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Autore: Love_in_London_night    31/07/2012    3 recensioni
«Cosa vuoi Reuel? Cosa vuoi per te, per il popolo di Ascott e per le vittime innocenti avvenute per il solo volere di un folle?». Nonostante tutto Aras era un grande oratore, sapeva quali punti toccare e così aveva fatto con lei, riconoscendo i suoi nervi scoperti.
Rispose ancor prima di riuscire a formulare un pensiero di senso compiuto.
«Yanahwé».
Aras sorrise mentre lei si sorprese delle sue stesse parole. Aveva sentito cosa aveva detto, e non corrispondeva al pensiero, eppure sentiva scorrere in corpo una forza antica e dimenticata dai più, nascosta tra le parole di varie leggende.
Aveva detto Yanawhé, si era sentita, ma aveva pensato giustizia.
[...]«Yanawhé» ripeté in un sussurro convinto.
Giustizia. Voleva soltanto giustizia.
Genere: Avventura, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Yanahwé

 

Il regno unificato delle terre di Ascott aveva conosciuto tempi felici, dopo la firma di un trattato di pace. Gli elfi si erano presi le terre del Nord, denominate Foraoisí Síochánta, Foreste Pacifiche. Gli umani risiedevano nel territorio centrale, la Terra dei Laghi. Infine, i nani, occupavano i territori rocciosi a sud. Agli orchi era stata risparmiata la vita per rendere il significato di quella pace effettivo e veritiero; erano stati così esiliati dal regno e costretti a ritirarsi su Eadóchas, la montagna della Disperazione.
Gli anni si susseguirono sereni. Ogni decade veniva governata a turno da un sovrano delle tre specie, concentrato a far governare la pace. Il centro del potere si muoveva seguendo l’Imperatore, spostandosi di terra in terra nella più totale democrazia. Nani, elfi e umani, questo era l’ordine stabilito nel trattato.
Ma gli equilibri precari, era risaputo, tendevano ad avere breve vita.
Gli elfi, alla guida di Ascott da dieci anni, avevano riscoperto la magia nera, lasciando che essa corrompesse i loro animi. Droth, l’Imperatore elfico, aveva spezzato ogni equilibrio venutosi a creare in precedenza, non cedendo il trattato e i poteri che esso conferiva, facendo cadere l’Impero sotto un’aspra dittatura. Tasse che sfinivano gli abitanti, esecuzioni immotivate e un uso della magia nera violento atto ad assoggettare il popolo, ormai al limite delle proprie forze. Nemmeno gli elfi, dotati di magia bianca, riuscirono a rovesciarlo.
La pace, nel regno delle terre unificate, era ormai un nostalgico ricordo a cui aggrapparsi per non cadere ai piedi di Droth. Spesso sfamava e riempiva lo stomaco più di una pagnotta, questo perché la memoria non poteva essere strappata alla gente. Il pane, invece, sì.

* * *


Reuel era nata sotto il dominio di Gralamin, ventidue anni prima, quando ancora Droth era solo un nome mormorato dalle bocche sagge degli elfi che lo indicavano come futuro Imperatore. Viveva sola, isolata rispetto al piccolo villaggio in cui vendeva la propria verdura. I genitori erano morti quando lei era adolescente durante una rivolta. Il fratello, Lerech, era stato costretto ad arruolarsi nella Guardia Imperiale al compimento dei venti anni. Nonostante non lo vedesse da un lustro, aveva sue notizie in lettere che le pervenivano sempre più di rado. Le ribellioni da sedare erano tante, le persone da uccidere ancor di più e Lerech doveva sottostare ai voleri del dittatore per salvare la sorella e la propria vita. Amava la giustizia, ma non fino al punto di immolarsi per essa.
Il villaggio non vedeva di buon occhio Reuel. Nonostante fosse nata lì, era diversa da tutti loro: gli umani erano pallidi e castani, i tratti somatici che avevano dominato da sempre la loro razza, in special modo da quando avevano smesso di accoppiarsi agli elfi. Reuel ricordava loro quanto fosse diversa con la sua pelle bronzea. I capelli corvini rammentavano agli altri qualcosa di ormai dimenticato; ma erano gli occhi ad atterrire: erano scuri come un’eclissi e dal taglio obliquo, la vera particolarità che la caratterizzava e la distingueva dagli altri della sua stessa razza. Quei tratti di umano avevano ben poco, eppure andava fiera della sua diversità.
Gli abitanti del villaggio si relazionavano a lei per barattare le verdure e i cereali con la carne, il pane e altri beni, ma i rapporti si limitavano a quello. Solo qualche anziano aveva la compassione di trattarla quasi come fosse una nipote. Questi individui si rendevano conto della situazione della ragazza: era sola e coltivava le terre lasciatele dai genitori nella speranza di veder comparire il fratello libero dagli oneri dell’Impero. Viveva in una speranza ormai morta, alimentando quell’alito di vita diventato stantio.
Abitava ai confini del Bosco Impenetrabile, conosciuto a quelli del posto come Bosco dei Perduti, dato che chi vi entrava non ne faceva mai ritorno. Dalla parte opposta del campo, sul lato sinistro della casa in legno, c’era il più pacifico lago.
Quella mattina aveva dato da mangiare alle galline ed era pronta per percorrere i dieci minuti che la separavano dal centro abitato. Mise la verdura nel piccolo carro, vi legò l’asino e si diresse a commerciare un po’. Aveva bisogno di latte dato che non aveva tempo né posto per tenere le mucche, il campo le occupava ogni momento della giornata.
Si aspettava di trovare il solito tumulto nella piccola piazza, ma ad accoglierla fu un insolito silenzio. Gli abitanti che si aggiravano nella zona erano tesi e andavano di fretta senza nemmeno alzare la testa.
Vide Blacksmith, il fabbro, e lo fermò. «Non compri i tuoi porri, oggi? Sono buonissimi, garantisco come sempre».
«Reuel, non ti sei accorta di quello che sta succedendo?». e gli indicò il paesaggio attorno a loro. Infine aggiunse brusco «Tornatene a casa».
La ragazza fu sorpresa da quel tono così aspro, tanto che si immobilizzò ai margini della piazza guardandolo mentre si rintanava nella sua abitazione.
Fu Bailen, l’anziana scorbutica del villaggio, ad avvisarla dalla finestra di casa sua. «Scappa piccina, sta arrivando la Guardia Imperiale. Viene per portar rogne. Fossi in te non mi farei trovare in giro». E per sottolineare il concetto indicò le torce che, più vicine del previsto, segnavano la presenza di un nutrito gruppo di soldati «Abbiamo saputo che hanno distrutto il villaggio di Clith perché non avevano i soldi per pagare nuove tasse. Salvati».
Reuel sentì del vero terrore percorrerle tutta la schiena. Certo, c’era la possibilità di rivedere Lerech, ma sarebbe stata l’ultima immagine che avrebbe visto prima di morire. Non era il suo giorno, quello; aveva una vita da vivere e non si sarebbe fatta catturare.
Il panico però le giocò un brutto scherzo: possesso delle sue gambe, facendole sentire molli e quindi muovere a rilento. Prese il carro e lo legò al ronzino che l’aveva portata fino a lì, sprecando così del tempo utile da poter dedicare alla fuga.
Quando partì dalla piazza le guardie stavano entrando nel villaggio, sparpagliandosi per le varie vie e lasciandole il tempo di allontanarsi passando inosservata. Il mulo però era stanco e rallentato dal carretto che ancora pesava visto il contenuto invariato rispetto all’andata, cosa che la penalizzò.
Si era allontanata parecchio dal villaggio, quando poté sentire le urla dei soldati che avevano appiccato il fuoco ad alcune case, quelle delle persone che non avevano pagato la nuova tassa. «Laggiù! È lei».
Non le servì girarsi per sapere che la stavano indicando. Liberò l’asino dal carretto e salì sulla sua groppa incitandolo ad andare il più veloce possibile. Era a metà strada, doveva solo resistere e sperare che avessero altro di più importante a cui dedicarsi.
Speranza vana, dato che un piccolo capannello partì al suo inseguimento. Nonostante gli zoccoli del suo ciuchino sbattessero a terra con frenesia quasi alla velocità del suo battito impazzito, non poteva molto contro i cavalli della Guardia. Nella disperazione del momento decise di abbandonare il sentiero per addentrarsi nella piccola boscaglia che separava casa sua dal villaggio, un buon modo per far perdere le tracce e rallentare l’avversario. Lei conosceva quel tratto di macchia, loro no.
È lei. Due semplici parole che la colpirono a scoppio ritardato. La stavano cercando. Perché?
«Ferma!» le intimarono i soldati che la inseguivano. Ordine che rifiutò di seguire, una cosa che di lì a poco le sarebbe costata cara, lo sapeva benissimo. Non aveva speranza di salvezza, ora che aveva attirato la loro attenzione su di sé. Il camino della casa lasciava una lunga scia di fumo nel cielo, una traccia che li avrebbe condotti a lei con il minimo sforzo. Non era più al sicuro, sentiva la vita abbandonarla a ogni passo verso casa.
Arrivò davanti a essa con poco anticipo rispetto ai soldati. Non fece fermare l’asino, tutto ciò che poteva salvarsi andava portato fuori pericolo. Scese al volo e gli diede una pacca vicino alla coda, per invitarlo a continuare la sua corsa. L’animale non se lo fece ripetere due volte e sparì all’interno del Bosco Impenetrabile, meglio preda di qualche mostro piuttosto che del fuoco dei nemici.
Cercò di rifugiarsi in casa e rimediare qualche arma provvisoria per combattere, ma fu sopraffatta dai soldati che irruppero nell’abitazione.
«L’Imperatore vuole i propri soldi. Dacci quelli e ti lasceremo in pace» l’ammonimento giunse in compagnia di un sonoro ceffone che la fece cadere a terra nei pressi del camino.
Quelle parole fecero ridere il resto della truppa, come se sapessero che dietro ad esse probabilmente si celava ben altro.
Era conscia che presto sarebbe morta, nulla poteva cambiare il suo destino. Scavò nel suo animo per racimolare il coraggio perso in precedenza. Se doveva morire, preferiva farlo da eroina.
«Di’ al tuo Imperatore che i soldi sarebbero i miei. E se anche avessi dei risparmi, non glieli darei mai» sputò rabbiosa. «E, comunque, non ho più niente, mi ha prosciugato tutto. Ho solo questa casa».
«E allora noi ce la prenderemo» disse il più viscido tra i sei.
«O lei o te» aggiunse un altro. «L’Imperatore saprebbe cosa farne della tua bellezza e del tuo corpo».
«Mai!» ringhiò prendendosi un pugno da parte del capo.
«Tranquilla. Per te, Reuel di Chasg, abbiamo avuto ordini precisi: non dovrai rivedere più la luce del sole».
Tentò di rialzarsi e ribellarsi nonostante lo stordimento, ma a nulla valsero i suoi tentativi.
Uno la colpì con la lancia sullo stinco e fece pressione, in modo da farla cadere ancora e quello più vicino a lei le ferì un braccio con la spada.
«Mi dispiace ragazza sciocca, hai appena decretato che la tua morte sarà lenta e dolorosa» disse in tono mellifluo. Si vedeva quanto fosse abituato a far del male e quanto gli piacesse infliggerne.
Il dolore non le impedì di sbiancare dopo aver recepito il messaggio. La ferita pulsava tanto quanto lo zigomo su cui era andato a infrangersi il pugno. Era stanca e in preda agli spasmi.
«No!» urlò il soldato in fondo al gruppo, scosso da brividi di rabbia.
Reuel riconobbe subito gli occhi. Così scuri ma così diversi dai suoi. Così semplicemente umani.
Sarebbe morta, ma almeno aveva rivisto un’ultima volta Lerech.
«Cos’hai detto, soldato?». Il comandante si voltò verso il proprio sottoposto.
«Non toccherete mia sorella» strillò spinto da una collera repressa per tutto quel tempo. Menò un fendente cercando di colpire il superiore. «Scappa Reuel!».
Le altre guardie gli furono addosso per difendere il proprio capitano, non potevano rischiare di perdere la vita per una persona che non conoscevano neppure.
«No, non posso. Non posso lasciarti solo!» gridò rialzandosi. Prese un ciocco di legno e brandendolo come fiaccola per tenere lontano eventuali aggressori. Le costava fatica, era stanca e dolorante, ma l’istinto ebbe la meglio e si costrinse a reagire.
«Ho detto di scappare» le urlò contro allontanando un proprio compagno d’armi. Lerech amava sì la giustizia, ma più di ogni altra cosa amava sua sorella. Per lei, e solo per lei, avrebbe affrontato qualsiasi difficoltà e fatto ogni sacrificio necessario.
Aggirò i soldati minacciandoli con la fiamma viva, portandosi verso l’uscita. Arrivò all’uscio e si fermò, incerta. Lerech stava cedendo sotto i colpi dei suoi superiori.
«Vai!» le urlò.
Tra le lacrime Reuel annuì. «Ti voglio bene».
Dette fuoco al tetto e corse verso il nulla. Seguì la direzione dell’asino. Piuttosto che morire per mano dell’Impero avrebbe preferito darsi in pasto alle creature selvagge che popolavano le terre che circondavano quello che rimaneva di Chasg, il suo villaggio.
Due soldati uscirono tossendo dalla casa, cercando di inseguirla, eppure, mentre uno dei due recuperava i cavalli fu fermato dall’altro. «Non c’è bisogno di rincorrerla, sarà morta prima della prossima alba. È entrata nel Bosco Impenetrabile».
La loro missione poteva dirsi conclusa.

* * *


È lei. Per te, Reuel di Chasg, abbiamo avuto ordini precisi: non dovrai rivedere più la luce del sole.
Erano quelle frasi che la spingevano a correre tra gli alberi. Più si addentrava nel bosco, più la sensazione di morte si fortificava in lei. Aveva paura che gli inseguitori la trovassero e, dall’altra parte, sapeva che di lì a poco qualche bestia le avrebbe strappato il cuore e banchettato con il suo corpo; non potevano trattarsi di sole leggende simili creature.
Le ferite pulsavano, le forze continuavano a venire meno, ma Reuel correva senza meta. Avanzava come se fosse stata sospinta dal vento, portata da una forza più grande di lei. Come se Madre Natura, dopo la sua entrata nel bosco, la stesse guidando in un luogo preciso.
Perché la stavano cercando? Perché l’Imperatore aveva dato ordini precisi e voleva la sua morte?
Non aveva fatto nulla per sollevare le ire di qualcuno, in special modo quelle del tiranno.
E nonostante la poca lucidità, in quel suo peregrinare senza meta stava rimettendo insieme i pezzi della vicenda. Per stanare lei probabilmente avevano distrutto Chasg. Non ne era rimasto nulla, tranne le ceneri.
Forse pure gli abitanti di Clith avevano fatto la stessa fine solo perché erano sul percorso. Si domandò a quanti villaggi era toccata la stessa sorte, a quante persone era stata tolta la vita perché d’intralcio tra lei e l’Impero.
Quante vittime aveva sulla coscienza? Quanti villaggi? Di quante persone ancora si sarebbe attribuita la morte?
D’improvviso sentì il peso di quelle verità gravarle sulle spalle e schiacciarla sempre di più al suolo. Si sentiva sporca del sangue di vittime innocenti. I volti di Blacksmith, Bailen, di tutti gli abitanti di Chasg le passarono davanti agli occhi, ma il colpo mortale lo ricevette dall’immagine del fratello Lerech. Dopo anni in cui non avevano potuto vedersi, l’ultima immagine che aveva di lui era grondante sangue e coperto di lividi mentre si immolava per lei, per salvarle la vita.
Gli occhi si riempirono di lacrime che rendevano offuscata e scintillante la vista, cosa impossibile dato che ormai aveva raggiunto la parte più oscura del bosco, quella con i rami così fitti che non permettevano alla luce solare di passare per arrivare a lei.
Eppure le sembrava di sentire una voce benevola appena sussurrata tra gli alberi, una voce di donna che cercava di rassicurarla e spronarla ad andare avanti. «Mo 'níon» le sembrava di sentir sussurrare tra gli alberi, una frase che alle sue orecchie non aveva senso, ma che le donava pace e serenità. Le venne spontaneo ringraziare Madre Natura, anche se sapeva bene che aveva ben altro di cui occuparsi. Una piccola quanto insignificante creatura non avrebbe fatto la differenza.
Il sangue le era colato dalla ferita, nonostante avesse cercato di tamponarla con una stoffa era troppo profonda perché un semplice straccio arrotolato e stretto attorno al braccio potesse fermare l’emorragia; inoltre la botta sullo zigomo si era gonfiata così tanto da impedirle di vedere con l’occhio destro, ormai chiuso dal livido.
Zoppicava per le troppe cadute e le forze la stavano abbandonando in modo definitivo, lo sentiva. Lo sapeva perché nonostante fosse nella totale oscurità, i suoi occhi sembravano aver individuato dei punti di luce non molto distanti. Stava morendo e i suoi sensi si prendevano gioco di lei.
La gente si era sacrificata per Reuel – tra tutti il fratello – e ora sarebbe morta alla ricerca del nulla nel Bosco Impenetrabile. Erano morti per nulla.
Si incamminò verso le luci, sospinta da una brezza fredda che le fece venire i brividi, anche se di sinistro aveva ben poco. Scossa dalle convulsioni, arrivò così vicina da credere quasi che fossero fiaccole vere.
Chiuse gli occhi che ormai non vedevano più. Era pronta a svenire e rovinare a terra senza grazia, quando le parve di sentire in lontananza il rumore di una specie di piccolo ponte levatoio. La mente doveva giocarle brutti scherzi, ormai.
Aspettava di crollare al suolo, circondata dalle foglie secche e aspettare che la morte la venisse a prendere.
Non successe mai. Svenne quando ci furono due braccia a correrle in soccorso e impedirle quindi di cadere. Il resto passò in secondo piano.
Qualcun altro, se fosse sopravvissuta, le avrebbe raccontato la storia di come l’aveva salvata.

* * *


Non pensava che il Paradiso fosse così accogliente e poco luminoso. Essendo la sede della Luce Divina, lo pensava illuminato sempre dall’aura di Madre Natura e di ogni Dio a cui gli esseri viventi facessero riferimento. Sempre che di Paradiso si trattasse, dato che non era sicura di meritarselo. Non dopo tutte quelle vittime innocenti sulla coscienza, anche se non era lei la carnefice. La mano che aveva tolto la vita a tutte quelle persone non era stata la sua, ma Reuel ne era il movente, e questo bastava a farle credere di non meritare l’accesso al Regno dei cieli.
Dopo aver messo a fuoco la vista con fatica, si accorse che quel posto di paradisiaco non aveva proprio nulla, stava fissando un soffitto che sembrava composto da pezzi di legno sgangherati accostati al meglio. Si girò verso la sua sinistra e vide un focolare acceso su cui bolliva una pentola e due o tre scalini che sparivano chissà dove. Davanti al camino c’era un tavolo pieno zeppo di pergamene e libri distribuiti a casaccio.
La luce delle candele sparse per la stanza, il fuoco, il legno e le pietre con cui la casa era costruita conferivano all’abitazione un’atmosfera calda e rassicurante che Reuel apprezzò. Nonostante non riuscisse a capire se fosse notte e il clima non fosse caldo come la mattina in cui si era diretta a Chasg, si sentiva serena.
Si tranquillizzò; forse, dopotutto, non stava morendo.
Alzò il braccio ferito con un certo sforzo e sollevando un po’ la testa si ritrovò davanti una fasciatura stretta e benfatta che sembrava aver fermato lo scorrere del sangue. Avvicinò il naso e sentì l’odore acre di un unguento che doveva sanare lo squarcio. L’odore però le diede il voltastomaco e le fece girare la testa. La abbassò sul cuscino e rimise il braccio lungo il fianco, infine chiuse gli occhi e trasse profondi respiri per far passare la nausea e i giramenti.
Lo scoppiettio del fuoco era l’unico rumore che le faceva compagnia. Si era concentrata così tanto su quell’ultimo che il rumore di una ciotola poggiata sul tavolo la fece spaventare, facendole aprire di colpo gli occhi.
«Sei sveglia» mormorò una voce in tono neutro, come se quella fosse una semplice costatazione.
Invece quella presenza per Reuel voleva dire tante, molte cose. Chi era? Perché aveva quell’aspetto strano ma così simile al suo? Perché l’aveva salvata? Era un amico o un nemico? Dopo aver scoperto perché fuggiva l’avrebbe uccisa?
Domande che nel corso del tempo avrebbero trovato risposta.
Avrebbe voluto assecondarle subito, ma da quando quel ragazzo era entrato nella stanza una strana sensazione aveva preso posto nel suo corpo. Un prurito che partiva dalle dita e si estendeva per tutto il braccio, fino ad arrivare al cuore e raggiungere addirittura la testa, come se il suo corpo fosse stato attivato davvero per la prima volta.
Qualcosa stava succedendo dentro e attorno a lei.
Se ne accorse quando il ragazzo si avvicinò con la ciotola. «Questa è per te. Devi rimetterti in forze».
Prima di accettarla Reuel si schiarì la voce, anche se infine questa uscì lo stesso roca: «Chi sei?»
«Aras» rispose asciutto lui.
Era serio e composto, come se nulla riuscisse a scuoterlo davvero, almeno in superficie.
«Tu?».
Il formicolio divenne più forte, tanto da provocarle fastidio.
«Reuel» rispose prendendosi un momento per ponderare se la zuppa fosse avvelenata o meno.
«Come hai fatto a trovarmi in tempo?». quella domanda le premeva davvero.
«Il bosco mi ha parlato di te».
Forse il suo non essere in forze le stava giocando un brutto scherzo.
«Mh?». Non le uscì altro.
«Il vento mi ha portato il tuo dolore, mostrandomi così la tua presenza». Era chiaro e diretto.
«Spiegati meglio» lo invitò, perché anche lei aveva sentito la boscaglia sussurrarle speranza.
«Ho percepito il tuo spirito. L’ho percepito dentro di me, un soffio di sofferenza che non mi apparteneva». E l’ammissione gli costò fatica. Lo sguardo di lui si incupì ancor di più.
Reuel non sapeva cosa in Aras le desse sicurezza, sapeva solo che in sua presenza riusciva a sentire pace. Una sensazione che non la accompagnava dalla morte dei genitori. Quella percezione la spinse ad accettare infine la ciotola di zuppa, prendendola dalle mani del ragazzo, cercando di ignorare il pizzicore crescente.
Fu allora che successe, nell’esatto momento in cui le loro mani si sfiorarono per sbaglio.
Il prurito divampò trasformandosi in dolore che colpì entrambi.
Reuel lo sentì in modo chiaro partire dal centro della fronte e immobilizzarla come un crampo. Quando si concentrò su esso lo scoprì un punto vibrante nel proprio corpo che si spostava verso il basso, andando a lambire il suo fianco destro. Il dolore era contenibile e meno forte, ma svenne lo stesso perché quella luce interiore le aveva tolto le forze.
Aras, che prima si era seduto sullo sgabello accanto al letto, giaceva svenuto per lo stesso motivo.

* * *


La prima persona a riprendersi da quello strano episodio fu Reuel.
Aprì gli occhi con vigore, cercando di capire cosa fosse successo e dove quel male interno al corpo l’avesse colpita, ma l’unico punto in cui riusciva a sentire dolore era il fianco destro. Spostò le coperte e si fece coraggio, guardando l’entità del danno. Con sua grande sorpresa notò che non si trattava di tagli e ferite, sull’osso del bacino campeggiava una scintillante cicatrice che assomigliava a una goccia d’acqua stilizzata, linea che però non completava il proprio disegno. Sulla parte destra la forma si interrompeva lasciando una visibile fessura nel bordo e l’altro lembo si infilava nella goccia quasi incompleta per terminare.
Nonostante la stranezza del segno e il dolore provocato dalla sua apparizione, era piena di vita, si sentiva pervasa da un’ondata di energia che non le era mai appartenuta. Era incredibile come quel fatto l’avesse rimessa in sesto, nel pieno delle sue forze e forse anche di più.
Lo stesso però non si poteva dire di Aras. Giaceva inerte sul ciglio del letto, svenuto e senza la minima intenzione di riprendersi. Dei due era lui quello provato.
Reuel provò un moto d’agitazione per quella persona sconosciuta che però l’aveva accolta, sentì di dover fare qualcosa per lui. Si alzò da quel giaciglio e, facendo appello alla rinnovata forza, lo sistemò sul letto con non poche difficoltà. Una volta steso il ragazzo, Reuel si accorse di quanto fosse pallido e sudato, sembrava febbricitante. Il contatto tra la propria mano e la sua fronte confermò il dubbio.
Decise di poterlo abbandonare un poco per cercare nella casa a lei sconosciuta l’occorrente per abbassargli la febbre. Una stoffa bagnata posata sulla fronte sarebbe bastata, se fosse peggiorato avrebbe cercato delle erbe medicinali, anche se non era molto esperta a riguardo.
Ma Aras era un nemico? L’aveva salvata nel momento del bisogno, eppure non era sicura che le intenzioni del giovane fossero nobili. Magari prima di ucciderla avrebbe voluto conoscere la sua storia, per sapere a chi avrebbe fatto un favore o, peggio, avrebbe voluto torturarla piano, facendole patire le pene più atroci.
Aveva deciso di salvarlo per saperne di più e perché lui l’aveva salvata, quando ne aveva avuto bisogno. Per precauzione, in un momento di riposo di lui, rovistò in quella che aveva l’aria di essere una piccola armeria e si munì di un pugnale; non che volesse fargli del male, ma se Aras l’avesse attaccata sarebbe stata pronta a difendersi.
Si sedette sullo sgabello scarno che lui stesso aveva utilizzato per aiutarla e vegliò sul corpo privo di sensi.
Nel giro di qualche ora il colorito si fece acceso e di nuovo sano, la temperatura scese e sembrò tornare normale. Quando Reuel tolse il fazzoletto ormai poco umido dalla fronte di lui, Aras rinvenne.
Avrebbe voluto aspettare di vederlo nel pieno delle sue forze, poi decise di attaccarlo subito in modo verbale così da sorprenderlo e girare la cosa a proprio vantaggio, contando sull’effetto sorpresa.
«Cosa sei?» la domanda nacque spontanea. Aras non sembrava preoccupato o sorpreso da quell’attacco acuto, ma più soddisfatto e curioso di sapere.
«Un maestro d’armi» rispose cercando di mettersi a sedere ma senza riuscirci: la testa girava troppo.
«Vuoi uccidermi?» lo chiese tenendo stretto il manico del pugnale che aveva trovato prima. Non era seduta, ma acquattata in posizione di difesa, pronta a colpire. L’arma era nascosta nello stivale che aveva recuperato ai piedi del letto. Tentava così di nasconderlo agli occhi dell’altro, puntando sulla sorpresa in caso di necessità e nella speranza di nasconderlo in quel modo se non fosse stato necessario usarlo.
Aras sorrise appena, con lo sguardo serio di chi non era abituato a scherzare. «No, voglio insegnarti a combattere. Certo, questo non garantisce la tua incolumità».
Reuel allentò la presa intorno al manico. Cosa intendeva?
«Cosa vorresti dire?»
«Quando siamo svenuti, dove si è annidato il tuo dolore?». Sembrava più vecchio e saggio di quanto il suo aspetto riuscisse a comunicare. Dava l’impressione di essere abituato a spiegare le cose, quasi avesse insegnato per secoli o millenni.
«Sul fianco destro» rispose Reuel con poca convinzione, quando si accorse ancor prima di concludere la frase che Aras aveva appoggiato la mano destra sullo stesso posto dove a lei era comparso quel segno.
Lui scansò le coperte con fare sbrigativo: aveva bisogno di sapere.
«Scopri il tuo segno e guarda cos’è». Era stato quasi un ordine.
Reuel – che già conosceva il suo, avendolo studiato con cura solo qualche ora prima – si stupì nel vedere lo stesso identico simbolo sul fianco destro di Aras. Lo sguardo soddisfatto ed emozionato di lui però non riusciva a darle le risposte che cercava in silenzio, perché la voce, dopo quella scoperta, era venuta meno.
«Era da secoli che attendevo di essere marchiato». Disse esaminando la cicatrice, accarezzandone i contorni con l’indice quasi con affetto.
La ragazza lo guardava in modo perplesso, senza riuscire a fare altro se non ricoprire quel marchio. Esporre la pelle nuda davanti a uno sconosciuto era sconveniente ai suoi occhi, non si era mai mostrata a nessuno così.
Aras sospirò. «Sono nato per addestrare i Destinati, coloro che una volta garantivano che sui Regni uniti di Ascott regnasse la pace. Droth, conoscendone la minaccia, ha fatto uccidere negli anni tutti coloro che facevano parte della Guardia Pacifica, compreso uno dei tuoi genitori, se non entrambi. Non so quale dei due fosse stato un Destinato, suppongo quello con i tuoi stessi tratti».
Era il discorso più lungo ed esaustivo che gli avesse sentito fare e ne fu colpita, non aveva l’aria di essere granché loquace. Reuel, nonostante lui avesse nominato i genitori, decise di star zitta. Da come aveva impostato il discorso si capiva che non era finito e che c’era molto altro a riguardo da scoprire.
«I Destinati guidavano grandi imprese, tanto da avere il merito di aver respinto e circoscritto gli orchi su Eadóchas. Capisci da sola che il loro potenziale era immenso, gli unici che potevano distruggere lo stesso Imperatore. Prima però che potessero compiere quest’impresa, Droth distrusse loro. Una sorta di prevenzione».
“Assomigli così tanto al tuo papà”le ricordava dolce la madre ogni volta che sorrideva. In quel momento riusciva a capire la connotazione diversa dell’apprezzamento, quanto in realtà nascondesse ai suoi occhi.
«Ma questo perché riguarda me se erano i miei a essere Destinati? Se questi ultimi si sono estinti perché sono stata scelta ed entrambi siamo stati marchiati?»
Si era chinata in avanti e aveva stretto con veemenza le lenzuola già sgualcite.
«Il mio compito in questi anni è cambiato. Devo addestrarti per sconfiggere l’Imperatore. Tu sei l’unica ad avere il potere per farlo. Come i Destinati, sei stata scelta per riportare la pace ad Ascott. Questo è il tuo Fato e non puoi sfuggirgli» sussurrò solenne lui.
Reuel notò lo sforzo che fece per alzarsi, fatica che gli costò il poco colore acquisito in precedenza. Si alzò e dal fuoco ormai spento prese un po’ di zuppa avanzata che aveva cucinato per lei qualche ora prima.
Gliela porse e il cibo sembrò giovargli.
«E perché hai il mio stesso marchio?». Non capiva la questione.
«Maestro e Destinato sono legati. Tu dipendi da me e viceversa. Se noti, da quando ci siamo toccati – entrambi svegli – e abbiamo stabilito una connessione, tu ti sei rimessa in forze, mentre io ero sfinito fino a poco fa. Ho compensato la tua mancanza». Reuel stava per esprimere il suo rammarico, ma Aras non glielo permise. «Comunque, il marchio delinea il mio insegnamento. La forma della cicatrice decreta l’arma a cui ti devo introdurre»
«E questa goccia cosa vuol dire?» sentiva il seme della conoscenza crescere piano dentro di lei e annidarsi in ogni sua fibra. Si stava cibando di quelle nuove verità e tentando di farle sue, per quanto le fosse difficile assorbire all’improvviso tutto ciò.
«La goccia aperta sul tuo fianco destro è la spada a doppio taglio» rispose sicuro.
«Quante armi esistono?» voleva far crescere il germoglio, ne sentiva la necessità.
«Almeno sette»
«E come sei in grado di saperle usare tutte al meglio?». C’era sfida nel tono di Reuel. Come poteva Aras essere così bravo con più armi? Che le fosse capitato un maestro principiante?
«Esperienza».
La ragazza capì che il suo Maestro non era di certo un amante dei lunghi discorsi e delle parole a sproposito. Quella concisione e la sua risposta, ridicola agli occhi di lei, la fecero ridere, anche se portava l’eco di una punta d’isteria, visti gli ultimi fatti.
«Sembrerò anche giovane, ma ho ottantadue anni» disse piccato.
«Com’è possibile?». non riusciva a capacitarsene.
«Magia». Come se fosse la risposta più ovvia di quel mondo.
«Bianca?». E dal responso sarebbe dipesa la vita del suo Maestro. Droth era la personificazione della Magia Nera, lei non voleva aver niente a che fare con essa e con qualunque cosa la riguardasse.
«Bianca» confermò, sfoggiando tutto l’autocontrollo di cui era in possesso.
«Ma è solo degli elfi e tu non lo sei, anche se qualche tratto della specie ti appartiene» mormorò osservandolo, sperando di non essere apparsa troppo sfacciata.
«Un giorno ti racconterò anche questa storia» le disse sogghignando «Sei in forze? Da domani, se accetti il tuo ruolo, si comincia con l’allenamento».
Erano tante informazioni da assimilare in un solo colpo, tante decisioni da affrontare e ancor più le conseguenze che sarebbero dipese dalle sue scelte; eppure il germoglio della verità si stava radicando in lei, diffondendo le sue radici in ogni dove.
«Sono pronta» rispose prima di rendersi davvero conto di ciò che aveva accettato e quindi pentirsene.
Per quello avrebbe avuto sempre il tempo di rinfacciarlo al proprio Maestro.

 

* * *


Il giorno successivo Aras mostrò l’intera casa a Reuel. L’angolo che lui amava chiamare armeria, ben fornito di ogni genere di arma, la cucina, il mobile pieno zeppo di libri elfici su ogni argomento, la dispensa delle erbe, che servivano a formare medicinali. Nonostante non fosse grande, includeva una piccola camera in più, stanza che fu assegnata alla ragazza.
La casa, costruita tra alberi quasi equidistanti l’uno dall’altro, era rialzata, in modo da essere difesa al meglio: per accedervi Aras aveva costruito una specie di ponte levatoio che, in caso di necessità, sigillava la via di ingresso, non permettendo così a ipotetici nemici di raggiungere chi vi fosse all’interno. Sotto la casa era stata adibita una piccola stalla, dove il Maestro d’armi accudiva un paio di cavalli e una pecora. Era stata costruita con abilità e dedizione, si intuiva quanto tempo avesse impiegato per costruirla; gli anni del suo esilio dovevano essere stati lunghi, occupati da esercizi con le armi e la costruzione di quel focolare.
Reuel si rese conto di quanto la casa fosse solo un contorno. La vera arena, il luogo reale dove si svolgevano gli allenamenti, era il bosco tutto attorno a loro. Un luogo ameno e spettrale allo stesso tempo che la ragazza aveva imparato a odiare. Gli insegnamenti del Maestro erano lunghi, complicati e sempre più difficili. Ogni sera nuovi lividi spuntavano sulla sua pelle ambrata, non lasciandone salvo nemmeno un lembo. Quelli freschi a volte prendevano il posto delle botte più vecchie che ancora stentavano a scomparire del tutto. Graffi sulle braccia e sul volto la sfiguravano appena.
Dava tutto quello che poteva nelle esercitazioni, ma non sembrava mai abbastanza per Aras.
Lei attaccava come gli aveva insegnato il suo mentore, e lui intercettava il colpo, parandolo, e atterrandola con una nuova mossa.
«Come fai?». Era la domanda di lei, e lui rispondeva con un colpo di bastone sulla schiena. O sullo stinco. Trovava sempre il modo di zittirla e farla concentrare sul loro lavoro.
Se all’inizio pensava fosse divertente, Reuel con il passare del tempo aveva cambiato idea, accumulando così rabbia inespressa. Lo attaccava come lui le aveva mostrato poco prima e si ritrovava circondata da fiammelle, dato che ad Aras bastava mormorare qualche parola in elfico per farlo apparire dove e come meglio credeva.
«Non è corretto». Sibilò lei tra i denti. Era passato un mese dall’inizio del loro allenamento. Aveva fatto enormi progressi ma non era sufficiente. Aras voleva di più e usava sempre più spesso questi mezzi per metterla in difficoltà.
«Pensi che gli avversari che affronterai lo saranno sempre?». Era retorico, anche lei conosceva bene la risposta negativa.
«Uisce» mormorò il Maestro senza essere udito in modo chiaro dall’allieva, bagnandola da capo a piedi, facendole rovesciare addosso un buon quantitativo d’acqua che sgorgò direttamente dalla sua mano.
«E questo a cosa lo devo?». Era sempre più arrabbiata, faceva fatica a trattenersi ancora.
«Sarebbe dovuto servire a calmare i tuoi bollenti spiriti» rispose pratico.
Ci metteva tutta se stessa e lui si prendeva gioco di lei? La umiliava ogni giorno, le ricordava quanto fosse inferiore nel combattimento e nella strategia a ogni mossa, non era forse abbastanza?
No. Doveva pure ricordarle che lei non aveva il potere di controllare la magia.
Fu la goccia che fece traboccare il vaso.
«Ora basta! Dimmi chi sei, cosa sei e perché riesci a usare la magia» esplose con rabbia, gettando a terra la spada.
«Questa tua escandescenza potrebbe esserti fatale» fece lui pacifico. «Siediti».
Reuel era troppo furibonda per potergli dare ascolto, voleva ribellarsi a quel Maestro che nemmeno si era scelta, così incrociò le braccia al petto e lo sfidò in quel modo, rimanendo in piedi di fronte a lui.
L’affronto non piacque ad Aras, tanto che gli occhi balenarono di un’ira spaventosa.
«Ho detto di sederti» le ordinò perentorio.
Lo sguardo serio e freddo la convinse a seguire le sue parole. Trovò un tronco caduto e ci si sedette sopra, in attesa di sapere cosa il suo Mentore le avrebbe detto e di scoprire cosa ne avrebbe fatto di lei dopo quell’impudenza e la mancanza di rispetto nei suoi confronti.
Aras ponderò bene le parole da usare. Non odiava parlare, ma detestava dover mettersi a nudo davanti ad altri. Era da secoli che non era in compagnia, non era più abituato ad aprirsi; aveva deciso così di non dire nulla oltre al dovuto.
«Sono sì un Maestro d’armi, ma la scelta non è stata mia. La mia razza è stata creata per svolgere questo compito».
«La tua razza?» Reuel, pronta a tutto, non si era certo aspettata di ascoltare una simile rivelazione.
Le avevano insegnato che il mondo in cui viveva era popolato da Elfi, Nani e Umani, che le creature magiche esistevano ma molte erano leggenda e gli Orchi erano una brutta realtà confinata in un mondo non così vicino al loro da rappresentare una vera minaccia. Eppure le parole del suo istruttore l’avevano colta di sorpresa, perché sembrava parlare d’altro.
«Sono un ibrido, o razza reietta, come preferisci. Secondo te perché mi nascondo in un bosco che si dice sia maledetto?!» concluse con quella frase carica di un misto fra sarcasmo e quella che aveva tutta l’aria di essere rabbia.
A Reuel parve tutto un po’ più chiaro. Aveva sentito parlare degli ibridi nelle leggende, ma pensava fossero solo racconti per bambini o storie per non far cadere il popolo nella tentazione di creare nuove specie superiori al tiranno. Si ricordava quanto le razze reiette fossero sussurrate con timore alle orecchie di bambini desiderosi di provare qualche brivido.
«Di preciso tra quali razze?». Domanda lecita, dato che le risposte potevano essere molteplici, anche se i tratti di Aras indirizzavano verso una sola via.
«Metà umano e metà elfo. Come gli elfi ho alcuni tratti distintivi». E per essere più chiaro si indicò gli occhi e le orecchie, leggermente a punta. «So usare la magia bianca. Sono molto longevo ma non immortale, difficile che io muoia di vecchiaia però, è più facile che io possa perire in battaglia a causa di una ferita o qualche veleno. Qualche volta mi ammalo, anche questo potrebbe essermi fatale. Di sicuro però sono più resistente di un umano».
Non era un elfo, non era immortale e i tratti spigolosi erano addolciti dalla mescolanza con il gene umano, ma agli occhi dell’umanità risultava comunque un superuomo. Il pensiero le fece ribollire il sangue nelle vene, tanto da farla sbottare.
«E come è possibile che uno della tua specie non sia in grado di sconfiggere l’Imperatore? Se non ne sei capace tu, perché dovrei essere io la persona in grado di togliergli la vita?». alzò le mani in segno di resa «Me ne tiro fuori»
«Non puoi, è il tuo destino» disse serafico, come se quello non lo toccasse nemmeno un po’. «Il marchio è lì per ricordartelo. Non posso farlo al tuo posto nemmeno volendolo; il mio sangue è per metà elfico, è un sacrilegio uccidere un fratello della stessa razza. Se lo colpissi al cuore morirei al suo posto per aver compiuto un atto così immondo»
«Eppure Droth non si fa tanti problemi a uccidere suoi simili» sputò amara senza nemmeno rimuginare sulle proprie parole.
«Ma lui ha l’animo corrotto, non è più elfo. Forse non ha più nemmeno un’anima. Inoltre usa la Magia Nera. Madre Natura non aveva pensato agli elfi e alle loro leggi con la Magia Nera, quindi l’assassinio magico di questo tipo non è maledetto».
Prima di essere interrotto di nuovo, però, continuò il discorso sospeso da Reuel. Doveva farle capire perché lei fosse la persona indicata a compiere una simile impresa. Per farlo, doveva rivelarle e farle capire cosa era. «Voi Destinati siete speciali, non ti sei accorta che mi somigli più del normale? Abbiamo lo stesso taglio d’occhi, la pelle olivastra... Lo sai anche tu che non è normale per gli umani. E non dirmi che non te ne sei mai accorta»
«Allora sono un ibrido anche io?»
Tutte quelle informazioni la stordivano. Era impossibile che non riuscisse mai a trovare pace.
«No, ma essere Destinata, prescelta, ti porta a essere diversa. Gli elfi nel creare i Destinati avevano concesso loro alcuni privilegi. Vi hanno insegnato la lingua nobile, l’elfico, conferendovi parte dei suoi poteri. Non possedete la Magia Bianca, non siete adatti per controllarla, ma usate il linguaggio da cui questa deriva. Questo vi ha reso più forti, più potenti e più saggi, donandovi poi parte dell’aspetto degli elfi per ricordare ai popoli il vostro essere speciali»
«Ma anche Lerech allora doveva essere un prescelto». E nominare quel nome fu come infilare una lama ghiacciata nel cuore pulsante e caldo che le abitava il petto. «Perché io sì e lui no?».
Aras la guardò sorpreso, non capendo a chi si riferisse.
«Mio fratello. Faceva parte della Guardia Imperiale. Perché non l’ha ucciso subito? Perché voleva uccidere me?».
Le domande erano sempre di più e nonostante ricevesse risposte, le sicurezze le venivano a mancare.
«Perché tuo fratello, dopo, avrebbe fatto la sua stessa fine. Sai che gusto avrebbe provato Droth nel sapere che un Destinato ne uccideva un altro? E che questi due erano fratelli?».
Non ribatté ad alta voce, entrambi conoscevano la risposta.
«Lui ha fatto la fine che doveva toccare a me».
«Questo perché aveva smesso di servirgli. Lerech gli serviva per arrivare a te. Gli è stato utile finché non ti ha raggiunto, poi è diventato una pedina sacrificabile». E da quelle parole si capiva quanto male avesse visto infliggere da quel dittatore senza scrupoli. Sentiva il dolore in cui era intrisa ogni parola.
«Ma io non conosco il linguaggio elfico, né ho motivi per combattere!». C’era così tanta confusione in Reuel che neanche lei sapeva a quale argomento dare la precedenza, facendoli così sovrapporre tutti.
«Sicura, Reuel?». C’era una calma rabbiosa e ragionata in Aras che placava e fomentava il suo animo allo stesso tempo.«Non hai visto morire Lerech davanti ai tuoi occhi? I tuoi genitori non sono stati uccisi dall’Imperatore? Il tuo villaggio non è stato forse distrutto perché ti stavano cercando? Tu stessa non dovevi morire per il volere di un folle? Non vivi sotto una tirannia che sta uccidendo un popolo composto da diverse razze?».
A ogni domanda Reuel sentì le forze aumentare dentro di sé, come se ognuna di quelle fosse stata uno spillo conficcato nella pelle pronto a risvegliarle qualcosa dentro. La forza, il potere elfico si stava smuovendo in lei scosso dalla rabbia, unica tacita risposta a quelle domande. Aras riusciva a percepirne la grandezza attraverso il legame.
«Forse hai più motivi di quel che pensi».
E Reuel li sentiva scorrere dentro di sé quei motivi, acquistare forza, un impeto che li faceva fluire insieme al suo sangue, al potere che sentiva crescere, alla rabbia montata per quelle morti che avevano portato a lei. Era il suo compito e in quel momento stava capendo quanto fosse importante assolverlo.
«Cosa vuoi Reuel? Cosa vuoi per te, per il popolo di Ascott e per le vittime innocenti avvenute per il solo volere di un folle?». Nonostante tutto Aras era un grande oratore, sapeva quali punti toccare e così aveva fatto con lei, riconoscendo i suoi nervi scoperti.
Rispose ancor prima di riuscire a formulare un pensiero di senso compiuto.
«Yanahwé».
Aras sorrise mentre lei si sorprese delle sue stesse parole. Aveva sentito cosa aveva detto, e non corrispondeva al pensiero, eppure sentiva scorrere in corpo una forza antica e dimenticata dai più, nascosta tra le parole di varie leggende.
Aveva detto Yanawhé, si era sentita, ma aveva pensato giustizia.
Riuscì finalmente a mettere in luce i bisbigli della foresta, erano stati loro a guidarla fino ad Aras. Quelle parole in apparenza senza senso ora assumevano un significato. «Mo 'níon», figlia mia. Era stata Madre Natura a prendersi cura di lei in quell’impervio percorso. Le venne da piangere, essere a contatto con la Dea, sapere che la stava proteggendo la fece sentire amata e al sicuro. L’essere cosciente di questo fatto e di essere legata a lei tramite la lingua antica la convinse del proprio Destino: quella era diventata la sua impresa.
«Yanawhé» ripeté in un sussurro convinto.
Giustizia. Voleva soltanto giustizia. La voleva per sé, per il fratello e i genitori, per Chasg, per gli umani e per Ascott. Voleva giustizia anche per Droth, e gliel’avrebbe donata con la morte lei stessa.
Aras accennò un sorriso soddisfatto. Sentiva la sua forza crescere tramite il legame e grazie ai suoi poteri riusciva a vedere l’aura splendente di Reuel. Era felice che fosse proprio lei la Destinata, aveva ottime potenzialità. Ascott era in buone mani.
Si sentiva bene il Maestro d’armi, rinvigorito dalla forza della sua giovane allieva. Era arrivato il suo momento, non aspettava altro da quando era nato.
«Allora alzati e allenati. Fallo per liberare Ascott. Uccidi Droth o muori provandoci». Si posizionò davanti a lei, la mano tesa per aiutarla a rialzarsi. Da quel gesto sarebbe dipeso il futuro di entrambi.
Accettare o meno l’impresa.
Aras annuì sicuro quando la mano di lei si posò sulla sua cercando l’aiuto del proprio Maestro. Doveva rialzarsi, e per farlo aveva bisogno di tutto l’aiuto possibile.

* * *


«Alza la guardia! Di più!» urlava per farsi sentire al di sopra del rumore dei due ferri delle spade che cozzavano. Aras incalzava con colpi precisi e studiati mentre Reuel si difendeva meglio che poteva, anche se non era abbastanza.
I mesi erano passati e il freddo aveva lasciato posto a un clima mite, più consono agli snervanti allenamenti all’aperto che sostenevano. La mitezza dell’aria trasportava le note dolci dei fiori che lì attorno ritornavano alla vita, portando con esse anche parole di conforto. «Mo pháistí, luck maith» sussurrava loro timida Madre Natura. Dopo l’augurio di buona fortuna i fendenti ritrovavano vigore come le convinzioni di chi maneggiava le spade. Ogni goccia di sudore veniva spremuta a dimostrazione dell’impegno messo in ogni affondo, anche se agli occhi del Maestro non sembrava mai abbastanza.
Reuel gettò la spada con fare stizzito. «No, basta! Non è possibile! Sto facendo del mio meglio e non è abbastanza!».
Si era alzata stanca e di malumore, inoltre Aras continuava a provocarla con quei commenti, aveva oltrepassato il proprio punto limite, scoppiando come una bolla di sapone. Si sedette sul tronco che mesi prima tanto le era diventato famigliare con la testa fra le mani.
Era avvilita. Come poteva lei, una ragazzina alle prime esperienze, pensare di poter arrivare a Droth e ucciderlo? Non era certo stupido, se era arrivato al potere e continuava a governare da tanti anni, un motivo ci sarà pur stato. Lei era solo l’ultima arrivata, quella che non aveva niente da perdere e tanti sogni da realizzare. Primo fra tutti rendere giustizia alle persone che amava.
«Io ci rinuncio» disse facendo cadere a terra la spada. Tutto quel tempo l’elsa aveva premuto sul palmo della sua mano destra lasciando un solco pulsante e ben visibile.
«Solo i deboli si arrendono». Aras la raggiunse, sedendosi accanto a lei per cercare un po’ di ristoro. La sentiva inquieta, stava perdendo la speranza e con essa forza; una cosa che influenzava anche lui.
«E cos’altro posso essere io?».Era rabbiosa. «Sono quella arrivata per ultima, che con questa guerra non c’entra nulla e non ho esperienza. Io sono debole».
«Solo se vuoi esserlo» la rimbeccò lui.«È vero, non hai esperienza e come spadaccina non hai uno stile personale, il che non è proprio un pregio. Ma possiamo sfruttarlo a nostro vantaggio. Questa cosa ti rende imprevedibile, mentre tu studiando il tuo avversario potrai capire come attacca e come para. Hai un grande privilegio dalla tua parte, ricordalo».
In effetti il non avere uno stile la rendeva davvero imprevedibile, a quello non aveva pensato. Di sicuro Droth si aspettava un avversario con anni di esperienza, una persona a cui studiare le mosse per poi anticiparle, non di certo una ragazza qualunque dedita da poco alle armi, anche se se la cavava in modo egregio. Aras le aveva ripetuto più volte la stessa cosa: il marchio assegnava l’arma per cui il Destinato era nato. A quei pensieri il nodo al livello del petto si sciolse un po’, lasciando posto a una nuova speranza.
Stava per chiedere altre cose ad Aras, per esempio come poter arrivare a Droth senza essere uccisa – anche se aveva elaborato una sorta di piano a riguardo – o come organizzare Ascott una volta liberato il regno dal dittatore, ma si interruppe di colpo. Prese la testa tra le mani all’altezza delle tempie, urlando di dolore.
Aras, che percepiva in minima parte il male, cercava di aiutarla, invano.
«Fallo smettere!» urlava contorcendosi, il corpo una lastra di marmo preda degli spasmi.
Cercò di scuoterla per richiamare la sua attenzione, ma toccandola successe qualcosa di strano: nella sua mente apparvero dei frammenti di posti, come una visione. La casa – che sapeva essere quella di Reuel – ormai bruciata, il volto incappucciato di un uomo, le sue mani su una fiamma azzurra.
Reuel aveva visto le stesse immagini nella propria testa, anche se il dolore non venne meno. «Chi è? Cosa mi sta facendo?»
«È un cercatore di anime al seguito di Droth. L’Imperatore ha voluto assicurarsi la tua morte e ha fatto cercare la tua anima. Ha scoperto che sei viva» le parlava con calma, dato che aveva smesso di contorcersi e le immagini erano cessate.
Il Cercatore doveva averli individuati, quindi era inutile continuare la ricerca. Aveva interrotto il legame, smettendo di sondare l’anima della ragazza.
Reuel si mise in piedi a fatica, sorretta da un preoccupato Aras. «Cosa mi è successo? Perché ho provato dolore?».
Il Maestro si fece seguire quasi di corsa fino a casa, sembrava avere un’improvvisa fretta. «I Cercatori d’anime sono dei cacciatori di teste a distanza, per scovarti evocano tramite un oggetto della persona una parte di loro per vedere dove è. Se è viva viene loro mostrata una tua immagine, se sei morta, be’, non la trovano. L’immagine di casa tua bruciata… Hanno preso qualcosa da lì, qualche tuo indumento, qualcosa di tuo. Ti ha fatto male perché la tua anima, essendo stata richiamata da un potere oscuro, si è lacerata per qualche secondo».
Parlava concitato mentre sistemava le erbe in una borsa consunta di pelle.«Cosa stai facendo? Perché tutta questa fretta?».
Reuel lo frenò con la propria mano, impedendogli di aggiungere altre ampolle. Il gesto sembrò farlo rinsavire.«Sto preparando tutto il necessario per andarcene. Droth sa che sei qui e che sei viva, non ci metterà molto a metterti qualcuno alle calcagna. Dobbiamo essere pronti a fuggire da un momento all’altro. Prepara una borsa con dentro le cose fondamentali per la tua sopravvivenza».
Una scelta logica, come tutte quelle che Aras aveva preso davanti ai suoi occhi. Annuì e lo abbandonò. Preparò la propria borsa con un ricambio, dei libri sulla cura delle ferite, uno sull’alfabeto elfico, la propria spada e qualche provvista di cibo e acqua. Mentre compiva quelle operazioni si guardò in giro riempiendosi gli occhi di quel posto, le era piaciuto fin da subito ed era riuscita a sentirsi all’istante a casa. In quel luogo aveva imparato tutto su se stessa e le proprie origini, abbandonarlo non sarebbe stato facile anche se il suo permanere era durato solo un paio di mesi.
«Qual è il piano, ora?». Di sicuro l’idea di puntare sull’effetto sorpresa era svanita.
Si trovarono a metà strada, davanti al fuoco. Si sedettero al tavolo, come se dovessero studiare a tavolino le prossime mosse.
«Marciamo verso il castello dell’Imperatore. Non si aspetta una cosa simile, nemmeno che tu lo sfiderai a viso scoperto. Sarà convinto che cercherai un nuovo posto in cui nasconderti. Se asseconda il suo spirito, una volta arrivati a palazzo ti farà scortare da lui in persona, non si perderà l’occasione di vederti morire davanti ai suoi occhi, questa volta».
A Reuel mancò il fiato per la paura davanti a quell’affermazione.
«Sarà in quel momento che tu dovrai attaccare».
Non riusciva a capire come funzionasse la mente di Aras. Aveva elaborato un piano semplice in poco tempo, un’idea che aveva molte possibilità di riuscita. Reuel sapeva che l’avrebbero disarmata per portarla davanti a Droth, ma le guardie avrebbero avuto con loro le proprie armi. Avrebbe dovuto poi rubarne una e conficcarla nel petto del dittatore. Stava imparando anche a ragionare veloce come il suo Maestro, non solo a colpire con la spada.
«E poi improvviso» gli rispose stanca, ricordando d’un tratto il dolore provato poco prima.
«E poi improvvisi. È la tua arma segreta. Oltre a me» fu la prima volta che lo vide sorridere per lei e non per qualcosa che aveva detto o fatto. Fu strano, ma le fece piacere, le sembrò un inconscio gesto di fiducia nei suoi confronti.

* * *


Erano passati undici giorni da quando il Cercatore l’aveva trovata, ma nessuno si era fatto vivo. Gli allenamenti erano così tornati a essere serrati e sfiancanti: il tempo stringeva e Reuel doveva imparare a difendersi dall’esperienza del nemico il meglio possibile.
Fu durante uno scontro di un silenzioso pomeriggio che successe. Aras si interruppe facendo fermare pure lei. Chiuse gli occhi e tese le orecchie, il bosco gli stava parlando.
Una brezza improvvisa e fredda fece arrivare a lui un nuovo odore, acre e putrido – l’odore del tradimento – che gli riempì il naso. Le orecchie si riempirono di fruscii sinistri di foglie spezzate con forza mentre la natura sembrava metterlo in allerta. Dentro di lui l’anima del Bosco Impenetrabile si agitava preoccupata.
Spalancò gli occhi quando un bisbiglio preoccupato giunse alle orecchie di entrambi «Èalaigh». Scappate.
Reuel si stupì nel sentire ancora la voce della Dea che li metteva in guardia. Guardò il proprio Maestro e quando lo vide annuire e correre verso i cavalli lo seguì senza dire una parola. Sellarono i cavalli e salirono al volo, partendo al trotto e mettendo quanta più distanza possibile tra loro e i nemici.
Il vento li sospingeva lontano e il Bosco li aiutava a confondere le loro tracce, tutto li metteva nelle condizioni ideali per fuggire senza essere inseguiti.
«Dove stiamo andando?» domandò Reuel al Maestro, anche se tramite il legame l’adrenalina e la decisione di lui erano già risposte più che chiare.
«Da Droth» rispose chiedendo al cavallo di aumentare la velocità del galoppo.
Il suo Destino era ormai segnato, ma al posto di scappare per la paura gli corse incontro a una velocità folle, era desiderosa di mettere fine a quell’impresa; voleva scoprire se Madre Natura aveva avuto ragione a riporre fiducia in lei e nella sua imprevedibilità.
Sarebbe volata incontro alla morte, ma in quel momento non avrebbe scommesso sulla propria, perché Reuel dalla sua parte aveva una forza che Droth ignorava e sottovalutava. Reuel aveva qualcosa di potente a sospingerla verso la propria meta.
Yanahwé.

- - -

Buonasera! In questo fandom arrivo da profana. Penso che durante la lettura si sia notato, dato che penso di aver smontato i dogmi base dei fantasy.
Lo ammetto, ho solo letto Eragon, e sono a metà della saga del Ciclo dell'Eredità.
Non spolpatemi viva!
Lo so che il finale è aperto e fa pensare a un continuo, ma vi sbagliate. Volevo solo che la shot si aprisse si chiudesse con il tema della fuga. E così è stato.
Reuel, è uno dei nomi di Tolkien, mi piace particolarmente per il suono che evoca, penso si adatti bene al genere.
Le parole in elfico sono gaeliche, l'unica che fa eccezione è proprio Yanawhé, che ho inventato io.
Concludo con i ringraziamenti:
a
Trigger, per il meraviglioso banner.
E soprattutto a
Malia, che non solo mi ha fatto da beta, ma mi ha spronata e aiutata a lavorare un po' sull'autostima. La ringrazio per avermi aperto un po' di più gli occhi.
Per chi volesse contattarmi trova il link al mio gruppo Facebook nella mia pagina autrice.
A presto, Cris.

   
 
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