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Autore: Narcis    04/08/2012    3 recensioni
[ Bart Allen (Impulso) - Childhood ]
- Il suo corpo è anormale, la sua crescita incontrollata, la sua mente sull’orlo del degrado.-
Ricorda d’aver sentito queste parole, un bel po’ di tempo prima, uscire dalla bocca del suo caro papà, pronunciate davanti ad una madre piangente e disperata ed una nonna rassegnata, con gli occhi chiusi, che annuì solo una volta, insicura; desiderosa del bene del proprio nipote ma, al contempo, preoccupata della sua sorte amara, sconosciuta, ma che si poteva bene intuire.
E così lo misero lì, in quell’enorme macchina.
- Simulerà la realtà. –
Genere: Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Un cielo morbido.
 
 
Turchese come l’acqua cristallina d’un ruscello di montagna, puntellato da tante, tantissime, infinite nuvolette batuffolose, bianche, apparentemente soffici come il cotone più pregiato.
 
Tutti, penso, da bambini, si sono domandati se le nuvolette a forma di pecorella fossero morbide.
Immaginarsi di alzare le braccia al firmamento, allungare le proprie dita, sfiorare una delle tante, vaporose e candide pecore fluttuanti nel cielo, constatandone la consistenza piacevole e delicata.
 
Se si chiudono gli occhi ed immaginiamo la scena, possiamo sentire sotto i polpastrelli quel formicolio particolare dovuto all’esaltazione dei sensi, in particolare del tatto, protagonista di questo viaggio alla scoperta delle nuvole nel cielo.
Quindi, il cielo può essere morbido.
 
Quando non ci sono pecorelle spumeggianti, il cielo è acquoso.
Ma questa è un’altra storia.
 
 
 
Se ne sta seduto sul prato smeraldino, lui, con le gambe distese davanti al proprio busto.
Il naso per aria, puntato all’alto, voglioso d’andare ancora più su, fino a sfiorare le nuvolette che volteggiano sopra di lui, accompagnate nella danza del tempo dal cavalier vento, che balla con loro un liscio nel palcoscenico celeste.
Gli occhi, grandi, verdi come l’erba fresca, curiosi come quelli di un cucciolo in scoperta del mondo, vagano in ogni angolo del cielo. Sempre se il cielo possa possedere angoli.
 
La sua folta chioma castana viene scossa dal vento, i suoi ciuffi svolazzano liberi, come le spighe dorate in un campo di grano, piegate dalle intemperie ma abbastanza resistenti da rimanere al proprio posto.
 
Un sorriso, debole ma comunque solare, è rivolto a quelle pecorelle apparentemente morbide lassù, che scorrazzano spensierate, modellate dal soffio del vento.
 
 
 
Un vento, purtroppo, inesistente.
 
 
 
Lo sente soffiare, tirare, accarezzargli la pelle, il viso, farlo rabbrividire per il lieve frescolino che trasmette anche in quella calda giornata estiva.
Ma quel vento non esiste.
Non è reale.
 
 
Le pecorelle nel cielo sono finte. Non sono nuvolette candide, generate dal firmamento stesso. Non scaricano pioggia, né sono morbide.
L’erba sotto di lui non è soffice, non è vera. Non si riempie di rugiada al mattino, né appassisce e si secca nelle stagioni più difficili.
Gli alberi che puntano verso l’alto non marciscono. Stanno lì, immobili, perennemente vestiti con le loro foglie, che non cadono mai, né forniscono ossigeno agli esseri viventi.
 
I fiori colorati non perdono i propri petali. Non profumano, né si lamentano del sole che picchia troppo forte, o del vento che sembra voler spezzare i loro steli, ahimé non riuscendoci.
 
Non ci sono temporali, non ci sono tornado, non c’è la grandine, non ci sono incendi estivi.
Non c’è lo smog delle città, non c’è il rumore delle macchine.
Non c’è il chiacchiericcio della gente che cammina per strada, non c’è l’andirivieni delle ragazzine che vanno a spasso per i negozi, non ci sono gli omoni grandi che si provocano a vicenda durante il giorno e la sera vanno a bere tutti insieme.
Non c’è il lupo che mangia l’agnello, non c’è il pesce grande che mangia il pesce piccolo, non c’è il falco che preda il topo per farne la propria cena.
 
Non c’è un bambino di dodici anni seduto nell’erba, a contare le nuvole in cielo, suo unico passatempo.
 
 
Sono tutte uguali, le nuvole.
Una a destra, una a sinistra, una un po’ più indietro, una un po’ più avanti, una più grande, una più piccola. E poi si rincomincia, daccapo, l’una clone dell’altra.
 
 
 
Un universo, quello, che non esiste.
E lui vive lì, in quel mondo ovattato, perfetto, senza alcun pericolo, senza la possibilità di capire cosa è giusto e cosa è sbagliato.
Risiede lì, da solo, con la sola compagnia della madre Meloni, il padre Don e la sua adorata nonnina, Iris, forse l’unica con cui ha un rapporto davvero intenso, più di quanto lo abbia con la propria mamma.
 
 
 


- Il suo corpo è anormale, la sua crescita incontrollata, la sua mente sull’orlo del degrado.-
 


 
 
Ricorda d’aver sentito queste parole, un bel po’ di tempo prima, uscire dalla bocca del suo caro papà, pronunciate davanti ad una madre piangente e disperata ed una nonna rassegnata, con gli occhi chiusi, che annuì solo una volta, insicura; desiderosa del bene del proprio nipote ma, al contempo, preoccupata della sua sorte amara, sconosciuta, ma che si poteva bene intuire.
 
E così lo misero lì, in quell’enorme macchina.
 
- Simulerà la realtà. –
Questo, avevano detto.
Ma lui non sapeva cosa significasse.
 
Come può, un bambino di soli due anni intrappolato tremendamente nel corpo d’un ragazzino di dodici, comprendere la verità così come Iddio ce la manda in terra?
Come può riuscire a fare un confronto tra due mondi paralleli, uno vivo e l’altro finto, senza aver conosciuto il primo?
Come può anche solo provare a giudicare cosa è giusto, cosa è sbagliato, quale è il male e quale è il bene, se mai nella propria vita si è scottato giocando con il fuoco, è inciampato correndo troppo veloce /cosa che oltretutto gli riesce fin troppo bene/ o è stato sgridato per qualcosa che non doveva fare?
 
Cosa vuol dire “metabolismo iper-accelerato”?
Che significa “simulare”?
Che cos’è una “macchina”?
Che cos’è la “realtà”?
 
 
Lui non lo sa.
Non può saperlo.
Non gli è dato conoscere.
 
La sua mente infantile e tutt’altro che precoce al contrario del proprio corpo non è in grado di reggere tutte queste informazioni complicate.
Non può vivere come un bambino normale.
Il tempo passa, ma lui non sa nemmeno cos’è, il tempo.
Di che colore è? Che forma ha? Che sapore ha? Qual è il suo odore?
E’ grande? Piccolo? Pesante? Leggero?

Esisterà o non esisterà?
 
 
Quegli occhi smeraldini, fissi su quel cielo inesistente, sono stracolmi d’una tristezza premurosamente velata, gelosamente custodita, rinchiusa nei meandri della mente, dell’anima, del proprio cuore che funge da lucchetto, che chi lo sa se verrà mai aperto, lasciandone libero l’interno, sconosciuto perfino al piccolo Bart.
Piccolo, grande Bart.
 
 
Lui, dalle innate doti da velocista, che scorrazza libero per i prati.
Corre, salta, delle volte inciampa, ma non si fa male. Si rialza ridendo, correndo alla velocità della luce.
 
Corre, corre, corre, fino all’infinito. Che altro può fare?
Pensa di andare lontano. Gli sembra di poter toccare il cielo con un dito, di superare quelle enormi montagne all’orizzonte, di riuscire ad oltrepassare quel ruscello laggiù infondo, alla sua destra.
 
Corre, a perdifiato, fino a quando non si stanca.
L’aria comincia a mancare, il cuore pompa velocemente il sangue, un po’ per la fatica, un po’ per l’emozione di riuscire ad arrivare laddove non ha mai osato spingersi.
Le gambe tremano, le ginocchia cedono, e lui è costretto a fermarsi, a sdraiarsi in quel prato dannatamente finto, guardando in alto.
Il cielo è dannatamente uguale.
 
L’orizzonte è immobile.
Le montagne non sono più vicine, anzi, paiono più lontane.
Il fiume è fermo, laggiù, in quella valle inesplorata.
La realtà è ferma.
 
Allora lui, recuperate le forze, si rialza, e riprende a correre.
Alla massima potenza, quel piccolo adulto di due anni schizza via come una scheggia.
I suoi occhi diventano lucidi, le sue iridi sembrano fatte dell’acqua cristallina d’un mare incantato, pulito, color acquamarina.
Stringe i denti, si lamenta, ma non smette di correre.
Allunga le braccia, sperando di poter arrivare a que’ colossi quali sono le montagne.
Eppure, quelle non si avvicinano.
Rimangono lì, immobili, in tutta la loro pesantezza, rocciose in modo surreale, modellate nel tempo impercettibile da un vento inesistente.
 
Una realtà incredula, straziante, che non gli permette di correre dove vuole, di provare ciò che desidera.
Di vivere insieme alla sua famiglia, giocando con qualche coetaneo, come un bambino normale.
Ma lui non è “normale”.
Non sa nemmeno cosa sia, la normalità.
Forse si mangia, o forse è tonda; forse è blu, o a pois. Magari avrà anche un profumo, a differenza di tutti questi fiori che puntellano il prato, simulando un malriuscito dipinto che dovrebbe richiamare la natura così come è fatta.
 
 
Si ferma ancora, lui, e rivolge lo sguardo al cielo.
 
Tante macchie bianche passeggiano in fila in quel monotono cielo azzurro, idilliaco; finto come la splendida tela d’un ragno agile, che prima t’ammalia con la sua bellezza, poi ti cattura, rivelando la propria fregatura; e lì sei solo tu, faccia a faccia con la realtà, col pericolo, cercando di superare la prova di vita dettata dalla legge del più forte, di colui che sa muoversi meglio nel mondo.
 
Ma lui, il mondo, non sa nemmeno come si chiama.
E forse, il vero pericolo, è non sapere cosa sia il pericolo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
- Questo bambino... Bart... non può stare qua. E’ troppo pericoloso.
Deve andare via. Ora. -
  
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