baker Street attende ancora il tuo ritorno, come se solo tu, tu soltanto, fossi degno di calpestarla, con quel tuo passo affrettato, il cappotto slacciato, l'aria solo apparentemente noncurante, e quegli occhi unici nel loro genere, capaci di riassumere perfettamente il tuo essere.
 
Ho un grande....vuoto, dentro, Sherlock. Un enorme buco nero che non riesco a colmare cibandomi semplicemente dei tuoi surrogati. 
 
Un'occhiata alla London Eye. A Buckingham Palace. Al double-decker. Ai taxi che gli sfrecciano accanto di tanto in tanto -non posso più prenderlo, il taxi...non più-. Ad una camicia viola in una vetrina anonima. Ad un uomo che indossa un cappotto simile al tuo. Ad una ragazza che -giurerei- possiede la tua stessa sciarpa. Al 221B Baker Street, affisso sulla porta. Al tuo letto ancora disfatto.  Al microscopio abbandonato sul tavolo della cucina. Agli alambicchi per i tuoi stupidi esperimenti. Al tuo violino dimenticato sul divano. Al teschio sul caminetto. Allo smile sulla parete devastata dai tuoi eccessi di noia. Alla tua poltrona.

La tua poltrona.
 
Ci sprofondo dentro con urgenza, quasi ne dipendessi per riuscire nel grande gioco della sopravvivenza. Il gioco che è diventata la mia vita. Sopravvivere, sì, semplicemente tirare avanti, giorno dopo giorno, giorno dopo giorno dopo giorno...esattamente com'era prima di incontrarti. Anche adesso, avverto quella sensazione. Non so neppure perchè io debba necessariamente tirare avanti. Un'ombra senza la luce non ha ragione di esistere.
 
Torno a guardarmi intorno, con la mente satura di questi pensieri.
 
Il nostro appartamento. E' tutto rimasto in sospeso, qui. Come se tu dovessi rientrare a casa da un momento all'altro, come se fossi semplicemente uscito per fare qualcosa. 
 
Come in un giorno qualunque di un anno e mezzo fa.
 
Soffoco l'ennesimo singhiozzo della giornata, deglutendo, mentre la luce del sole inonda la finestra, spargendosi sul tappeto.


 
 
Londra si sveglia.
 
Londra si scuote.
 
Londra torna alla vita.
 
....Io no.
 
-Mi manchi, stronzo....-










Angolo dell'Autore:
Allora, allora, allora....non so neppure come definire questa...questa cosa. Questo parto della mia mente. Boh, è semplicemente venuta fuori. Ho preso una pausa dalla long-fic che sto buttando giù e questo è il risultato. Nonostante io adori Sherlock con tutto il mio essere, non ho mai scritto nulla per questo fandom (e non solo, oserei dire!). 
Spero in qualche commento -positivo, negativo, neutrale-. Qualcosa. 
E, ovviamente, ringrazio chiunque sia riuscito a leggere questo total nonsense fino alla fine =))
Roxy
[1] La canzone in questione è "Down" di Jason Walker
  
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