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Autore: Gaea    05/08/2012    1 recensioni
No, davvero: mai si sarebbe immaginato se stesso pateticamente attaccato a una bottiglia; eppure, perché no? perché non concedersi un sola, piccola debolezza, e rivisitare tutto quello di più caro che ha stupidamente perso?
Si considerava un uomo morto molte volte.
La prima era stata all’età di quindici anni, quando quella che era tutta la sua vita – la luce che scacciava le sue ombre – se n’era andata, voltandogli le spalle.
Lì erano morti gli ultimi brandelli di innocenza che era riuscito a salvare dalla miseria, dalle botte e dal disprezzo di Tobias.

Si è classificata terza al "Un titolo,un'immagine e una storia" contest di Hayley Black
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Severus Piton
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Da Epilogo alternativo
- Questa storia fa parte della serie 'Tutti meritano una seconda opportunità'
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La rinuncia

 

«Vuoi che dia la mia parola, Severus, che non rivelerò mai la parte migliore di te?» Silente sospirò, guardando il volto feroce e addolorato di Piton. «Se proprio insisti…».

(Harry Potter e i Doni della Morte, p.624)

 

 

 

E ricordava le grida e come tutto pareva essersi fermato.

Quei suoni così terribili che solo dopo molto, oh, molto tempo aveva capito provenissero dalla sua stessa bocca.

 

E la casa era là, nera e lacera, come dita carbonizzate tese ad un grigio cielo invernale, distratto e indifferente.

 

 

Si considerava un uomo morto molte volte.

La prima era stata all’età di quindici anni, quando quella che era tutta la sua vita – la luce che scacciava le sue ombre – se n’era andata, voltandogli le spalle.

Lì erano morti gli ultimi brandelli di innocenza che era riuscito a salvare dalla miseria, dalle botte e dal disprezzo di Tobias.

 

Poi quella luce si era estinta – e, davvero, se n’era andata per sempre.

Non ricordava chiaramente quella sera e forse era meglio così. C’era un susseguirsi caotico di immagini e suoni nella sua mente – fino al momento in qui si era ritrovato ai confini di Hogwarts, con Silente accanto, lo sguardo cupo. Fino alla conversazione nel suo studio, la prima di innumerevoli altre.

Aveva rinunciato alla sua anima. Aveva perso la sua stella. Ma aveva ancora uno scopo e l’avrebbe portato a termine.

 

 

E ricordava le grida e come tutto pareva essersi fermato.

Suoni così terribili da corrodergli quel poco di anima che ancora considerava inviolata.

 

E le torri di Hogwarts, apparentemente così vicine alla Stamberga  Strillante.

E le zanne del serpente nella sua gola.

 

Uccidendo Silente aveva strappato un altro brandello di sé –  e solo lui sapeva quanto fosse stato un danno per la sua anima evitare a un vecchio umiliazioni e sofferenza… ma era andato avanti, aveva mantenuto tutte le sue promesse.

Aveva rinunciato alla stima dei colleghi; all’affetto degli studenti ed alla considerazione generale si era già sottratto molto prima e tutto pur di compiere il suo dovere, rimanendo aggrappato alla vita abbastanza forte da resistere fino all’arrivo del Ragazzo. Poi si era lasciato scivolare via, in pace.

Non aveva previsto l’ulteriore colpo di coda del Destino.

 

 

“Desidera altro?”.

“Prego?” domandò sorpreso l’uomo alla cassa.

La cassiera osservò il fisico segaligno e la porzione di collo deturpata da un’ampia cicatrice.

“Chiedevo se c’è altro di cui ha bisogno. Altrimenti fanno cinque sterline per la carne e il latte, dodici e venti per la bottiglia, uno e quaranta per il pane. Diciotto e sessanta in totale”.

“Certo… mi scusi, ero sovrappensiero,” borbottò l’uomo, estraendo un logoro portafoglio nero da una tasca dei pantaloni di velluto. Frugò per un po’, prima di trovare una malconcia banconota da venti sterline.

“Ecco il resto. Le auguro buona giornata”.

Ma l’uomo se n’era già andato. Rimase per un po’ a fissarlo mentre si allontanava, zoppicando leggermente sulla gamba destra. C’era qualcosa di strano… un’aria pericolosa.

Dorothy Beal scosse la testa per schiarirsi le idee: restare fino a tarda notte a guardare la tv le faceva male, soprattutto se si metteva a pensare cose strambe sui bizzarri tipi che, di tanto in tanto, entravano nel piccolo supermarket in cui lavorava. Decisamente molto male. Tornò al giornale e all’oroscopo del giorno: il 2027 si stava rivelando un’annata difficile, soprattutto in amore…

 

Severus Piton camminava lentamente, riassaporando la caoticità di Londra dopo tanto tempo passato nell’auto-imposto esilio a St. Agnes*. Aveva lasciato un lavoro che amava – sorridendo alle voci di chi iniziava a credere che la presidenza fosse, come la cattedra di Difesa prima, stregata – e si era allontanato da tutti e da tutto ciò che conosceva, sapendo in cuor suo che staccarsi da Londra sarebbe stato come allontanarsi da lei. Nascondendosi, dimostrandole quanto avesse ragione a chiamarlo… tentò di allontanare quei pensieri scrollando il capo. Cercò un vicolo buio e lasciò cadere il resto della spesa nella mano del barbone che lo presidiava, dopodiché si Smaterializzò. Riapparve davanti al cancello del suo cottage, una piccola costruzione a picco sul mare, non distante dal faro. Kneus*, sul suo trespolo, non diede segno di aver percepito la presenza del padrone, troppo occupato a ripulirsi il lungo becco nero.

Severus entrò in casa, riponendo la spesa nel cucinotto e portando con sé la bottiglia nello studio.
Era dal giorno precedente che l’idea si agitava nella sua mente, un’idea che non avrebbe mai, mai preso in considerazione in un altro tempo. Ma quel tempo era passato, no? Non era più la longa manus di Albus, né lo sarebbe più stato; non c’era più il pericolo di improvvise e insidiose visite da parte del Signore Oscuro, né di improvvise apparizioni di colleghi, studenti o qualsivoglia altro essere umano. Era, finalmente, solo.

Una voce dentro la sua testa riprese a gridare irata, ma la mise velocemente a tacere.

Aprì la bottiglia, annusando il profumo dolce che ne usciva. Per anni aveva bevuto sempre e solo vino elfico, l’unica bevanda che si concedesse senza tema di perdere il controllo.

Ma che problemi c’erano, adesso, a perderlo? C’era forse qualcuno, in quella casa, che potesse abusare della situazione? No. E solo per colpa sua.

Si versò il porto nel bicchiere, aspirando a lungo l’aroma fruttato, prima di berne un sorso. Berlo gli ricordava lei. Perché no? Era inutile negare a se stesso di non star soffrendo, quando ogni fibra del suo essere ancora urlava, parti di lui che credeva di aver sepolto molto, molti anni prima. Si era svegliato consapevole di aver fatto la scelta giusta, la scelta più etica. Consapevole di dover ora convivere con quel peso in più sulle spalle. Perché allora non fare come tutti i Babbani e i maschi prima di lui avevano fatto in tanti secoli, affogando la propria miseria nel bicchiere? No, non era da lui e lo sapeva, ma, per Merlino! Aveva arrancato nella vita sempre attento, controllato, vigilante, credeva di poter sperimentare le briglie sciolte dell’alcol per una e una sola volta. Non era però preparato alle reminescenze che scatenò in lui il rumore del liquido che scendeva nel bicchiere.
Troppe domande nella testa, troppi ricordi.

Un uomo con una bottiglia in mano, ubriaco, eccessivamente  impegnato a bestemmiare contro una donna in lacrime  per accorgersi del bambino che, alle sue spalle, piange e piange e piange…

Lui non era Tobias, non era suo padre e non sarebbe di certo diventato un alcolizzato. Non si sarebbe mai attaccato alla bottiglia. Avrebbe bevuto un po’, sì, avrebbe provato per la prima volta in vita sua la sensazione di perdere il controllo. Si sarebbe addormentato su quella sedia, guardando il mare, probabilmente svegliandosi con un cerchio alla testa che nemmeno la più potente pozione sedativa avrebbe potuto eliminare del tutto.

 

Il pensiero di suo padre lo ricondusse prepotentemente all’infanzia, a sua madre. Solo un altro dei mille pensieri spiacevoli disseminati nella sua memoria. Un delle parti migliori di sé – ma non erano forse anche le peggiori? – che aveva voluto dimenticare

 

Le aveva detto mille volte che era pericoloso per la sua salute fare anche il minimo sforzo, soprattutto da quando aveva finito il pelo di unicorno con cui fabbricare il tonico rinforzante che le aveva sino ad allora somministrato. Ma lei l’aveva mai ascoltato? No, ovviamente. Stava seduta su una della sedie spaiate della cucina, a guardare lo spicchio di cielo azzurro visibile dalle finestre incrostate di sporco. Piangeva.

Lui la fece alzare delicatamente, accompagnandola fino al piano superiore. La camera di lei era pulita, fiori freschi stavano accanto al letto. La aiutò a sdraiarsi di nuovo, sentendo le sue fragili ossa premere contro la pelle. Erano entrambi magri ed emaciati, ma Severus avrebbe venduto la sua stessa anima se fosse esistito un demone in grado di ridare la salute alla madre o se avesse potuto avere i soldi con cui farla mangiare e curarla. Rimase con lei, raccontandole fandonie sugli amici con cui era uscito, le ragazze che aveva incontrato, il lavoro che aveva svolto: aveva diciassette  anni ed era un adulto, voleva dimostrale le sue abilità, darle quel po’ di conforto che, altrimenti, non sapeva come donarle.  Lei sapeva che erano menzogne, ma illudersi la faceva star bene. Tutto andava meglio, quando suo figlio era con lei. Respirava a fatica mentre lui le  teneva la mano, carezzandole delicatamente la fronte e asciugando via il sudore che affiorava. L’estate era torrida e a nulla parevano servire i piccoli incantesimi inventati per cercare di rinfrescare l’aria almeno in quella stanza. “Severus, vorrei che tu facessi una cosa per me. Ricordi quella ragazzina, quella di cui mi parlavi sempre da piccolo…io…”.

“Shhhh, non sforzarti, stai tranquilla. Ne parleremo più tardi, quando ti sarai ripresa, va bene?”. “No, Severus, voglio che tu…”.

Colpi alla porta. Messa a tacere la madre con un sorriso di scuse, il giovane scese le scale e andò ad aprire. I capelli biondi e l’aria disgustata con cui scrutava il vicolo erano inconfondibili.

“Lucius, che ci fai qui?” sibilò all’inaspettato visitatore.
“Non vorrei esserci nemmeno io, Piton – rispose l’altro, prendendo le distanze – mi manda il Maestro. Vuole incontrarti per sincerarsi della tua fedeltà alla causa. Molta gente ha parlato bene di te, tella tua passione e delle tue capacità, ampliamente dimostrate a scuola… Credo che stasera sarai marchiato e potrai definitivamente affrancarti dalle misere condizioni in cui ti trovi”.

Il giovane trattenne rumorosamente il fiato. Era fatta. Sarebbe diventato un Mangiamorte. E Lucius Malfoy in persona era stato mandato per prelevarlo. Però, non poteva seguirlo, non in quel momento… glielo disse.

“Vorresti far attendere il Signore Oscuro, giovane Piton? Tua madre è una strega, benché abbia macchiato la sua razza col tradimento più infame. Saprà cavarsela”.
Gli parve di sentire, flebile, il suo nome provenire dalla casa. Non ci fece caso. Effettivamente, sua madre era una strega molto abile. Non avrebbe impiegato di certo tutta la notte, per essere marchiato. Sarebbe tornato prima che si addormentasse. Così, auto-convincendosi, se n’era andato.

Era stata una grande sera, quella che era seguita, il cui culmine era stata la consegna di una chiave dorata, su cui era inciso il numero di quella che, da quel momento in poi, sarebbe stata la sua camera di sicurezza alla Gringott. Ogni nuovo affiliato ne riceveva una, insieme ad una piccola somma: stava all’oculatezza e all’abilità personali far fruttare quel gruzzolo.

Era esaltato quando rientrò a Spinner’s End. Finalmente avrebbe potuto comprare gli ingredienti per le pozioni più avanzate! Sarebbe guarita! Avrebbero potuto finalmente lasciare quella topiai disgustosa! Corse di sopra, chiamando il nome della madre a gran voce, ma lei non rispondeva. Supina, il volto tanto bianco alla luce dell’incantesimo da sembrare di cera. “Madre?”.

Lei non rispondeva, né avrebbe più risposto. Aveva guadagnato soldi e appoggio, ma per questo aveva rinunciato all’unico frammento della sua famiglia del quale gli fosse mai importato. Si accostò al letto, tremando, e cominciò a piangere.

 

Non aveva mai lasciato Spinner’s End. Come poteva? Era stata forse non la più grande, ma la sua prima e consapevole rinuncia a una vita più semplice. Da un pensiero all’altro: il porto lo stava obbligando a riaprire cassetti nella sua mente che credeva di essere stato in grado di chiudere e piombare per sempre. Non gli era mai piaciuto piangersi addosso, dimostrare il suo dolore, lamentarsi delle scelte fatte eppure, a ben guardare, non era forse stata un’immensa, grande rinuncia, la sua vita?

La bottiglia era ormai a metà e la mano con cui reggeva il bicchiere iniziava a tremare leggermente. Bevve ancora un sorso, chiedendosi distrattamente come potesse davvero piacere alla gente una sensazione del genere. Come sopportavano l’agonia dei ricordi che si ripresentavano alla porta della mente senza poter essere fermati? Come sopportavano tutti i rimpianti, le rinunce, per che cosa poi? Aveva rinunciato alla popolarità, consapevole di essere troppo povero e brutto per mantenerla, passando al Lato Oscuro e aggrappandovisi come un’ancora; aveva rinunciato alla gloria e alla ricchezza dei Mangiamorte per vendicare la morte di colei che amava, all’agio di una vita sicura per il ruolo della spia, sempre diffidato e temuto da chi segretamente ammirava; aveva rinunciato a molto: all’amore, all’affetto, al calore. E tutto per che cosa?

 

Per lei. Sempre, solo, perennemente lei.

“Lily…”.

 

Ogni sua speranza e infantile fantasia futura era stata legata a lei, così come ogni sua successivo sacrificio.

Aveva abbandonato il suo stesso vivere, non potendo farlo con lei.

Aveva cessato di esistere, limitandosi a recitare il ruolo dell’insegnante che Silente gli aveva offerto, pronto a mantenere fino in fondo la promessa fattagli quella notte. Anche quando Albus era morto, ucciso da un suo incantesimo e quando aveva creduto che sarebbe morto lui stesso, sentendo la vita fluire via da lui come il sangue che imbrattava il lurido pavimento della Stamberga Strillante.

Poi, la rinascita. Il canto arcano di Fanny, il suo tiepido peso sul torace, la sensazione della sua testa poggiata sul viso*. Aveva risentito la voce di Albus dirgli che non era mai troppo tardi, e la sua conseguente  risposta caustica e beffarda.

 

Si era odiato per non aver mai detto a quell’uomo che, forse, era stata l’unica figura paterna della sua vita… consapevole, però, che mai ne avrebbe avuto il coraggio e l’ardimento: nonostante l’opinione di Albus, lui sapeva di essere nato serpe e che vipera sarebbe morto.

 

Un padre che l’aveva manovrato, però. Non l’aveva forse fatto con tutti? Persino col suo adorato piccolo Potter? Il porto gli andò di traverso, causandogli un eccesso di tosse.

Harry Potter. La prova vivente del fatto che l’aveva perduta, per sempre.

 

“Ti avevo già persa prima, Lily, vero? Ti ho perso quel pomeriggio, quando hai sorriso alla spacconeria di quell’idiota…”.

 

Era solo per quello che l’aveva voluta mortificare e ferire tanto quanto lui si era sentito umiliato da quel piccolo accenno di sorriso.

Un sorriso che, una volta, avrebbe condiviso solo con lui e che ora dedicava al Potter.

E, forse a causa del liquore che gli annebbiava la mente, per la prima volta accanto al dolore, per la perdita di Lily, provò rabbia. Rabbia per la sua reazione stupida ed emotiva.

Rabbia per la stupidità di un ragazzo talmente fortunato da ritenere suo diritto distruggere la vita di chi lo era evidentemente stato meno di lui.

Rabbia contro Lily stessa. E perché no? Avevano quindici anni. A quindici anni si è ancora abbastanza impulsivi e immaturi da fare e dire cose stupide, cose dettate dall’orgoglio e non dalla ragione.

Come poteva non aver capito i motivi che l’avevano spinto a offenderla in quel modo?
Come si era permessa di buttare al vento più di sei anni di amicizia?

 

Forse se n’è accorta, ma era troppo tardi. Forse ormai ti considerava un peso, nella sua vita piena di luce e amici, forse ha pensato che tentare di cavarti dal buco in cui ti eri ficcato fosse una fatica troppo grande per un’adolescente, forse un giorno ti ha pensato, ha ricordato la vostra amicizia, e ha creduto non  fosse davvero troppo tardi;  ma la tua dannata linguaccia le ha impedito di trovarti. La tua dannata linguaccia le ha impedito di vivere. E a te, cos’è rimasto?

Cenere e rimpianti, una vecchia fotografia rubata e l’affetto non destinato a te.

E la tua maledetta testa, ancora una volta, ha rovinato quello che avresti potuto avere. La tua unica seconda occasione. Non è mai troppo tardi, non è mai troppo tardi… con Lily e per Lily lo è stato. Ma per lei…?

 

Le lacrime scendevano calde, scorrendo pigre fra le pieghe delle cicatrici che non aveva voluto cancellare, come ultimo pegno a lei. Eppure adesso si accorgeva che buona parte di ciò che aveva fatto, non l’aveva fatto davvero per Lily: l’aveva fatto per se stesso. Per tutelarsi, in qualche modo.

 

Era l’alcol a fargli pensare, per la prima volta, che forse era davvero più comodo aggrapparsi a un amore impossibile, che gettarsi e rischiare, andando avanti?

 

Si alzò lentamente dalla sedia, salendo le scale quasi a tentoni e cercando di dominare le vertigini e il dolore che sentiva dentro. Camminò fino al letto ripetendosi che no, non era stato tutto vano. La sofferenza, i rimpianti… aveva salvato Harry. Gli aveva permesso di avere una vita lunga e felice, gli aveva permesso di salvare, ancora una volta, il mondo magico. Aveva onorato il sacrificio della donna che aveva amato.

E del fallimento della sua, di vita, potava solo colpevolizzare se stesso.

Oh, certo, Lily non era la leonessa che tutti ricordavano… aveva davvero, davvero gettato la spugna. Aveva rinunciato. Tanto quanto lui.

Ma restava suo lo sbaglio di essere rimasto immobile su una soglia già chiusa: scaricare la responsabilità sui morti era da stupidi, oltre che da codardi.

 

E ricordava le grida e come tutto pareva essersi fermato.

“Codardo”.

Un suono così terribile, pronunciato da lei. La sua ultima rinuncia.

 

E la sua casa farsi improvvisamente più spenta.

E lo specchio che le aveva regalato – quello che usavano per parlare, anche quando erano troppo distanti per poterlo fare – infranto, rotto in minute schegge, proprio sulla soglia, a riflettere un azzurro cielo primaverile, distratto e indifferente.

 

 

 

 

Piccole (e forse) insignificanti note: Non è OOC. O credo. Cioè, sì, Piton non perderebbe mai il controllo volontariamente. Ma qui siamo in una situazione particolare, che verrà raccontata meglio (e si evolverà) nella long che ho appena iniziato. La non-lettura della stessa, comunque, non pregiudica la comprensione di questo missing moment. O, almeno, spero.
St. Agnes è una delle isole Scilly, un minuscolo arcipelago di fronte alla Cornovaglia. Settanta abitanti Babbani e un abitante magico accertati.

Kneus è un corvo imperiale (e qui c’è gente che potrebbe rivendicare la paternità dell’idea, ma sappia che l’avevo già avuta ^^) il cui nome, in dialetto della Cornovaglia, significa “ombra”. Se andate su Wikipedia troverete che è il più grosso, nonché schivo e refrattario agli avvistamenti della sua specie… ma è anche quello che, allevato fin da piccolo, dimostrerà una fedeltà eccezionale e imperitura al proprio padrone o a chi gli dimostri attenzioni. Vi ricorda qualcuno?

 

Ah: lo so che l’arrivo di Fanny fa tanto “deus ex machina”. Ma, dopotutto, pensateci: nel secondo libro Fanny interviene perché Harry aveva dimostrato una “straordinaria lealtà” a Silente. Quale prova più grande di quella di mantenere la promessa fino in fondo, anche mentre la vita scivola via? L’ha fatto per Lily, certo. Ma mi è sempre piaciuto pensare che l’abbia fatto un po’ anche per Silente. Per portare a termine il suo piano. Non può esserci stata solo la rossa nella sua vita, sarebbe riduttivo! Che poi le lacrime di Fenice abbiano il potere di risanare le ferite, è un dettaglio ovviamente marginale…

 

…altra cosa marginale: c’è un leggerissimo riferimento (ehm) a quella che io considero la mia coppia. Cioè, se l’è inventata Santa Duedicoppe, in realtà, ma ho abbracciato con passione la sua idea. Se qualcosa, quindi, non vi torna, sappiate che le Lily, in questa storia, sono due. E se la cosa vi turba, sappiate che, almeno una delle due, è maggiorenne, gode di buona salute e di un cuore spezzato che spero di riuscire a riparare.

 

 

____

 

Ecco il giudizio della Giudicia: in effetti, rileggendo, mi sono accorta che un buon 90% di quanto mi ha detto è perfettamente vero. Ho cercato già di risistemare: spero si notino le migliorie. Let me know ^^

 

Terza classificata (Gaea) con La rinuncia 


Grammatica e punteggiatura: 8,80/10 
Lessico e stile: 7,50/10 
Trama e sviluppo della trama: 7/10 
Originalità: 8/10 
IC e caratterizzazione dei personaggi: 7.50/10 
Punti bonus: 3/3 
Punteggio finale: 41,80/53
 

Dunque, partiamo subito col dire che la tua storia mi è piaciuta sì e no, ma ci sono alcune cose che durante la lettura mi hanno lasciata un po’ perplessa. Come da parametri di giudizio cominciamo con la grammatica, che ho trovato quasi perfetta tranne alcune sbavature: 
• “Certo… mi scusi, ero sovrappensiero “ ; le virgolette alte, nei dialoghi, vogliono sempre una virgola e/o un punto per chiudere il discorso. Nel tuo caso, non c’è né una virgola né un punto, e la virgoletta alta di chiusura è anche staccata dal resto. La versione corretta avrebbe dovuto essere “Certo… mi scusi, ero sovrappensiero,” bofonchiò […] (-0,10) 
• “sorridendo delle voci […]” La preposizione usata è sbagliata, in quanto avrebbe dovuto essere “sorridendo alle voci”. (-0,20) 
• C’è una ripetizione in uno dei flashback di Severus: donna piangente/piange. (-0,15) 
• “Le teneva la mano, carezzandole delicatamente la fronte, asciugando via il sudore che affiorava.” La virgola evidenziata fra le due subordinate rallenta la lettura, dato che esse rappresentano due azioni concatenate che risultano più fluide se collegate dalla congiunzione “e”. (-0,10) 
• “Effettivamente, sua madre era una strega, molto abile.” La seconda virgola è superficiale, senza di essa la frase risulta molto più veloce. (-0,10) 
• “Non avrebbe impiegato di certo tutta la notte, per essere marchiato.” Come per la frase precedente, anche questa virgola è di troppo. (-0,10) 
• “a l’unico” Questo è l’errore più consistente che ho trovato nella tua one shot. Credo che tu sappia che si scrive “all’unico”, quindi non so se considerarlo un errore di battitura o meno. (-0,20) 
• “chiedendosi distrattamente come potesse davvero piacere alla gente, una sensazione del genere.” La virgola evidenziata, se omessa, renderebbe la lettura della frase molto più veloce. (-0,10) 
• “[…] salendo le scale quasi a tentoni, cercando di dominare le vertigini e il dolore che sentiva dentro.” Le due subordinate sono più veloci se unite dalla congiunzione “e”. (-0,10) 
• “Oh, certo, Lily non era la leonessa che tutti si ricordavano…” “ricordare” non è un verbo riflessivo, ergo non ha bisogno del pronome riflessivo. (-0,20) 
La grammatica e la punteggiatura, tranne questi piccoli appunti, vanno più che bene. E’ lo stile che rende la lettura un po’ faticosa, dato che è molto lento a causa di tutti i punti fermi che intercorrono nel testo, macchiando la forma chiara e lineare che hai adottato per la one shot. 
Hai utilizzato uno stile pesante a lungo andare, che non va certo bene per una one shot mediamente lunga. Le 2847 parole della tua fanfiction, infatti, sono state piuttosto lente da mandare giù: ci sono troppi punti fermi, troppe pause, troppe frasi a “effetto” che puntano l’attenzione del lettore su qualcosa di diverso dal vero succo della storia. Ad esempio: “Aveva sperato che staccarsi da Londra sarebbe stato come allontanarsi da lei. Nascondendosi per non farsi trovare. Come se fosse realmente possibile nascondersi, in un mondo come il loro.” Tutte queste frasi sarebbero state molto più fluide e semplici da leggere se legate da segni di punteggiatura deboli; può sembrare uno stile bello e audace, ma è adatto per storie corte che devono incidere in poche parole chiave. Se, invece, ci costruiamo sopra un’intera one shot, allora diventa uno stile pesante e noioso che non giova di certo alla lettura. Hai utilizzato questo stile spezzettato non solo per le frasi più incisive, ma anche per le azioni e tutto il resto; in totale ci sono 2 punti e virgola, 5 due punti e 208 punti fermi. Sono troppi, davvero troppi, soprattutto per una one shot. 
Ti consiglio di utilizzare, almeno nelle storie lunghe che richiedono più attenzione, uno stile semplice e veloce: con tutti quei punti fermi la lettura di una one shot di appena cinque pagine diventa pesante, lunga, non va affatto bene. Relega lo stile frammentato alle flashfiction o alle drabble, perché un lettore potrebbe stancarsi di tutte le pause disseminate nel testo laddove ci starebbe benissimo un segno di punteggiatura debole. 
Se la narrazione viene interrotta così rapidamente, e soprattutto così saltuariamente, nella mente del lettore ci sono solo tanti punti e tante parole confuse che non colpiscono nel segno e non fanno altro che confondere. 
Chiudendo la parentesi dello stile, il lessico mi sembra ampio e ben utilizzato; non ho trovato delle parole stonanti con il resto o utilizzate in malo modo, mi è anzi piaciuto il tuo modo di descrivere, l’ho trovato semplice ma elegante allo stesso tempo. In particolare, le frasi iniziali e in corsivo della one shot mi sono piaciute tantissimo: le dita carbonizzate tese al cielo invernale sono un’immagine molto bella e suggestiva. Brava. 
Ed eccoci al punto saliente: la trama. Avevo chiesto una one shot dalla trama forte, ma in cinque pagine non ci si può certo aspettare una trama particolarmente articolata. Quindi la trama è piuttosto semplice, potrei dire quasi inesistente, dato che la one shot è focalizzata sui pensieri di Severus sulle rinunce della sua vita. Lo sviluppo della trama è lineare e ordinario: c’è un inizio, uno svolgimento e una fine, con vari flashback qua e là. Non ci sono particolari colpi di scena, aggrovigli vari, un semplice uomo che annega i ricordi nel bicchiere. Per questo anche l’originalità è dubbia, dato che l’idea di base è stata utilizzata molto ma molto spesso nelle fanfiction, idem la storia di Severus Piton che “torna in vita” dopo l’attacco del serpente. Io di solito sono riluttante nel leggere storie su di lui, perché ho sempre la sensazione del già detto: è raro che ci siano innovazioni o trovate originali. La tua storia si colloca nel mezzo, non è originale ma ha comunque vari elementi dalla sua parte. La madre di Severus, ad esempio, l’esilio volontario, le rinunce della sua vita. E’ attorno alle rinunce che ruota l’intera one shot, e l’ho trovata per questo una ventata d’aria fresca fra la maggior parte delle storie su Severus focalizzate interamente sulla sua disperazione riguardo Lily. C’è rinuncia a tante cose: la gloria, una vita serena e felice, la madre, la stima di colleghi e studenti, la ricchezza. Purtroppo, però, c’è un riferimento al fatto che lui ha rinunciato a tutto per lei. A mio parere, la storia sarebbe stata molto più originale se tu avessi cercato un’altra causa a tutte le rinunce della sua vita; so che Lily è quella più evidente e usata, ma con un po’ di inventiva in più se ne possono trovare tantissime. 
La caratterizzazione di Severus non mi ha colpita molto. Non è OOC ma nemmeno completamente IC: non ce lo vedo che annega i ricordi nell’alcol, che tratta la madre in modo così caloroso, che è così propenso al bene e alla luce. Severus è il classico personaggio grigio, non è né nero né bianco, ma nella tua one shot l’ho trovato eccessivamente bianco. Mi è sembrato strano, ammorbidito, troppo benevolo quando la vita gli ha riservato solo sventure e sofferenze; una persona colpita da così tante morti e così tanti dolori avrebbe avuto pensieri più cupi e malevoli. 
Non ci ho visto molto del Severus originario, per questo; è a metà tra l’OOC e l’IC, quindi l’ho trovato strano. 
Alla fine di questo chilometrico giudizio, la tua storia mi è piaciuta a tratti: lo stile lento e la caratterizzazione altalenante non mi hanno entusiasmata di certo ma, se limati, i difetti saranno attutiti e la tua storia risulterà molto più bella ed emozionante. 

   
 
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