La prima
ragazza di Elek fu una giovane pianista.
Elek era poco
più che un bambino, a quei tempi. La sua famiglia si era
appena trasferita in Austria, lasciandosi alle spalle la confortante
familiarità dell’Ungheria.
Per lavoro, diceva
suo padre, con quella stanchezza negli occhi verdi che lui non poteva
notare, non ancora. Per
farmi soffrire, pensava Elek, imbronciato, senza dire
niente.
A lui
l’Austria non piaceva. Non gli piaceva il suono duro e secco
del tedesco nelle sue orecchie, non gli piaceva la grigia cittadina in
cui si erano trasferiti, non gli piaceva la fredda condiscendenza dei
signori Eldestein, per i quali suo padre lavorava.
Il suo unico
divertimento erano le volte in cui usciva con la figlia dei vicini: una
ragazzina di Berlino venuta in vacanza in quella zona, che talvolta lo
incontrava scappando dai suoi genitori e dalla
responsabilità di dover badare alla sua sorellina. Era
minuta e agile, mascolina ed egocentrica, pallida ed esile ma in grado
di dargli pugni più forti di qualsiasi maschio. Elek avrebbe
potuto considerarla un’amica, se solo non avessero passato
pomeriggi interi a litigare e a insultarsi a vicenda: lei lo prendeva
in giro per il suo tedesco stentato, lui per l’aspetto
malaticcio che le conferivano l’incarnato pallido e i capelli
così chiari da sembrare bianchi.
Un giorno,
mentre giocavano a rincorrersi nel parco di Villa Eldestein, Elek
sentì della musica provenire da una finestra aperta. Era il
suono di un pianoforte, si rese conto, ed era così dolce e
armonioso, come il cinguettare di un uccellino, o il tintinnante
zampillare di gocce d’acqua sulla pietra ...
Si
fermò bruscamente, e quando la sua amica riuscì a
prenderlo quasi non si accorse della mano che si abbatté
sulla sua schiena. Incuriosito e affascinato, si diresse verso la
finestra, e osò sbirciare all’interno.
Ciò
che vide lo lasciò senza fiato.
Aveva
già incontrato Rodelind, ovviamente: era la figlia di quelli
snob degli Eldestein, e aveva la loro stessa aria rigida e composta,
glaciale. Incontrarla era stato inevitabile, anche se non si erano mai
parlati, al di là di qualche saluto distratto.
Ma non
l’aveva mai vista
così, con i boccoli scuri che le ricadevano
sciolti e di certo
così morbidi
sulle spalle e quell’espressione concentrata e
allo stesso tempo incredibilmente serena sul viso dai lineamenti
delicati. Anche lei aveva una carnagione bianca come latte, ma
più che malata questo la faceva apparire elegante ... bella,
si sorprese a pensare il ragazzo. Dietro le lenti degli occhiali, i
suoi occhi non erano più freddi e distanti come Elek si era
abituato a vederli: brillavano, come due ardenti stelle blu. E il loro
blu era il blu più blu del mondo, scuro e intenso, quasi
viola.
Elek scosse la
testa. Quando si voltò scoprì che la sua amica se
ne stava andando.
Quando le
gridò di tornare indietro, lei gli diede
dell’idiota, ma Elek non si arrabbiò come al
solito. E non lo fece nemmeno quando lei cominciò a venire a
trovarlo sempre più di rado, lasciandogli tempo di conoscere
Rodelind, di diventare suo amico.
Mentì
e disse di essere un amante della musica classica per avvicinarla, e fu
proprio nella stanza dove teneva il suo pianoforte che un giorno Elek
si fece coraggio e la baciò.
La loro storia
durò per anni, anche quando il padre di Elek
trovò un nuovo datore di lavoro, e alla fine persino i
genitori di Rodelind dovettero accettarla.
Questo non
impediva alla signora Eldestein di chiamarlo caro con quella
sua voce forzatamente dolce e di cucinare piatti che Elek odiava ogni
volta che si fermava a cena, ma alla fine erano giunti ad una tregua.
Il signor Eldestein, invece, aveva semplicemente scosso la testa e gli
aveva debolmente stretto la mano: un giorno Elek ipotizzò
che lasciasse la guerra alla sua battagliera consorte, e Rodelind
annuì silenziosamente, con aria grave e melodrammatica.
Scoppiarono a ridere, e lui la baciò: le sue labbra erano
sottili e morbide, e sapevano di burrocacao.
Non era mai
Rodelind a prendere l’iniziativa e baciarlo per prima, ma ad
Elek non importava.
La prima e
unica volta che Rodelind lo baciò, erano nella sua camera da
letto, e i genitori di Elek quella sera erano usciti: sua madre lo
aveva salutato con un bacio sulla guancia e un’espressione
sospettosa negli occhi chiari e nella bocca stirata in una linea severa
e preoccupata, suo padre con un sopracciglio alzato e un sorriso
comprensivo e divertito.
Le labbra di
Rodelind erano morbide, premute contro le sue con una forza improvvisa
e frettolosa. E quando cominciarono a baciarsi davvero, fu qualcosa di
intenso, furioso e pieno di bisogno. Le mani di Rodelind corsero a
slacciare i bottoni della sua camicia, goffe e tremanti e
così assurdamente diverse da quelle che Elek aveva visto
accarezzare il pianoforte con cura e precisione, ogni gesto algido e
misurato, come se quello strumento fosse l’unica cosa che
amava davvero al mondo.
Quando si
scostarono per riprendere fiato, Elek vide che cercava di trattenere le
lacrime. E l’unico pensiero che riuscì a formarsi
nella sua mente, in quel momento, fu
questa non è la mia Rodelind.
Prese le mani
della sua ragazza tra le sue, in una stretta salda e gentile,
finché lei non smise di piangere. Dopo, la guardò
negli occhi, e le chiese in un sussurro se voleva che la
riaccompagnasse a casa.
Rodelind non
sostenne il suo sguardo, e gli regalò un sorriso luminoso e
incerto.
– No
– rispose, la voce tremante, prendendolo di nuovo per mano.
L’incanto
durò fino a quando furono entrambi diciassettenni, tra
sonate e baci e risate alle spalle ossute della temibile Generalessa
Eldestein, come amava chiamarla Elek.
E poi,
all’improvviso, tutto cambiò grazie a una
discussione nella stanza del pianoforte, perché nella loro
relazione tutte le cose importanti accadevano lì.
Rodelind era
seduta davanti al grande pianoforte a coda, nero e lucido come se non
avesse mai visto un solo granello di polvere, ed evitava il suo
sguardo, muovendo con piccoli e svelti gesti nervosi le mani raccolte
in grembo, lisciando pieghe invisibili sul sobrio e impeccabile abito
viola. Lo sguardo di quegli occhi tremendamente blu vagava rapido per
la stanza, senza mai posarsi nemmeno per un secondo su di lui.
La rivelazione
arrivò in un sussurro, un balbettio imbarazzato che le
imporporò le guance e che per un attimo Elek credette di
aver soltanto immaginato: - Elek, io credo di ... di ... di
non essere più eterosessuale, ecco -.
C’erano
molte domande nella mente incredula di Elek, ora. Come fai a non essere più
etero?, per
esempio. Stai
scherzando, vero?, subito dopo. E, infine, e me lo dici solo adesso?
E poi,
più importante e dolorosa di tutte: Perché non me
l’hai mai
detto? Non ti fidavi di me?
Il ragazzo non
riuscì a dire niente, però, osservando sconvolto
le guance arrossate di Rodelind rigate da lacrime silenziose.
Adesso avevano
quasi diciotto anni, erano due studenti della prestigiosa World Academy
e i genitori di Rodelind non avevano ancora ricominciato a parlarle in
seguito al suo imbarazzato e timoroso coming out. Lei sapeva che lo
avrebbero fatto, ed era questa la ragione per cui quel giorno aveva
pianto, il motivo per cui aveva tentato di innamorarsi di lui e aveva
aspettato tanto ad ammettere la verità: sapeva che in molti
a questo mondo hanno troppi pregiudizi per riuscire ad accettare chi
è diverso da loro.
Elek non ne
aveva, perché la sua famiglia era molto più
aperta riguardo a certe tematiche, e perché ora erano in un
mondo completamente nuovo, che aspettava solamente che loro venissero ad
esplorarlo. E voleva bene a Rodelind, benché ormai non la
amasse più: era la spalla sulla quale la ragazza poteva
piangere, l’amico che non l’avrebbe mai
abbandonata. A volte Rodelind si sentiva in colpa per questo, Elek lo
sapeva.
Allora lui
scherzava, cercava di farla sorridere ... e certe volte – per
quanto lei si imbarazzasse e si lamentasse dopo – le
organizzava anche degli appuntamenti. E ogni tanto le chiedeva se
poteva restare a guardare, cosa che gli faceva guadagnare un meritato
colpo di spartito in testa o uno sguardo in grado di gelare il sangue
nelle vene a chiunque altro.
Già,
Elek aveva scoperto, documentandosi sulla comunità LGBTQ
insieme alla sua amica, che le lesbiche gli piacevano. Molto.
Soprattutto in certe doujinshi che un suo compagno proveniente da
Taiwan era sempre felice di prestargli.
Doujinshi
piene di donne poco vestite, perché Elek era un ragazzo
affidabile e comprensivo ma pur sempre un ragazzo.
Conobbe Gilda
subito dopo aver lasciato la sua riluttante migliore amica tra le
braccia di Anita, una ragazza spagnola dall’aria un
po’ svanita, ad una festa in un pub appena fuori dal Campus.
Gilda era alta
e snella, aveva un incarnato niveo e corti capelli così
biondi da sembrare d’argento. Al collo le tintinnava una
catenina da cui pendeva un ciondolo a forma di croce, proprio sopra la
provocante scollatura del vestito rosso fuoco.
Lo
invitò a ballare con un sorriso da belva, selvatica e
indomabile, e chissà come alla fine della serata si
ritrovarono nella sua stanza. Gilda continuò a sorridere in
quel modo attraente e leggermente inquietante, ed Elek pensò
che fosse ubriaca, ma non trovò la forza di fermarsi, o di
fermarla. Forse era un po’ ubriaco anche lui, quella sera.
Alla fine,
qualche giorno dopo, decisero anche di iniziare uscire insieme: Elek in
seguito avrebbe potuto giurare che era stato in quel preciso istante
che avevano cominciato a litigare, che Gilda aveva deciso di usare
tutti i suoi soldi per comprare scarpe e vestiti e tutto ciò
che in un attimo si era messa in testa di desiderare, che lei aveva
cominciato a tradirlo con qualsiasi ragazzo catturasse la sua
attenzione. Nel mentre, quel sorriso da lupo non lasciava mai le sue
labbra rosse come sangue, e i suoi occhi brillavano di una luce segreta che
Elek non riusciva mai a comprendere, che era di sfida e sadico
compiacimento e allo stesso tempo era qualcosa di completamente
diverso.
Continuarono
così per giorni, tra la silenziosa disapprovazione di
Rodelind e di Lutgard, la sorella minore di Gilda. Poi, Elek
ricordò finalmente il nome della ragazzina con cui una volta
giocava davanti a Villa Eldestein.
A quel punto
Gilda, soddisfatta della sua piccola vendetta, lo lasciò.
La storia di
Rodelind con la spagnola non durò molto, e non durarono
nemmeno quelle che Elek ebbe in quell’anno e in quello
successivo.
Per poco tempo
ci fu Françoise dai modi affascinanti e il bisogno
irresistibile di tradire almeno una volta a settimana – anche
se ad Elek non importava più di tanto, perché la
conosceva e sapeva che tra di loro non c’era niente di serio.
Ci fu Kiko, che gli fece conoscere anche il mondo dello yaoi con un
sorriso pudico e un adorabile rossore sulle guance. E ci furono Letizia
che in realtà amava Lutgard – giusto per non
essere ripetitivi -, Adrienne che rendeva onore alla cara vecchia
Olanda con il suo libertinismo e lo gli propose per la prima volta di
guardare mentre era con un’altra ragazza, Felicia con il suo
seno piatto, l’aspetto da ragazzino un po’
effemminato e la passione per il rosa e i pony.
Una volta o
due, ci furono anche il ragazzo di Taiwan ed un belga che continuava ad
offrirgli cioccolatini con un sorriso affabile e luminoso. Elek aveva
vedute molto aperte,
anche se gli ci era voluto un po’ di tempo per realizzarlo, e
per fortuna i suoi genitori non erano il signore e la Generalessa
Eldestein.
Alla fine,
infatti, ci fu uno scontroso ragazzo bielorusso.
All’interno
della scuola, si diceva che Anatol Arlovsky fosse un lanciatore di
coltelli professionista. Si diceva che non avesse mai parlato a nessuno
che non facesse parte della sua famiglia adottiva. Si diceva che fosse
follemente innamorato della sua sorellastra, una russa dal petto
prosperoso e il sorriso dolce a tal punto da risultare terrificante.
Quel giorno,
Elek non si fidò della dicerie arrivate alle sue orecchie,
ma dei suoi occhi. E vide un ragazzo cupo, silenzioso, solo.
Stava seduto
su una panchina sotto un albero, nel parco, e leggeva. Quando Elek gli
si sedette accanto, si limitò a lanciargli uno sguardo
minaccioso da sopra il suo libro: i suoi occhi erano di un azzurro
molto chiaro, freddi e duri, e lui si ritrovò a fissarli per
qualche istante. Gli sorrise amichevolmente e decise che andava bene
così: non gli aveva scagliato contro un coltello, almeno.
Provò ad attaccare bottone, e in tutta risposta
l’altro abbassò lo sguardo e tornò ad
immergersi tra le pagine del suo libro.
Ma, con
sollievo e soddisfazione di Elek, non provò a tagliarlo in
due nemmeno quando la scena cominciò a ripetersi
regolarmente: una volta, due volte, tre volte, quattro, cinque ...
Quando Anatol
gli rivolse finalmente la parola – È l’ottava
volta che lo fai. Che vuoi?
– Elek accolse l’evento e il tono sereno e
rassegnato dell’altro ragazzo con un silenzioso sorriso di
trionfo.
Fu da quelle
due semplici e brusche frasi, infatti, che tutto ebbe veramente
inizio.
Note finali:
Sì,
una storia AU e genderbend
è un’idea abbastanza insensata, e può
facilmente sfociare nell’OOC più totale.
Sì, lo show
don’t tell è andato in vacanza e non
è più tornato. Lo so. Questa storia è
un po’ un esperimento e, sinceramente, tutto sommato mi piace
così, con tutti i suoi innegabili difetti.
Riguardo ai
nomi: la maggior parte (Elek, Rodelind, Anita ...) sono stati scelti
per la loro assonanza a quelli originali. Letizia per Fem!Italia
è stato scelto perché mi sembrava un buon
richiamo al significato di Feliciano.
Per Anatol,
invece, entra in gioco il mio senso dell’umorismo contorto e
nerd. In Guerra e
Pace di
Tolstoj, i due figli del principe Vasilij sono Ippolite e
Anatol’: “un imbecille tranquillo” e
“un imbecille irrequieto”. A parte le mie immagini
mentali di Fem!Russia che descrive i suoi fratelli in questo modo,
Anatol’ è il minore e (come viene detto fin dal
prologo) il meno raccomandabile dei due. Loro sorella è la
bellissima quanto immorale Hélène, che secondo
certi pettegolezzi avrebbe una relazione con Anatol’:
l’autore non smentisce né conferma mai apertamente
queste dicerie ma l’incesto è, piuttosto,
intuibile da alcuni particolari.
Il titolo della storia
è un'allusione alla fantastica serie How I Met Your Mother,
ma credo che questo fosse molto più chiaro.
E ora la
finisco, perché le note stanno diventando più
lunghe della storia. Spero che la mia fanfiction vi sia piaciuta, o
che, se non altro, siate riusciti ad arrivare fin qui!