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Autore: sawadee    16/02/2007    1 recensioni
ispirato all'orestea di Eschilo, di cui parte è traduzione letterale, scritto e vissuto a due mani da Cassandra ed Agamennone, senza coro.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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ispirato a Eschilo. grazie a chi mi sta tenendo un corso sull'Agamennone, ne ho approfittato per rileggere tutto.

Una goccia di pioggia sulle labbra.
Il rossetto scolora via.
Un bacio e un sogno.
Portati via dal vento.
Come geometrie perse di foglie e frutti, brunite cicale nell’incanto del tramonto rotto solo dal singhiozzare convulso di lacrime prive di senso.
Lenzuolo bagnato di sale, non lo so, sono uscita nuda.
Con le mani vuote, con il cuore di terra e la testa di vento.
Rotolo con il vento e sono un gatto nel perso senso dell’infinito morire.
Partire per un viaggio sapendo che ha senso solo se c’è una casa e quella è andata distrutta nell’incendio notturno.
Bruciano le fiamme nel caminetto, con il sangue.
Accuse lancinanti che mi ripeto lentamente, ad evidenziare un dolore che non voglio far scomparire, dato che non penso di meritarmi di stare bene.

Nel confine.
Che non sospira.
Che non muore.
Che non vive.
Che non esiste.
Nulla contava la condivisione, se non quel pane e sale spiegati e quella torta infornata, con il suo profumo di crema e marmellata di lamponi.
E le fette biscottate al mattino, che rimanevano nel piatto sino al tramonto, ma che erano messe ad aspettarmi tutti i giorni.
La schiena piegata a sistemare la lana del maglione celeste, il viso che non si vede, in un teatro di burattini.
Testa di sangue, cuore di vento.

Pulsare rapido e disperato di adrenalina inutile nel petto, con voce stizzita e rattristata, disperatamente sola più che arrabbiata, come in un canto inutile di notte, una ninna nanna ululata ad una stella che non vuole andare a dormire.
Fredda ed irraggiungibile.
Brilla di ghiaccio, di un fuoco spento negli occhi, acqua che non scorrerà mai verso il suo mare.
Sogno che si desta, come uno specchio spaccato da un incubo infinito, che ne rivela un altro, Calibano che non vuole vedere il proprio volto.
Voce diversa nel diffuso silenzio del mondo che casca delle fette biscottate rimaste nel piatto, con lo strato sottile di marmellata e il pudding accanto, che avevo cucinato per te, come se avessi avuto tempo e mi sembra inutile, dirlo comunque, che di notte sveglia avevo miscelato la dose corretta, con lo zucchero che ti piace, con lo zucchero che ami, con il miele che detesti, con l’uvetta che aborri, ma che in quella miscela, non ti accorgi nemmeno e ti porta a fartelo finire e dici che buono il pudding di Ernie, con la meringa sopra, appena scottata in forno e la marmellata di lamponi, toh, mi ha ceduto la sua marmellata di lamponi, che le piace tanto, è la sua preferita, vuol dire che ci tiene, mangia solo quella in questo periodo, vuol dire che forse…
Forse è meglio se mi faccio uno shampoo, canta la voce nel registratore, questa musica piace a lei, non a me, per me è inutile e sento “Via” con la voce graffiata e vissuta che ha registrato un Paolo Conte bambino cinicamente adulto.
Il suo accappatoio, toh, guarda è azzurro, è proprio sotto il mio e lavo e stiro, il bagno, e poi le sue carte, ma attenzione, che non se ne accorga, perché sennò dice che le impedisco di lavorare, e ancora dorme, dorme nel mio letto.
In realtà sono sveglia, ma faccio finta di nulla, e ti conosco, amore, dopo 2 anni di convivenza e 100 anni di solitudine e 2000 di odio con gli sprazzi di amore che rimangono, in un sospiro andato, e so cosa pensi e tu pure lo sai, che sto scrivendo nella mente miliardi di parole e sento suoni, anche perché, probabilmente, ho messo la musica e sono tornata a letto, in silenzio infinito, mentre ancora dormivi, mentre ancora speravi, che la separazione definitiva fosse, ma invece alternanza, ci fa perdere il viaggio e il ritorno a casa.
Le fette biscottate, magari stamattina mangia, ma tanto lo so, che tornerò a sera, e la troverò al computer e no, non le avrà toccate e quando le chiederò cosa avrà pranzato, mi dirà non ricordo, eterna bugia, perché, in realtà lo sa, che non ha mangiato e nemmeno ha toccato cibo, forse una mela, un qualcosa di simile, e le porto il gelato e sarà tutto quello che mangia, per questo ho litigato, perché ci mettessero la frutta e la granella di nocciola, perché quella la mangia e la marmellata di lamponi, perché quella la mangia, sì che la mangia, la deve mangiare, e le ho preso le fragole, e sopra le ho versato, un poco di cioccolata, che almeno le da energia, perché non capisco, non capisco come fa, perché vive lo stesso, ma si nutre d’aria e ho paura per lei, perché so come va a finire e le direi di no, le urlerei contro.
E poi rientro stasera.
E lei non c’è.
Sono scappata, non potevo pretendere che più mi sopportasse. Madonnina infilzata, Lucia Mondella, lo va a dire ad altri, non certo a me, e non può pensarmi, in un certo modo, insulta la mia, la mia intelligenza, ammesso che ancora, ancora ce ne sia un po’, non lo so quanto è saggio, lasciarsi morire, morire di fame, invece che andare diretti al ponte, ma, forse, in realtà, voglio solo…
Silenzio.
Sta provando a chiamarmi.
Seccatura.
Ma starà bene? E il messaggio è vero o falso?
E piove qua fuori, anche se sono al coperto, e sento il silenzio, nel cuore infinito, ma la testa mi pulsa e non so cosa c’è.
E poi salgo in cucina e prendo un coltello, ne provo la punta e taglio la cioccolata, a quadratini e faccio i biscotti, li faccio tipo abbracci, con la panna morbida e dolce, e la cioccolata dura e amara.
Come lui e come me, e sanno di strano, di strano i biscotti. E li intreccio, e ci metto gli zuccherini, perché sono colorati ed, a volte, un po’ di dolcezza aiuta e, magari, possono, possono coprire il contrasto, mi illudo mi illudo, senza più rossetto, bagnata di pioggia, o forse è acqua della doccia e mi sono vestita, indossato vestiti, senza asciugarmi. Perché è s. Valentino, e io non ci credo, ma magari i santi a volte ci sono.

Boh, insiste per dei biscotti.
E ora rompe a chiamare. E io ho da fare.
Le ho lasciato troppa libertà.
E, forse, dovevo fermarla prima.
Almeno ora.
Non mi sentirei inutile.
Cicale bruciate, nel silenzio del maestrale.
Vorrei andarmene, vedere il mare e lasciarmi andare, andare alla corrente, senza pensare, senza impegni, perché non sono come lei, che se ne sbatte di tutto, fuorché di se stessa e del suo dolore e si uccide e non voglio vedere, non voglio sentire l’agonia completa.
Otototopoi, ototopoi, o Apollo, ritorni da me ora, dopo tanto tempo?
Offro sacrificio, sanità mentale, saluto di notte, ala di corvo, il cibo che non mangio.
Otototopoi ototopoi, o Apollo, di nuovo vieni, a possedermi?
Offro sacrificio per me defunta, visto che non ho l’obolo e ho dato via il delfino, a te sacro Apollo, perché voglio vagare; chi l’ha detto che Dioniso, Dioniso era il monadismo totale e tu no? Chi vi ha divisi, chi non ha capito, che lo stesso eravate, cambiavate solo, colore di mantello e di capelli, vanitosi dal parrucchiere, dall’estetista, da Jean Louis David a farvi i capelli, nient’altro che una tinta, che l’uomo dell’oltre, ha ingannato in silenzio, nel suo abbraccio equino, in città diabolica, in piazza magica, dove capì cosa accadeva, ma le sue puttane un regalo gli fecero,il dono di vera conoscenza che uomo follia prende, puttana anche io, ma senza dono alcuno.

Va beh, meglio lavorare.
Ho i suoi biscotti, con lo zucchero sopra, colorati, intreccio seguito.
Non lo so, è simbolico?
Forse sì, forse no, non importa nulla, non fa mai nulla senza motivo, geometria di luci sui vetri di luna appannata, con uno spruzzo di limone e un poco di whiskey, che brucia la gola e nemmeno mi accorgo, che la sigaretta è accesa, che il panno è perso, che mi sto bagnando, non so nemmeno per quale motivo e mi faccio musica, e mi faccio respiro, e mi faccio incubo, e mi faccio sogno.
Mi ha dato uno schiaffo, è pazza del tutto, o, forse è solo…
Ototopoi, ototopoi, ototopoi, Apollo…
Terra…
Cielo…
Mio distruttore…
Apollo… Dio delle strade!!! Perché mi lasci qui, oltre la speranza di una seconda occasione…
Apollo, Apollo!
Dio delle strade, perché mi fai dimenticare?
Dove sono? Dove mi hai condotta? Io puledra, non volevo venire, Apollo, Apollo, di chi è questa casa?
Ototopoi, ototopoi, Apollo, Apollo!!!

Nel manicomio. Ecco dove dovrebbe andare.
Al manicomio.
E io con lei.
E’ pazza, è pazza, non esiste spiegazione. Cicale friniscono in pieno febbraio, o forse sono solo i denti che battono, il messaggio potrebbe essere vero.
Non lo sarà, la raccatti chi ha strani gusti, per queste menadi, per queste pazze, per queste veggenti, o, forse, solo per queste donne.
Apollo…
Noooooo. Una casa che odia gli dei!
Sangue, sangue ovunque!
Sangue!
Casa piena i morte!
Morte.
Non capisco Apollo, non sono un capretto! Ti prego Apollo, non ora, ti prego!
Vedo l’evidenza. Lo so, ci credo!
Teste tagliate, un umano banchetto, ototopoi Apollo!!!
Vedo, lo vedo, bambini ospiti che urlano, urlano, urlano, mentre li macellano, come capretti, arrostiti, arrostiti, le carni mangiate…
Dai loro padri!

Non mi serve chi vede, non ci servono interpreti, del mio passato, non ci servono profeti, né falsi indovini, nulla c’è oltre quello che vedo, nulla esiste se non, quello che immagino sia. Rimanga con le matte di cui si circonda e il bastone silenzioso sulla dura cervice, per chi ci crede, in quello che vede, in quello che dice, in quello che fa, si spengono i lampioni, brillano le stelle, che scena patetica, che scena pacifica, mi prova a chiamare, aspetta le metto, le metto la musica, tanto sarà, se non le rispondo, cattiva, io lo so, lo conosco, l’animo suo, come è fatta, tanto male, purtroppo, almeno morisse, mi risparmierei dolore e dire che pure, pure era la mia, la mia bambina.
O Dio, cosa ha lei in mente? Quale nuova gara si prepara nella casa! Ototopoi Apollo, ototopoi,
qualcosa di barbarico, qualcosa di mostruoso.
Malvagio.
Oltre ogni amore, oltre ogni rimedio.
E io impazzisco, impazzisco Apollo, e lui non risponde, e io vedo cosa c’è.
E l’aiuto è lontano, nemmeno lui può darlo, ma nel razionalismo, dirmi che Apollo non c’è.
Tikrit!
Tikrit!
Tikrit!
Sono bambini, ototopoi, Apollo, Apollo, ototopoi!

Se non l’ha capito, non la voglio sentire, forse lo spero, che senta la canzone, forse verrà, a bussare in silenzio, ma io non le apro, perché farsi male, male di nuovo, di nuovo dolore, che nel cuore non c’è. E, poi, lo so, vede perché, perché non mangia.
Ototopoi, ototopoi, mi allontano dal banchetto, faccio finta di nulla, ma cade una lacrima e gioco con la rossa cera, sulla tovaglia bordeaux, e so che non è, non è un’allucinazione, ma visione e nemmeno, lui tirarmene fuori, cicale inutili, sbattute nel vento, tirate con forze che nessuno conosce, e mi sembro una vecchia, e sono bambina, e gira il turbine, e faccio finta di nulla, e ora vedo, secoli a venire, e devo fermarmi, perché troppo tempo, troppo tempo ancora… Tutti pensano che veda, perché non mangio, ma in realtà mi nutro, mi nutro di orrore, e nessuno può capire, se non chi è come me.
Clitemnestra e la scure, lo voglio vedere morto, ma più di tutto vivo, con il sorriso, magari, in un letto non mio, ma vivo per favore, non altro orrore, e non passi la porpora, ma l’ha già fatto, e il dio non perdona.
Leone nel cuore, me lo mangia da dentro, con il fegato stretto, nel piccolo pensiero.
E piove e sono nuda, sotto la pioggia, e spero mi portino, mi portino via, dalla biblioteca Aleph, veramente maledetta, dal senso perduto, dal senso andato, dal seno amato, dal pascolo non toccato da ferro, dalle pecore intonse, che non ci sono, se non nel vedere.

Marmellata di lamponi.
Di certo è sua. Con il dito la mangia, mette il dito nel barattolo, nemmeno una bambina, ha quel sorriso, quando tira fuori, tira fuori la marmellata e la mette in bocca e si lecca il dito e lo succhia golosa e ride di gola, ed è carne e sangue, non più vento e spirito divino, non più elfo, ed ha amato un pazzo, ed è impazzita, ed è tornata, e balla sull’abisso, e ci casca dentro e la tirano fuori, in silenzio mortale, in foglie geometriche, in casi banali.
Maciullarmi un braccio.
Una buona idea, almeno smetterei, smetterei di vedere.
Me l’ha data nelle accuse, nell’infinito urlo, con lo schiaffo che segue, all’accusa di follia, che dimostra in pieno, stranezza dei suoi gusti e mia insanità mentale, e personale visione di gialle foglie e conchiglie marine che crescono sugli alberi a giugno inoltrato, con i mitili nella pasta, che non riesco a mangiare, perché sa di colla, perché sa di roba morta, perché mangio cibo morto, e non voglio togliere, la vita alle piante e nemmeno ai semi, ma non posso continuare, a nutrirmi di lamponi e di sogni e di dolci cattiverie e ribrezzo, con strani rapporti, con strani bisogni, con silenzio infinito e pazienza distrutta.
La casa è crollata, nemmeno la colonna, la regge più.

Mi arriva un suo messaggio.
Mi dice di andare, ma non lo farò. Ho deciso, ho chiuso, sta già scrivendo sua assoluta follia, suo abisso interiore, in cui crolla giornalmente, il suo non alzarsi, il suo mai dormire, il suo non mangiare, a volte la guardo e mi chiedo se, in realtà, non è un demone, venuto a distruggere, il mio mondo interiore o se io ho questo compito nei confronti di lei.
Piove dal lampione, chissà se lo vede, la luce offuscata, ma non sono lacrime, è solo la rabbia, che tutto pervade, in silenzio assoluto, in fine di giorno, in fine di lume, degli occhi che ho perso, come quello della ragione, chissà dove sta, vedo le conchiglie, che lei diceva ci sono, ma io non le vedevo, io non sono Cassandra, lei sì, attaccata all’altare della sua infanzia, perduta troppo presto o forse mai avuta, a cui fa sacrifici, le chiome sciolte, le guance arrossate, carne infinita, morbidezza sincera. Follia, follia, delirio insano è questo, ascolto la “Traviata”, dal mio registratore, poi vedo che ha lasciato Eric Satie.
Andate nelle case, dee buone e benefiche, venerabili Eumenidi, lasciatemi in pace Erinni furiose del mio figlio non nato, della mia infanzia perduta, delle foglie cadute, dei morti che non posso e non voglio venerare. Lo so che Eumenidi, Grazie o Graie, descritte come brutte, in realtà invisibili, mi state braccando, come cagne la lepre, perché voglio sfuggirvi, ma ora basta, vi accoglierò. Dei morti custode, dell’anima vate, profeta di segni, che non esistono più, collana di giaietto, notte di incubi, notte di sogno, visione apollinea, perché il dionisismo è la stessa cosa, povero Nietsche, che nulla ha capito, ma Aristofane sì, e sì, ne rideva in silenti cantici, accanto a Socrate, si prendevano in giro, come buoni amici, seduti a banchetto, con zio Platone e papà Lisia, io piccola bimba, da nessuno ricordata, testimone solo, in silenziose ambasce, orecchini di elektron, non ricordo nemmeno, di averne indossati, e torno guerriero, e torno animale, e torno a pulsare e sono solo sangue, grazie Erinni, ora Eumenidi, vi chiedo ancora, un ultimo favore, se potete e se volete, sta a voi decidere, vi sento lontane, vi sento vicine, e so che anche voi, voi, proprio voi, siete qui con me.
Otototopoi Apollo. Forse è il caso di finire.

Forse è il caso di finire.
Luce dal lampione, vorrei vedere se sorride a volte, in modo sincero, o sempre gioca o se ne esce, dal turbine di follia, da cui è ingoiata, da cui è ripresa, di cui si compiace, in cui ama stare. Prima donna di un teatro da lei stessa fondato, da cui non esce, con cortine bordeaux, fatte di carne, di sogni e di perdita, di odio e di vera perdita di sé.

   
 
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