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Autore: LadyProud    01/08/2012    6 recensioni
«C’erano parecchie cose che mi facevano diventare sentimentale: le scarpe di una donna sotto il letto; una forcina dimenticata sul tavolo da toilette; quel loro modo di dire: “Vado a far pipì”; i nastri per capelli; camminare lungo il boulevard all’1,30 di pomeriggio, due persone, un uomo e una donna, insieme; le lunghe notti passate a bere e a fumare, a parlare; le liti; il pensiero del suicidio; mangiare insieme e star bene; le battute, le risate senza senso; sentire la magia nell’aria, star chiusi insieme in una macchina parcheggiata; parlare dei propri amori finiti alle 3 di notte; sentirsi dire che si russa; sentirla russare; madri, figlie, figli, gatti, cani; a volte la morte a volte il divorzio, ma sempre andare fino in fondo; leggere il giornale da solo in una tavola calda e avere la nausea perchè lei adesso è la moglie di un dentista con un quoziente di intelligenza di 95; gli ippodromi, i parchi, i picnic al parco; perfino le galere; i suoi amici noiosi, i tuoi amici noiosi; il tuo bere, il suo ballare; il suo flirtare, il tuo flirtare; le sue pillole, le scopate clandestine; dormire insieme…»
-Charles Bukowski, Donne
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 4.

 
Amore e morte sono gemelli, nati nello stesso istante, entrambi in lotta per la supremazia, e se la morte pretende tutto, lo stesso fa l'amore. Eppure è più facile morire che amare. La morte mi annienterà, ma per amore sono stato mille volte annientato.
-Jeanette Winterson, Powerbook
 
 
«Io sono pronta», le dissi. «Comincio?»
«Aspetta».
La signora Evans si piazzò alla cattedra, si schiarì la voce e si piegò un po’ in avanti, come a volersi piazzare davanti ad un microfono invisibile.
«Ragazzi», esordì; inutilmente, perché la classe aveva tutta la nostra attenzione già da un pezzo. «Saprete certamente tutti che Cassandra ha passato una brutta esperienza». Dai volti ottusi dei ragazzi di fronte a me si levarono delle risatine e qualche vago cenno di assenso col capo.
«Giusto per mettere a tacere delle voci scomode, Cassandra ha deciso di spiegarvi brevemente quanto le è accaduto». Mi fece cenno di avvicinarmi. «Quindi, ora lascio per una decina di minuti la parola alla vostra compagna. Io sono qua fuori, quindi non urlate, vi sento!».
Detto questo, si diresse verso la porta, si guardò intorno nervosamente ed uscì, lasciandola socchiusa.
Che io avessi deciso di mia spontanea volontà di fare quel discorso, l’aveva deliberatamente inventato lei, tra l’altro. Mi avvicinai alla cattedra, scansando la sedia dei professori, e decisi di rimanere in piedi.
«Sicuramente sapete già quello che è successo», cominciai. Incredibilmente, avevo la piena attenzione dei miei compagni di classe. Non m’interessava il motivo; che mi volessero prendere in giro o altro, l’importante era che stessero ad ascoltare.
«Quindi, direi di fare un bel passo indietro e di raccontare alcune cose inerenti a quanto mi è successo. Lisa, perché non prendi appunti? Non potresti fare un articolo su quanto sto per dire?».
Sgranò gli occhioni azzurri. «Ho il tuo permesso?»
«Ti serve realmente?». Fece un sorrisetto, chiudendo gli occhi.
«No, ma grazie per l’idea». Accese il registratore del cellulare, si munì di carta e penna e cominciò a tamburellare sul tavolo con le lunghe unghie laccate dello stesso rosso delle labbra.
Era ovvio che la ragazza più odiosa della scuola fosse anche la direttrice del giornalino scolastico.
«Allora farò una cosa molto professionale, a questo punto. Voglio farti fare bella figura».
Montai sulla cattedra, di modo che tutta la mia classe potesse vedermi, senza che potessi nascondere nulla, né nell’apparenza, né nelle mie parole. Incrociai le lunghe gambe bianche e mi misi comoda.
«Mi chiamo Cassandra Proud. Ho diciassette anni, e voglio raccontarvi la mia storia. Io ho due genitori etero; proprio così, un maschio ed una femmina. Sin da bambina, sono stata costretta a vedere i miei due genitori etero che si ‘rotolavano sul letto’. Sono cresciuta in questa famiglia, con l’esempio costante dei miei due genitori eterosessuali, così il mio cervello da bambina pensò che quella fosse la normalità».
Cominciarono a sentirsi dei bisbigli, così alzai il tono di voce.
«All’asilo, alle elementari, da brava bambina, cercai sempre il fidanzatino, perché la mia cara mamma eterosessuale mi diceva sempre che le femmine dovevano stare con i maschi. Ad un certo punto, cominciai a capire che forse i miei mi avevano nascosto qualcosa, e non mi avevano detto tutta la verità sulla vita. Dopo dodici anni, durante i quali, ricordiamolo, convissi con due eterosessuali, senza nessun altro termine di paragone, capii che quella mezza verità non mi bastava più, e mi feci una fidanzatina».
Tutti i casi patologici davanti a me sgranarono gli occhi. Seppi all’istante il motivo; non mi ero mai nascosta, ma non avevo mai fatto propriamente coming out con loro.
Veramente era necessario che dicessi parola per parola quel che c’era da dire? Non ci potevano arrivare da soli? Cosa si aspettavano?
Mi sentii come se mi avessero chiesto di firmare un contratto dove dichiaravo apertamente la mia omosessualità.
Erano davvero, davvero fottutamente ottusi, ma decisi di continuare.
«Ovviamente ero confusa, perché i miei due genitori eterosessuali non mi avevano mai spiegato come funzionasse una cosa del genere, e cominciai a chiedermi “Sono sbagliata? Non sono normale? Beh, qualcosa di sbagliato deve esserci, perché i miei due cari genitori eterosessuali, che sono proprio un modello da seguire, non fanno come me e non mi hanno mai parlato di questa situazione”».
«Non sei normale, infatti!»
Ecco, mi sembrava troppo bello per essere vero. Mi stavano ascoltando tutti troppo attentamente, solo per cogliere la giusta occasione di fare qualche battutina di pessimo gusto.
Scesi dalla cattedra e puntai dritta verso il proprietario della voce, Nick.
«Stavo facendo un discorso, e tu mi hai interrotta», dissi, poggiando una mano sul suo banco e l’altra sulla sua sedia e fissandolo negli occhi.
«Non mi piace essere interrotta».
Evidentemente, qualcosa nella mia espressione gli fece capire che non ero esattamente felice di quella sua uscita. Non ero una persona violenta, affatto; ma avevo delle mie particolari fisse, ed una di queste era quella per il rispetto.
«Stavo parlando di un argomento serio, Nick. Non è importante solo per me, è importante e basta. Lo capisci, ottuso essere che non sei altro?»
«Cassie, non infierire». Delia intervenne con un tono di voce molto dolce, cercando di calmarmi, e il suo intervento fu decisivo.
Scoccai un’ultima truce occhiata al mio compagno di classe, dopodiché ripresi la mia postazione.
«Dicevo. Con gli anni, dimenticai questa faccenda; ero troppo imbarazzata, mi sentivo in colpa e non l’avrei mai detto ai miei carissimi genitori. Finsi di essere una persona normale; oramai mi ero convinta di non esserlo, perché mia madre e mio padre continuavano a tacermi qualsiasi altra alternativa alla vita di coppia eterosessuale.
Ora, vi risparmierò i penosi dettagli della mia esistenza diversa, ma vi basti sapere che, nonostante tutto, ora ho capito cosa sono. Anzi, ancora meglio; ho capito cosa voglio. L’ho dovuto capire completamente da sola, senza l’aiuto di nessuno; anzi, i miei modelli di comportamento eterosessuali hanno avuto, nella mia vita, una dubbia utilità, poiché nonostante tutti i loro sforzi, le loro lezioni, le cose non dette, io ho capito chi voglio essere, e l’avrei capito in ogni caso; genitori etero, genitori gay, nessun genitore.»
Mi alzai in piedi.
«Sono lesbica», proclamai finalmente. Cominciai a camminare tra i banchi dei miei compagni.
«Sono gay, sono omosessuale».
Fissai Nick. «Mi chiamano frocia, finocchia, busona…». Abbassò lo sguardo, così mi girai e a turno guardai molti degli elementi presenti in quella stanza, come se stessi affibbiando ad ognuno di loro una definizione.
Come facevano con me.
«Frocia, finocchia, busona, buliccia, ricchiona, lesbica, invertita, leccafighe, mangiaclitoridi, ebrea, comunista, nipotina di Stalin!»
Il tono della mia voce saliva, ogni volta che pronunciavo uno dei tanti nomignoli malvagi che mi sentivo ripetere quotidianamente.
 «E’ per questo, quindi, che l’altra sera sono stata picchiata, e non era neppure la prima volta. Sono stati due ragazzi. Volevano fare sesso con me, perché qualche persona, che evidentemente si diverte in modi molto poco sani, aveva riferito loro la mia omosessualità. Evidentemente, i cliché, i luoghi comuni, i pregiudizi, valgono più per gli etero che per i froci, non trovate? Alzi la mano chi tra voi… uomini, non ha mai desiderato di fare sesso con due lesbiche».
Nessuno alzò la mano.
«Sto aspettando!»
Non avrei mai immaginato di essere in grado di fare una simile piazzata. Mi sentii come doveva essersi sentito Spiderman, dopo che un ragno radioattivo gli aveva donato i suoi poteri. Qualcosa dentro di me era cambiato, dopo gli ultimi avvenimenti. Non volevo più vedere la vita che mi scivolava via dalle mani, non volevo più vivere passivamente come avevo fatto fino a quel momento.
Fino a quel momento, il mio cervello aveva attivato un meccanismo di autodifesa chiamato ignoranza.
L'ignoranza è una benedizione, perché sicuramente porta più in alto della conoscenza. Chiunque abbia un po' di buon senso sa che non ci si potrà mai innalzare sopra se stessi. Sopra tutto, sopra tutti, ma sopra se stessi mai. E' per questo che l'ignoranza è un tristissimo senso di libertà.
L'ignorante ride di chi si sbriga a cogliere i fiori, poiché non ne vede l'utilità; non sa che lui stesso sta tristemente appassendo.
Ho dato un contributo a così tante vite, vite che potevo vedere solo dall'esterno, di cui, nonostante tutto, non facevo parte. Ho cercato un mio posto nell'anima degli altri, e mi ero ritrovata a guardare la mia stessa vita, la mia stessa anima, da spettatrice; non riuscivo più ad entrarci.
Ero rinchiusa in una scatola d’oro. La mia vita, fino a quel momento, era stata buia; per quanti buchi, scavati dalle incertezze, potessi aver creato dentro quella scatola, essa rimaneva pur sempre una prigione, ed io ancora non riuscivo a respirare.
Finalmente mi resi conto di quanto poco avessi fatto nella mia vita; fui felice di accorgermene, e fui ancora più felice di poter rimediare. Avevo ancora tutta una vita, davanti, e d’ora in avanti non mi sarebbe importato più di nulla, se non di crearmi un’esistenza che avesse per scopo la mia realizzazione, la mia felicità, ad ogni costo.
E nel frattempo, nessuno alzò la mano. Mi guardavano, inebetiti.
«Qualcuno chiami la signora Evans», dissi, tornando vicino a Delia. Era evidente che la professoressa non fosse fuori dalla porta. Ogni scusa era buona, per prendersi una pausa…
Tornata al mio posto, Delia mi abbracciò.
«Mi hai fatta commuovere. Sei stata splendida, dovresti frequentare il corso di recitazione che c’è qui a scuola… Lo sapevo che eri una tipa con le palle!»
«Appropriato», risposi, ridendo. «Delia, questo mio corpo è traditore. La freddezza del mio aspetto, i miei pacati modi di fare. Sono una falena, ma pur sempre una farfalla.»




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Buon pomeriggio! Voglio solo ringraziarvi per le recensioni e per il vostro sostegno, siete adorabili. 
Questo capitolo è stato un po' uno sfogo, e la storia raccontata da Cassandra è un po' la mia. Solo che io non sono così coraggiosa, s i g h .
Domani andrò a stare dalla mia ragazza fino a lunedì, quindi per questi giorni non aspettatevi il prossimo capitolo. Mi dispiace tanto, era per avvertirvi!
Un bacio!
   
 
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