I. Lo Specializzando
Quel
periodo dell’anno in cui tutti sembrano più
sorridenti.
Quel periodo dell’anno in cui le lucine rosse e gialle ti
illuminano la faccia ad intermittenza, formando ombre grottesche sui
solchi tra gli occhi e il naso.
Quel periodo dell’anno in cui i centri commerciali sono presi
d’assalto, e vedi gente imbacuccata nei loro guanti di lana
spessi, nelle loro sciarpe rosse e bianche, nei berrettini ridicoli con
tanto di sonaglino.
Ecco, il Natale.
Io lo adoro. Ma non per i motivi che pensate voi.
Non per i regali, le luci, le risate e le canzoncine da chiesa stile
gospel. Non per gli auguri, la neve, le riunioni di famiglia, il
tacchino grosso come tuo zio Earl quando giova nella squadra di rugby
provinciale o il dessert che sfamerebbe una regione intera
dell’Africa.
Oh, no.
Io lo adoro perché durante il periodo di Natale il numero di
incidenti triplica, soprattutto quelli casalinghi. Lo adoro
perché il Natale è la cuccagna di ogni
specializzando, è la calza piena di regali di ogni giovane
medico volenteroso e diligente. Il Natale è il regalo
migliore che si potrebbe fare ad uno studente di medicina.
E’ una beffa. E’ la presa per il culo
più riuscita – e tutt’ora sottovalutata
– di sempre. Signorinette che finiscono al pronto soccorso
con un dito mozzato mentre tagliano l tacchino. Finti padri di famiglia
fulminati mentre attaccano le lucine dell’albero. Bambini
frignanti che scivolano su oggetti natalizi non meglio identificati.
Tutte cavie che finiscono nelle poco esperte grinfie degli
specializzandi. Sono i topi da laboratorio su cui si fa pratica. Sono i
pazienti migliori perché hanno un’unica
priorità: uscire prima possibile.
Certo
caro, prova pure a ricucirmi con quel metodo che ti hanno appena
insegnato, basta che per le cinque possa andare dal parrucchiere, ho la
cena di famiglia domani.
Così gli si può fare di tutto, a patto di fare in
fretta.
Non
mi importa se sarà un’operazione altamente
invasiva, basta che per Natale riesca a cantare So this is Christmas.
Potete anche ridere, ma questa gente esiste. Guardatevi allo specchio.
E insomma è Natale, e io sto qua, al bancone del pronto
soccorso, con il fuoco sotto al culo, pronto a scattare, in attesa di
qualche nuovo pezzo di carne fresca su cui migliorarmi. Voglio vedere
gente morente, e resuscitarla come il migliore dei Gesù. In
fin dei conti, è un po’ come se fosse il mio
compleanno. Anche io do la vita, in un certo senso.
«Dovrei
essere stesa a letto, con il mio costume da mamma Natale.» La
voce di Cassy, una delle specializzande di turno con me questa notte,
è nasale e lamentosa. Non mi è mai piaciuta,
Cassy. Non oso immaginare che tunnel abbia scavato tra le gambe.
«Dovrei essere a letto con quel costume striminzito
aspettando che Nathan mi sbatta come la peggiore delle
puttane.» Con la lima che sfrega veloce avanti e indietro
contro il rosa schocking dell’unghia, lo stesso colore della
BigBabbol che sta masticando da questa mattina.
Cassy fa una bolla grande quanto la sua faccia super truccata, poi con
un tack scoppia a mezz’aria e tutta la poltiglia rosa torna
tra le sue grosse labbra rosse.
Cassy è qui perché il gioco della dottoressa e
del paziente è il suo preferito. Dice che la eccita come non
mai. Indossa il camicie quando è a letto con il fidanzato,
non è un mistero. E’ per questo che il camicie
è pieno di macchie biancastre che lei di proposito non lava
via.
Dice che sono del suo ragazzo, Nathan. Dice. Io dico che sono dei
pazienti che è riuscita a non ammazzare.
Le
porte anti-panico si spalancano di colpo. Una barella zuppa di sangue
entra sferragliando con un tizio a bordo, pronto a prendere il decollo
per l’aldilà. Nora lo accompagna, parlando fitto
fitto con l’autista dell’ambulanza,
dall’altro lato della barella.
Nora è una donna uomo. Ha le tette e una bella chioma bruna,
ma ha un temperamento saldo e una vociona da uomo che ti fa strizzare
le palle dalla paura, quando urla guardandoti dritto negli occhi.
Nora è la migliore del corso. E’ il responsabile
di tutti gli specializzandi, ha eseguito più interventi lei
di tutti noi altri messi assieme. Nora ha due coglioni grandi quanto
l’intero ospedale.
«Maschio, 48 anni. Ha ingerito un set intero di lampadine
elettriche ad intermittenza. Ostruzione dell’apparato
digerente e respiratorio, arresto cardiaco in corso.» Elenca,
fredda e professionale, mentre ferma la barella in un angolo del pronto
soccorso. Gli attacca un po’ di fili, gli rovescia il capo
all’indietro, scoprendogli bene il collo gonfio e violaceo.
Il tizio strabuzza gli occhi e geme qualcosa, schiumando dalle labbra
una bavetta che gli cola sul mento.
La macchina emette un paio di bip
bip, poi un biiiiiiiiiiiiiiip prolungato,
acuto e fastidioso. Noi restiamo a guardare impassibili.
«Ora del decesso: 20:48. Chris, sulla cartella specifica che
è stato un suicidio, per i servizi sociali e le loro
statistiche, sai…» La voce le si addolcisce appena
quando alza lo sguardo e incontra gli occhioni da cerbiatto di
Christopher, il tizio che se ne sta sempre seduto dietro al bancone a
digitare certificati di morte o vita.
Lui ricambia il sorriso da strizza cuore e annuisce. Quei due non hanno
mai scopato. Se avessero scopato Nora lo guarderebbe come una leonessa,
come guarda qualsiasi barella che entra dalle porte del pronto
soccorso. E lui quanto meno si toglierebbe quell’aria da
animaletto spaurito e tirerebbe fuori il cazzo dai pantaloni. Scopare
cambia i termini del rapporto. E’ comico che proprio questi
due animali disadattati si siano trovati, nella giungla della vita. Un
leone e un cerbiatto. I ruoli invertiti a letto funzionano un sacco, a
detta di Cassy.
Mi
appoggio con un gomito al bancone di plastica grigia. La specie di
camicie blu enorme mi fa sembrare un operaio della latteria di paese.
Mio padre inorridirebbe vedendomi così.
L’ultimo Natale l’ho passato in famiglia, con lui
che cercava di convincermi a intraprendere la carriera di avvocato come
mio fratello e mamma che singhiozzava in silenzio al bordo del tavolo.
«Un paio d’anni al college, poi Steven ti
troverà un posto nella sua agenzia.» Mi spiegava
papà, tamburellando tranquillo sul tavolo. Mi guardava come
si guarda un bambino che ha appena deciso di non mangiare mai e poi mai
broccoli in vita sua. Con un affettuoso disdegno. «Due figli
avvocati. Difenderai la giustizia davanti agli occhi del
Paese.» Come gli si gonfiava il petto. Voleva che diventassi
un altro Steven. Un altro biondo ex-giocatore di baseball, fuori
classe, con una ragazza mozza fiato e un posto da avvocato nel miglior
studio legale della città. Un altro figlio
d’America dal futuro perfetto. Voleva che diventassi come mio
fratello.
«Lavorerete fianco a fianco. Vi sposerete con le sorelle
Jonson. Vivrete felici.» E mamma accanto a lui che piangeva
un po’ più forte, scuoteva la testa e tirava su
con il naso.
Quello è stato l’ultimo Natale che ho passato in
famiglia.
«Scusate…»
Un uomo entra barcollando dalle porte come se avesse sbagliato
indirizzo. Si guarda un attimo attorno, timoroso. Non vuole disturbare,
è una festa a cui non è stato invitato. Ha il
davanti della maglietta pieno di sangue e un sorriso da ubriaco sulla
faccia coperta da barba sfatta e grigiastra. «Mi sono
tagliato un dito.» Ridacchia e solleva un sacchetto da
frigorifero, uno di quelli che chiudi a salvo aria, che tengono al
fresco il pollo del giorno prima. Ecco, solleva un sacchettino del
genere, tutto ornato da fiocchi di neve azzurri, da cui si intravede un
salsicciotto di carne rosa. Qualche goccia rossa raggrumata
sull’angolo verso il basso.
Cassy mette immediatamente via la lima, facendola sparire nel taschino
sopra il seno, e scuote la sua vaporosa chioma bionda.
«Prego signore, mi segua.» Civetta, appoggiando una
mano sulla spalla del tizio. Sembra un vero ubriacone. Sicuramente lei
pensa di aver trovato uno scrittore alla Hemingway a qui si
è staccato un dito dal troppo scrivere. Probabilmente stava
solo cercando di aprirsi una scatoletta di tonno, il pasto di Natale di
un uomo solo. Quelle scatolette con la linguetta dura di non so quale
materiale super tagliante sono micidiali. Delle vere puttane.
«Avrete
una vita da sogno, vedrai.» Papà continuava. Mamma
continuava. E io sorridevo, annuivo, “Sì
papà”. Ma mi ero già
iscritto a medicina. Non vedevo l’ora di riattaccare arti
mozzati, intubare vecchi grassoni pieni di colesterolo, vedere barelle
zuppe di sangue arrivare a vele spiegate.
«Tu e Steven, vedrai.»
Io non voglio essere come Steven. Steven è un bambino di
dieci anni. Non è mai diventato avvocato, non ha
mai avuto una ragazza mozza fiato, non ha mai programmato la sua vita
perfetta con un fratello gay che sogna di dare la vita agli sbadati del
pronto soccorso.
Steven è morto sull’altalena la sera di Natale.
NdA: Non ho molto da dire, in
realtà. E' uno stralcio di vita, una piccola riflessione
senza alcuno scopo.
Una parte di qualcosa a cui sto
lavorando. Una piccola OS dai tratti comico-macabri.
Adios.