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Autore: MeliaMalia    13/02/2007    3 recensioni
Sfoderai il migliore dei miei sorrisi saccenti, piegando le labbra in una linea ironica che invitava a prendermi a schiaffi dal mattino alla sera. Dovreste vedermi, quando sorrido così. Vi giuro che, tutte le volte che lo faccio allo specchio, ho una faccia tosta tale che mi verrebbe da prendermi a pugni da solo.
E’ un sorriso adorabile, insomma.
Perciò lo misi sfacciatamente in mostra. Quindi, con voce risoluta, con fare da gran duro, dissi: “E’ ora, signorina, che tu possa tornare ad essere ciò che sei. Ovverosia, un cadavere.”
Sono un tipo dalle frasi d’effetto, io.
Genere: Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO DECIMO

Il mio nome è Bianca Chiara Aria del Casato di Fortesole. E non sono abituata a parlare di me.
Perciò, spero mi perdonerete qualche ingenuità narrativa.
Sono bassotta, magra come un chiodo e pallida come uno spettro; ho lunghi capelli neri ed occhi verdi, grandi, da bambina.
E ho tanta, tanta paura del sangue.
Inoltre, non posso dormire. Né mangiare. Né vivere alla luce del sole.
Ma non è poi così grave.
O almeno, così dice mio fratello.
E’ lui che si prende cura di me. Da quando, una notte di molto tempo fa, perdemmo entrambi i nostri genitori, uccisi da un Antico.
Quando dico Antico, intendo un vampiro molto, molto vecchio. Sono creature incredibilmente forti, addirittura imbattibili, rinvigorite dal peso degli anni che permette loro di sopravvivere anche senza l’apporto vitale del sangue.
Mi chiedo spesso, quindi, cosa potesse mai aver voluto quella creatura da noi. Se disponeva della facoltà di vivere senza uccidere, allora perché ci ha attaccati?
Non lo so. Né, temo, mai lo saprò.
Ho rimosso ogni ricordo di quella notte, ed ogni volta che provo a richiamarla alla memoria, avverto l’irresistibile impulso di mettermi a pensare a qualcos’altro.
Aster dice che è normale, che è meglio che io non ricordi. Dice che potrebbe farmi male.
Aster è mio fratello.
Dovreste vederlo, voi lettrici di sesso femminile: è alto, moro, con profondi occhi neri, ed un sorriso da schiaffi. Mamma lo chiamava Briccone, perché erano più le nobildonne che cadevano ai suoi piedi di quelle che lui realmente considerava, sfrontato e dispettoso com’era.
Io, da parte mia, ero gelosa di tutte loro.
Il mio fratellone è solo mio, dicevo. Avevo paura che me lo portassero via.
Ma ora siamo insieme. Soli, viandanti sperduti in questo mondo che, a causa della mia malattia, è ormai formato solo dalle tenebre. Viaggiamo esclusivamente di notte, due ombre perse nell’oscurità.
Soli, senza mamma, senza papà, senza la nostra buona badante.
Soli.
Mi mancano persino le corteggiatrici di Aster.
Sapete, io amo la compagnia. Amo avere attorno a me tante persone, anche se sconosciute. Amo i rumori del loro respiro, amo sentirle chiacchierare, amo quel guscio di umanità ove mi lascerei racchiudere, piccola duchessina felice anche d’essere in una misera taverna, purché piena di uomini e donne vocianti.
Mi basta così poco, per sentirmi meno sola.
Al momento, mi sto accontentando della compagnia di Aster. Lui mi ha preso con sé, mi ha condotta lontana dal nostro maniero ove nascemmo. Da quel salotto ove mamma e papà furono uccisi, probabilmente davanti ai miei stessi occhi.
Ed ora si occupa di me, con tutto l’amore che possiede. Ed io sono felice di questo. Davvero.
Se solo, ogni tanto, potessimo non rifuggire alla compagnia umana…
Ma non ho il coraggio di chiederglielo.
Mio fratello, con una freddezza che ha del spaventoso, evita città, paesini, semplici case. E quando è costretto ad avvicinarsi agli altri uomini, lo fa con diffidenza, con una sorta di rabbioso e colpevolizzante silenzio.
All’inizio, credei che fosse a causa della mia malattia; mi convinsi – stupidamente, lo ammetto - che lui provasse vergogna nel presentare una sorellina pallida, debole ed inutile come me. Ed avvertivo un angoscioso disagio, per ciò.
Ma poi capii.
La sua riottosità nei confronti degli altri non era a causa del mio male. Ma a causa del suo.
Un male profondo, tenebroso, radicatosi nel cuore di Aster, un cuore spezzato dal dolore della perdita. E dalla paura del domani.
Il giorno prima, eravamo due piccoli duchi. Il giorno dopo, due orfani smarriti.
E lui, che deve reggere sulle spalle il peso di tutto ciò. La responsabilità di curarmi.
Mi chiedo come faccia.
Come posso, dunque, biasimarlo per il suo comportamento asociale? Ora che si occupa di me, ora che è responsabile della mia vita, mi tiene in un morbido involucro composto da bambagia, e non intende permettere a nessuno di sfiorare l’ultimo nucleo della nostra ormai distrutta famiglia. Da una parte ha ragione… Dall’altra…
Dall’altra non è più l’Aster che io conoscevo, il mio caro Aster che conquistava eleganti salotti da tè, intrattenendo con scherzi intellettuali giovani nobildonne ridenti come oche. Quelle che io tanto detestavo.
E’ un’altra creatura, racchiusa in se stessa, che sembra trarre ogni suo singolo respiro dall’immenso, oscuro amore che prova nei miei confronti. Un essere che vive solo per badare a me, alla sua sorellina.
Credo che si sarebbe ucciso, se l’Antico non mi avesse risparmiata.
Credo che abbia trovato la forza necessaria per andare avanti solo nel senso di responsabilità che lo ha legato a me.
Credo di essere molto fortunata.
Mi sento perduta, nell’immensità del suo sentimento. A volte, addirittura, incapace di ricambiarlo come meriterebbe.
Capite, dunque, perché lascio che mi conduca nella solitudine della nostra nuova vita, perché accetto che lui badi a me, perché non approfondisco argomenti che lui mi sconsiglia di approfondire?
Perché Aster comprende ciò che a me sfugge, osservandole con quel suo sguardo ora spento ed arrendevole; come se la tenebra adesso presente in lui riuscisse a scorgere le ombre attorno a noi, che ai miei occhi appaiono invisibili. Ed è giusto che sia così, anche se non so per quale motivo.

«Aria!» mi voltai al richiamo, sorridendo d’istinto. Io sorrido sempre, ed a volte lui mi prende in giro per questo. Dice che prima o poi mi verrà una paresi facciale. E’ così buffo, quando ha di queste uscite.
In piedi davanti alla Residenza, lo attesi, ridendo scioccamente per quello strambo modo di correre che ha quando è particolarmente eccitato da qualcosa. Mio fratello è nel contempo adulto e bambino, e non so mai decidere quale delle due metà abbia il sopravvento sull’altra.
«Cos’è?» chiesi, osservando sorpresa ciò che lui, con una corsa allegra, stava conducendo verso di me. Era qualcosa di argentato, che si dibatteva tra le sue mani. Notai, mentre lui si avvicinava, che era fradicio dalla testa ai piedi.
«Un pesce!» ululò glorioso, piazzandomelo sotto il naso. Da quando sono malata, il miei sensi sembrano essersi acuiti, forse per compensare la quasi perenne debolezza del fisico; e sentire con quel mio nuovo, intenso olfatto l’odore dello squamato animale fu una brutta esperienza.
«Che schifo.» uggiolai, allontanando da me la povera creatura, che ancora si dibatteva in preda agli ultimi spasmi. «Perché lo hai tirato fuori dall’acqua? Sta morendo!» i globi oculari terrorizzati del pesce mi inquietarono un poco. Non doveva essere bello, perire soffocato tra le mani di un gigante.
Gli occhi di Aster, evidentemente insensibili al mio momentaneo turbamento, brillarono come avevano fatto poche altre volte in quegli ultimi tristi, bui tempi. «Sono mesi che non mangio del pesce!» sussurrò sognante, e quasi temetti che volesse baciare con ardore quel povero essere. «Vado a cucinarlo…» canticchiò poi, superandomi e dirigendosi verso l’interno della residenza.
Lo seguii, preoccupata. «Non vorrai cuocerlo qui dentro, vero? La puzza rimarrà per mesi!»
«Il profumo, Aria. Profumo. Dolce, fragrante, ammaliante, suadente, invitante, accattivante… »
«… Puzza.»
«Va bene. Lo cucinerò fuori.» acconsentì lui, con un sospiro di mera sopportazione, che compensò immediatamente con un dolce sorriso. Prelevò un coltello dalla sua sacca e tornò verso l’esterno. Una pallida quanto rara luna illuminava i suoi movimenti, inzuppando di luce argentea le nostre figure e quelle della foresta circondante la Residenza.
Raccolsi due o tre pezzi di legna, cercando di sopportare lo sforzo, e trotterellai dietro di lui, per aiutarlo ad accendere il fuoco.
Mi piace, il fuoco. Mi piacciono le fiamme vive, alte e calde. Mi piace tenerlo acceso, non permettergli di morire. Perché ho sempre bisogno di quel calore: ultimamente, non so nemmeno io perché, la mia pelle è fredda. Molto, molto fredda. E le mie ossa, sono come ghiaccio.
Stupida malattia.
Volsi lo sguardo quando Aster, poggiato il pesce su di un masso piatto, lo incise con il coltello, senza neppure attenderne la morte. O forse velocizzandogliela, con una gentilezza un po’ macabra.
Avevo visto molte volte la nostra badante pulire il pesce: bisognava aprire la pancia, ed estrarre la… roba… che c’era dentro. Ricordavo indefinitivamente il sapore di quella carne bianca, vellutata, e, per un attimo fui vagamente rattristata dal fatto di non poterla più assaggiare.
Ma ero contenta che almeno Aster fosse in grado di permetterselo. Felice come un bambino al momento dello scarto dei regali, lui aprì la sua preda, pregustando quello che, ai tempi felici della nostra infanzia, sarebbe stato un pasto come un altro.
«Ma che…?» sbottò poi mio fratello, sorpreso.
«Che succede?» domandai, senza voltarmi. Sapevo che aveva le dita sporche di sangue; e, anche se sangue di pesce, la cosa non sarebbe stata comunque piacevole da vedersi.
«Ci sono delle palline» commentò il ragazzo. «Nel pesce.»
«Delle palline?» ripetei, perplessa.
«Che stranezza.» borbottò lui. «Sono piccole, nere.» lo sentii lavorare ancora sul minuto corpo dell’animale, mentre le fiamme ardevano accanto a noi, spandendo ombre e luci sulla nera figura della Residenza alle nostre spalle. «Otto palline. Sembrano di ferro.» constatò infine Aster. «Ma che mangiano, queste bestie?»
Non trovai una risposta per quel quesito. Dal momento che, ultimamente, non sapevo nemmeno di cosa mi nutrissi io stessa, ritenei poco opportuno starmi a preoccupare anche dell’alimentazione di un povero pesce.
Aster non fece altri commenti. Infilzò l’animale in un lungo bastone, e lo arrostì con pazienza, producendo un profumo invitante, delizioso, che eppure non risvegliò alcun appetito in me.
Io, ormai, mi nutrivo solo della “medicina”, una strana mistura che Aster preparava per me, capace di tenermi in vita. Un pessimo composto, che detestavo cordialmente, dal momento che il solo odore era capace di rivoltarmi lo stomaco, inducendomi al vomito. Ma la bevevo ugualmente, per amore del mio caro fratello.
«Oh, Dio… ma quanto è buono?» mormorò lui, quando, dopo aver recuperato il pesce ormai cotto, lo addentò con spropositato piacere, abbandonandosi ad un mugolio degno di un orso immerso in una vasca di miele.
«Non lo so.» risposi con un debole sorriso di circostanza.
   
 
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