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Autore: truemcqueen    04/08/2012    6 recensioni
C’era una sola sensazione che mi faceva più paura delle altre. Il silenzio.
Mi metteva il panico nel petto, completamente persa in quella solitudine non sono mai stata capace di rimanere sola, ho sempre avuto bisogno di presenze e quelle che mi circondavano erano quasi indefinibili. Più morte che vive, forse.
In qualsiasi caso il discorso medio non andava oltre qualche grugnito, al mio cuore in gola e al rumore dei miei piedi che correvano veloci sull'asfalto. Dovevo rimanere sempre all’erta. Ne andava della mia esistenza consapevole, semplicemente una questione molto importante.
Genere: Horror | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Questioni




C’era una sola sensazione che mi faceva più paura delle altre. Il silenzio.
Mi metteva il panico nel petto, completamente persa in quella solitudine non sono mai stata capace di rimanere sola, ho sempre avuto bisogno di presenze e quelle che mi circondavano erano quasi indefinibili. Più morte che vive, forse. In qualsiasi caso il discorso medio non andava oltre qualche grugnito, al mio cuore in gola e al rumore dei miei piedi che correvano veloci sull’asfalto. Dovevo rimanere sempre all’erta. Ne andava della mia esistenza consapevole, semplicemente una questione molto importante.
 
 
 
Il sole non picchiava forte sulla mia nuca come a volermi bruciare la pelle con insistenza, anzi quasi non voleva farsi vedere, rimanendo nascosto tra le nuvole. Non gli sarò stata simpatica come minimo, poiché continuava a sparire e comparire, togliendomi anche la sua compagnia. L’unica calda e familiare.
Sbuffai sotto un cielo disseminato di nuvole piene e pronte, probabilmente, a spremersi come agrumi a merenda. Si percepiva un intenso odore di pioggia imminente, anche se ancora alcuni sprazzi di sole combattevano contro le nuvole insistenti.
Camminavo lungo la via, dalla quale un tempo partiva la traversa di casa, ora vuota, fredda e puzzolente come tutte le altre del paese.
Un grosso fucile sbatacchiava con un leggero ticchettio sulla schiena, lo bloccai facendo scorrere la corda di cuoio che vi aveva applicato e portandomelo tra le mani pronte all’uso.
Mancavano circa duecento o duecentocinquanta - non sono mai stata brava con le approssimazioni - al mio obiettivo della giornata: una bella villa nascosta da una ‘foresta’ di alberi fitti, una cinta rosata parecchio alta e un cancello da scavalcare. Non possedevo un piano dettagliato, ma solo una vaga idea di quel che dovessi fare e come sarebbe andare a finire. Percorsi centocinquanta metri quando un bidone della spazzatura cadde, qualche metro più in là alla mia destra. Una sagoma si mosse decisa ed io cautamente mi acquattai dietro ad una Golf parcheggiata lì da ormai troppo tempo. Sentivo i passi strascicati e pesanti di quel coso. Si stava sicuramente dirigendo verso di me e lo sapevo bene, ma quella era la mia tattica. Più vicino era, meno rumore avrei fatto e non avrei sprecato una pallottola per ucciderne uno. Ascoltavo impaziente ogni singolo rumore e proprio mentre stavo per alzarmi, lo vidi passare tra le due macchine difronte alla Golf, esattamente davanti a me. Arretrai e nascosta ora dal retro, dell’auto ci girai in torno e sempre tenendolo d’occhio notai che si era imbambolato lì in mezzo alle due auto. Ottimo bersaglio, più facile di così. Chi perderebbe tempo? Senza un verso e senza un rumore oltre al colpo subito sulla testa di quel coso, lo scavalcai velocemente guardando guardinga le vicinanze. Corsi con la schiena bassa lungo il resto della via, nascondendomi di tanto in tanto tra le macchine parcheggiate accanto ai marciapiedi, fino al limitare delle abitazioni da dove iniziava la campagna: una distesa di erbacce ormai curate da nessuno.
Camminai lentamente, calibrando ogni passo e tenendo la guarda ben alta. Nei paraggi non si avvistava nulla, ma la prudenza non era mai abbastanza. Già in troppe occasioni avevo rischiato tantissimo per stupidi errori di distrazione, non posso permettermi spesso di perdere la calma e lasciarmi andare al panico. Fredda. Devo rimanere fredda, penso concentrata completamente sulla direzione e su ogni singolo rumore che non sia provocato dal mio movimento.
Camminavo lungo la strada adesso, più spedita. Volevo raggiungere quell’abitazione nascosta tra gli alberi prima della fine della mattinata e aver incontrato solo un essere non era stato poi tanto male quanto uscita mattutina. Avevo percorso la lunghezza di due cambi di pannocchie e avvistavo la casa in lontananza. Era difficile avere una visuale perfetta di quel che poteva avvicinarsi circondata da campi di erbaccia incolta. Potevo affidarmi solo al mio udito e proprio in quei momenti di estrema tensione sembrava abbandonarmi per stupidi rumori di pura invenzione. Accelerai il passo, cercando un’andatura veloce e lenta al tempo stesso, in un certo senso che non attirasse l’attenzione.


Due.
Tre.
Quattro campi.
Me ne mancava ancora uno e sembrava tutto troppo tranquillo. Mi guardai intorno e tirando la manica sinistra della giacca, lessi l’orario dal mio orologio: dieci e venti, sei in orario non ti preoccupare. Alzo lo sguardo velocemente, per paura che anche un attimo possa esser fatale. Volte le spalle alla strada dalla quale sono venuta e proseguo sempre attenta. Manca qualche metro al cancello e non potevo credere che andasse tutto così bene per sempre. Alle mie spalle sento dei rantoli concitati e rumori di passi strascicati in lontananza. Non erano vicinissimi, ma se non mi fossi decisa a fare qualcosa probabilmente lo sarebbe stato di lì a qualche minuto. Mi gettai cautamente nel fosso per l’irrigazione sul lato destro della strada. Mi acquattai tra il foro per l’uscita dell’acqua e un masso di medie dimensioni tutto scuro e sporco.
Un essere umano normale mi vedrebbe individuato in meno di venti secondi ma quei cosi si accorgono solo di quel che desiderano accorgersi, basterebbe un singolo rumore e sarei probabilmente morta. Non pretendevo di rimanere lì e scamparla solo nascondendomi, mi sarebbe bastato ottenere un po’ di tempo e poi sarai partita all’attacco per toglierli di mezzo. Avevo i miei obiettivi per la giornata e non potevo vivere ogni giorno un inferno di paura solo per colpa loro. Mi ero costretta a vivere in uno stato soft di pensieri, poco concentrata sul futuro, più vicina alla giornata. Non avevo aspettative se non quella di rimanere in vita.
Eccoli sono tre, tremendamente malandati e maleodoranti. Anche se tutto in quel paese, forse persino io sapevamo di morte, loro puzzavamo molto più del normale come se la loro morte non si arrestasse mai, ma nemmeno la loro vita.
Volevano carne di essere viventi, senza distinzione di razze.
Volevano stringerti tra le loro mani o affondare i loro putridi denti nella tua pelle.
Avevo visto morire tre o quattro ragazzi in quel modo. Missioni andate male e non c’era stato nulla da fare per loro. Nulla per nessuno. Come quelli che si paravano davanti ai miei occhi, strascicavano le proprie membra come se non fosse importante reggersi in piedi, ma solo andare in cerca di noi poveri cristi sopravvissuti. Non mi mossi di un millimetro e attesi che mi superassero di almeno sei metri verso la direzione che dovevo prendere. Acchiappai un sasso dal fondo del fosso senza far rumore e uscì lentamente dal mio nascondiglio alle spalle di quei tre cosi. Estrassi da un fodero all’interno della giacca il coltello da cucina che usava mio padre per tagliare la carne, l’unica arma tagliente decente che avessi osato cercare. Mi avvicinai a quella più vicina una ragazza sui vent’anni, non molto più grande di me, portava addosso a un orrido pigiama imbrattato di sangue e senza un braccio continuava a camminare nel verso opposto. Corsi verso di lei e piantai velocemente il coltello dritto nella testa, cosicché non avesse tempo di voltarsi e grugnire abbastanza forte da far voltare gli altri. Ovviamente però il sonoro crack del suo cranio e il tonfo sull’asfalto distrasse entrambi da chissà quale obiettivo e puntarono nella mia direzione. Uno era il parroco con ancora addosso i pantaloni da completo, la camicia bianca e le eleganti scarpe, ben vestito per chissà quale evento. Gli mancavano metà della nuca e forse qualche altra parte della schiena, perché quella era completamente lacera e sporca del suo stesso sangue. Portava ancora al collo il crocefisso di legno che gli avevo visto indossare le poche volte che mi fossi arrischiata a girare intorno alla chiesa nei giorni più felici – non sono mai stata un tipo da chiesa – e pensai che non gli fosse servito avere fede. Lui come tutti gli altri erano morti dentro di quel male che nessuno sapeva spiegare. Non ci pensai su troppo e strappai dal cranio della ragazza il coltello, afferrai il fucile e usandolo come scudo abbassai le braccia del prete per evitare che mi afferrassero e lo trafissi dritto in fronte. Sbam! E con un tonfo fu atterra. Tolsi il coltello dalla sua fronte e scansai per un pelo l’altro essere che era arrivato troppo vicino. Pescai dalla tasta dei jeans il sasso e spostandomi verso destra glielo tirai dritto nell’occhio senza fargli un bel niente, ma mi sarebbe bastato per distrarlo. Iniziai a correre a più non posso su per la via e arrivata difronte al cancello della villa, mi misi a scavalcarlo. In un giorno normale di molto tempo fa sarebbe già partito l’allarme, ma non c’era più elettricità per nessuno, quindi non mi preoccupai di una visita da parte della polizia da lì a pochi minuti. Misi un piede tra il ferro battuto intrecciato e in pochi minuti fui in cima al cancello. Osservai la scena sotto di me e quel coso era a tre metri. Per un soffio mi ero salvata la vita da sola o forse stavo diventando abile a distruggere chi assaporava la mia carne fresca nell’aria. Voltandomi verso l’interno del parco, misi qualche piede tra le inferriate poi lanciandomi sulla ghiaia del vialetto, persi l’equilibro e caddi a terra stanca ma viva.

L’essere mi osservava dal cancello, protendendo le braccia tra le inferriate e cercando di far passere il suo corpo dall’altra parte.
Erano senza ragione.
Non umani.
No, erano il prodotto dell’essenza umana.
Non buoni.
Erano tutti cattivi o vittime?
Non mi piacevano, ma ero consapevole che in un certo senso non se l’erano andate a cercare. Gli era solo capitato, come a tutti quelli che conoscevo. Non era rimasto nessuno. Chissà dove sono, pensai continuando a fissare quelle lunghe dita bianche e sporche protese verso di me. Apriva la bocca contorcendola e schiacciando anche il viso tra le sbarre del cancello senza riuscire a mordermi ovviamente.
Mi alzai goffamente in piedi avvicinandomi quel tanto che bastava a non farmi toccare guardai quell’essere dritto negli occhi e notai come anch’egli mi guardasse con uno spasmodico desiderio di avermi, di potermi mangiare, masticare, gustare. I suoi occhi erano privi di qualsiasi altra emozione. Ero certa che non provasse dolore per le ferite che riportava sul corpo e niente sembrava oscurare i suoi pensieri da quell’unica ossessione.
Noi. Noi vivi.
Girai sui tacchi, dimenticandomi di tutto, tenni a portata di mano il fucile e il coltello, proseguendo per il largo e lungo vialetto.









Ho questa storia intesta da quando ho quattordici/quindicianni e ora ne ho quasi diciotto, quindi è una roba vissuta nella mia testa. Ho cambiato tante volte tutta la vicenda, le idee sono mutate spesso e l'avevo già proposta sotto un'altra forma, qui su efp. Comunque questa è la nuova versione, quella che mi convince più di tutte negli ultimi 3/4 anni, spero possa essere di vostro gradimento che vogliate leggere un continuo, perché per come me la sono immaginata io è molto molto molto lunga :)
Recensite, m'interessa ogni parere!

- Ylenia
   
 
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