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Autore: Yaeko Nishiara    06/08/2012    2 recensioni
"Non avevo mai provato niente del genere per qualcuno che nemmeno conoscessi, tal volta queste sensazioni non erano riuscite a trasmetterleme nemmeno le poche relazioni che avevo avuto con i miei coetanei. [...] Staccai la mia mano dalla sua.
-Prometti che tornerai..- disse lui serio e, sembrava, anche un poco preoccupato.
-Promesso!"
Primo OneShot che scrivo e secondo me, un fail completo >.< Scritto tra le due e le cinque di mattina mentre cercavo un po' di ispirazione per le mie altre FF. Anche se è coinvolto un membro dei B.A.P. è tutto incentrato sulla protagonista, sorry!
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La mia leggenda popolare giapponese preferita è senza ombra di dubbio quella del filo rosso del destino. Questa leggenda dice che ogni essere umano nasce con un filo rosso legato al mignolo della mano sinistra, questo filo ci lega indissolubilmente alla persona a cui siamo destinati, a colei con cui dovremmo passare il resto della nostra vita, la nostra anima gemella, e non importa quanto tempo o spazio ci divida, questo filo ci ricondurrà sempre dalla persona che amiamo. 
Fin da piccola avevo sempre fantasticato su questa bellissima leggenda, ma crescendo avevo imparato ad affrontare la realtà, a lasciare da parte le favole ed ad entrare a far parte di quella massa informe e caotica che era la società. Ben presto avevo imparato il mio ruolo in quello spettacolo che si svolgeva senza interruzioni ogni giorno, quell'apparenza di benessere che tutti sapevamo essere una facciata ben troppo fragile, tanto fragile che si sarebbe potuta rompere da un momento all'altro.
Ogni giorno svegliarsi e scoprire che tutto è ancora come prima, l'uniforme del bar in cui lavori e ancora al suo posto sulla sedia di fronte al letto, ancora con quella macchia di vino sul grembiule che non ha mai accennato ad andarsene. Ti alzi e scopri che sei sempre la stessa ragazza di 20 anni che ha la pelle segnata dalla stanchezza e l'animo vuoto per il modo in cui il mondo ti ha strappato ogni speranza e poi ti ha risputata senza troppi  complimenti.
E tutto quello che puoi fare è sospirare sommessamente e prepararti ad affrontare questa giornata incredibilmente uguale ad ogni altra.
La mia vita non era più fatta per essere "vissuta" era fatta per passare sotto le dita di una vecchia tessitrice che decide semplicemente che non vale la pena destinarti a qualcosa di un poco più "interessante", ma che invece pensa essere giusto assegnarti ai "fili abbandonati", quelli che non andranno a finire da nessuna parte, quelli di persone che nella loro vita non fanno nulla se non continuare a vivere la loro routine fino a che questa stessa tessitrice non decide finalmente di mettere fine a quella apatica agonia e tagliare il tuo filo. 
Vivevo la mia vita senza speranza ancora aggrappata a piccole convinzioni che sapevo, senza che nessuno me lo dicesse, essere assurde.
E forse proprio questo fece intenerire la tessitrice, forse quella mia sicurezza che le mie piccole convinzioni, che non riuscivo a buttarmi alle spalle, fossero assurde, avevano attirato la sua attenzione di millenaria cariatide che di sognatrici come me ne doveva aver viste a migliaia.
Sta di fatto che un giorno il mio filo venne ripreso dalle mani ruvide e gentili della tessitrice, questa ne levò piano il  velo di polvere che ormai lo ricopriva e che faceva sembrare il suo colore intenso e passionale, rosso sangue, un mero marroncino smorto.
 
Lei aveva deciso, era il mio momento.
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Mi alzai presto quella mattina, la sveglia non era ancora suonata. Aspettai placidamente nel letto, godendomi quegli istanti di relax e, appena la sveglia suonò, scattai in piedi, pronta per l'ennesimo giorno di lavoro.
Mi lavaii e vestii in fretta e afferrate borsa e chiavi, che erano strategicamente posizionate sul mobile accanto alla porta, uscii in strada.
Prima a destra seconda a sinistra.
Ricordai mentalmente a me stessa il tragitto, che ormai avrei potuto fare ad occhi chiusi, verso la metro e imboccai l'entrata passando con un gesto sicuro e abituale il mio abbonamento sul sensore accanto l'entrata. 
Come al solito sentii dalle scale che la metro era appena arrivata alla banchina, corsi giu cercando disperatamente di arrivare in tempo senza cadere rovinosamente a terra. Straordinariamente ce la feci, credo fosse la prima volta, ero abituata a guardare impotente il treno che riprendeva la sua corsa e ad aspettare l'arrivo del treno seguente, ma quella volta ce l'avevo fatta.
Risistemai la borsa al suo posto originario e mi sedetti tra una signora sulla cinquantina che occupava un posto abbondante e che cercava di non addormentarsi, ma che ormai aveva già perso la partita con Morfeo, e un uomo magro con una barba incolta e che, notai subito dopo, puzzava terribilmente di alcool.
Per tutto il viaggio di quarantacinque minuti stetti seduta al mio posto osservando le persone attorno a me: gli adolescenti che andavano a scuola con lo sguardo perso nel vuoto e un paio di cuffiette nelle orecchie dal volume tanto alto che avrebbero fatto prima a portarsi dietro uno stereo, i ragazzini troppo occupati con il loro game boy per badare a dove mettevano i piedi o per reggersi per evitare di cadere, i genitori di questi che, invece di sgridarli e fargli osservare il mondo, li lasciavano rifugiarsi nel loro mondo di idraulici italiani che cavalcano dei draghi obesi per salvare una principessa che a dirla tutta assomiglia troppo a Paris Hilton per i miei gusti, e per finire in bellezza guidavano i propri figli come fossero ciechi o dei vecchietti bisognosi di aiuto, reggendoli per evitare che cadessero ad ogni curva. Le anziane si guardavano in giro circospette come se ogni singola persona in quel vagone fosse uno stupratore o un borseggiatore che l'aveva puntata come sua preda mentre i vecchietti più simpatici cercavano di attaccare bottone con chiunque gli stesse accanto, iniziando a raccontare la storia della loro vita e di come i loro tempi fossero così diversi da quelli contemporanei.
Senza rendermene conto eravamo già alla mia fermata. mi diressi verso l'uscita con passo deciso e appena l'aria fredda del mattino mi pizzicò le guance mi fermai, chiusi gli occhi e presi un bel respiro. Il mio sesto senso mi diceva che quella giornata sarebbe stata diversa, magari un punto di svolta che avrebbe portato la mia vita su un gradino superiore. Su questo ero ottimista.
Annuii a me stessa e camminai verso il locale in cui lavoravo.

Il bar si chiamava "The Corner" nome ben poco originale per un bar, ma piaceva a tutti. Il locale era piccolo, all'interno vi era il bancone di simil-legno color mogano su cui era posizionata una linea di bicchieri vuoti, pronti anche loro a lavorare, di fronte al bancone alcuni sgabelli e poi tutti appesi alla parete dei vecchi manifesti degli anni '20 o giù di li. La maggior parte dei tavolini erano posizionati fuori, sotto un gazebo di grandi dimensioni in modo che né i clienti né il personale soffrissero il caldo.
A parte il proprietario, il signor Lim, sembrava non esserci ancora nessuno dei miei colleghi quindi, dopo averlo salutato con un piccolo inchino, sgattaiolai nello stanzino dello staff.
Poggiai la mia sacca sulla panca che era situata al centro della piccola stanza e iniziai a spogliarmi per cambiarmi nella mia uniforme da lavoro. Mentre mi slacciavo il bottone dei jeans il mio sguardo ricadde sullo specchio appeso al muro vicino alla porta, notai che la mia pelle, se possibile, era sempre più bianca ed i capelli neri appuntati in una crocchia che lasciava libera qualche ciocca sul mio collo, creavano un contrasto evidente.
Una volta indossati i pantaloncini neri, la maglietta a maniche corte anch'essa nera,fatta esclusione per lo stemma del bar situato nel centro, stemma che era stato disegnato dal signor Lim stesso, e il grembiule con la tasca davanti in cui misi il blocco per prendere le ordinazioni, una penna, l'apribottiglie e il cellulare rigorosamente in modalità silenziosa, uscii dalla stanza e vidi che qualche cliente mattiniero già era li.
 
Passai l'intera mattinata a prendere ordinazioni, sorridendo e occasionalmente scambiando qualche battuta con il cliente di turno, tutto scorreva come avrebbe dovuto, i clienti venivano e se ne andavano e io facevo il mio lavoro concentrandomi sui miei gesti quotidiani e senza prestare troppa attenzione ai volti che mi passavano davanti.
Questo fino a quando un ragazzo seduto al tavolo a destra dell'entrata non attirò la mia attenzione. Poggiai il viso tra le mani e i gomiti sul bancone ad osservarlo, era seduto con le gambe incrociate, indossava dei pantaloni di jeans larghi a cavallo basso e più stretti sotto il ginocchio, una maglietta bianca con delle stampe colorate sotto un giacchetto di stoffa blu scuro. I capelli biondi, leggermente mossi, gli ricadevano delicatamente sulla fronte, gli occhi allungati il naso longilineo e le labbra carnose sul suo viso magro e perfetto.
Si girò verso di me e io distolsi lo sguardo mentre le mie guance si dipingevano di rosa. Afferrai il vassoio e prendendo coraggio mi avviai verso il cliente che era riuscito ad attirare la mia attenzione.
-Salve- dissi senza guardarlo negli occhi e mi inchinai un poco.
-Ciao- mi salutò guardandomi e sorridendo con gli occhi.
Il mio cuore perse un battito, la sua voce era perfetta come il suo volto, chiara e melodiosa, come se stesse cantando. Un po' impacciata tirai fuori il blocco notes e, sempre senza guardarlo fisso negli occhi, gli chiesi cosa desiderasse. Lui, invece di rispondere rimase un poco in silenzio a guardarmi. Arrossii violentemente e senza possibilità di nascondermi decisi di ricambiare lo sguardo. 
I suoi occhi erano scuri, incredibilmente fulgidi, mi scrutavano sornioni e io ne ero intrappolata, incapace di guardare altrove. Un brivido mi percorse la schiena e abbassando finalmente lo sguardo chiedetti nuovamente cosa volesse e lui, che mentre mi guardava si era staccato dallo schienale della sedia, tornò a poggiarvisi.
-Vorrei una fetta di Cheesecake, grazie-
Mi inchinai nuovamente e tornai all'interno del bar. Sorrisi piano tra me e me ripetendo quella frase nella mia mente e pensando a quanto fosse bello il suo accento di Busan, poi scossi la testa e mi presi le guance tra le mani. Pabo! Che diamine ti sorridi come un'ebete!?
Ma nonostante mi fossi detta ciò nel modo più autoritario possibile le mie labbra non accennavano a tornare a coprire i miei denti. 
Mentre prendevo una fetta di torta e la poggiavo delicatamente in un piattino sul vassoio pensavo al perché quel ragazzo mi affascinasse tanto. Non avevo mai provato niente del genere per qualcuno che nemmeno conoscessi, tal volta queste sensazioni non erano riuscite a trasmetterleme nemmeno le poche relazioni che avevo avuto con i miei coetanei.
Preso il vassoio tornai al tavolo dal ragazzo e poggiai di fronte a lui la sua ordinazione.
-Grazie-
M'inchinai nuovamente senza spiccicare parola e invece di andarmene restai a guardarlo fino a che non alzò il capo perplesso e io arrossii.
-Hai una faccia famigliare..- mormorai.
Gli angoli della sua bocca si sollevarono mostrando oltre le sue labbra carnose un sorriso perfetto e gentile. Le mie guance ormai dovevano sembrare due pomodori.
-Possibile che tu mi abbia visto in TV, faccio parte di una boyband che ha debuttato da poco.-
-Uhmmm... Si, deve essere così- dissi poco convinta e tornai in fretta dentro al locale con il vassoio stretto al petto. Non era questo, non l'avevo semplicemente visto in una trasmissione televisiva, mi sembrava di conoscere ogni suo gesto come se l'avessi osservato per anni, sentivo  un peso sullo stomaco, come se qualcosa fosse proprio sotto il mio naso ma non riuscissi a vederla.
Dopo essermi sciacquata il viso nel bagno del bar continuai semplicemente a fare il mio lavoro, sentendo però i suoi occhi fissi su di me. 
 
Passarono alcune decine di minuti.
-Mangiato bene?-
Afferrai il piattino dal tavolo poggiandolo sul vassoio.
-Si, grazie....?-
-MinRa, mi chiamo Lee MinRa.-
Fece un'altro dei suoi sorrisi.
-Io sono Jung DaeHyun, piacere di conoscerti MinRa-ah-
Senza accorgermene ricambiai il suo sorriso e, incredibilmente, lo vidi arrossire un poco. Dentro di me , senza sapere neppure perché, esultai.
-Vorresti uscire con me?-
Spalancai la bocca alle sue parole.
-S-scusa, sono stato troppo diretto?- rise imbarazzato abbassando lo sguardo e portandosi una mano dietro al capo.
-N-no, no.. Mi hai solo presa alla sprovvista..-
-Quando finisci di lavorare?-
Controllai l'orologio appeso al muro dietro il bancone.
-Fra un'ora e un quarto-
-Allora ti aspetto qui..- disse quelle parole con estrema naturalezza, come se fosse la cosa più ovvia del mondo e io non potei far altro che annuire e riprendere a lavorare.

Quell'ora e mezza di lavoro fu straziante, ero impaziente di finire e uscire con quel ragazzo, nonostante l'avessi appena conosciuto, ma il tempo sembrava essersi messo contro di me e ogni minuto durava un'eternità. Quando finalmente il signor Lim mi disse che potevo andare mi fiondai senza ritegno nello stanzino e mi cambiai in quattro e quattr'otto. Piegai con mani esperte la mia uniforme e la infilai nella sacca, poi mi avvicinai allo specchio e mi sciolsi i capelli neri, lunghi fino al gomito, li pettinai per alcuni minuti finché non pensai che potessero essere decenti.
Nuovamente mi precipitai fuori, accennai un inchino al proprietario e saluta con la mano i miei colleghi. DaeHyun mi aspettava seduto sulla sedia su cui era stato per l'ultima ora e mezza. Mi sorrise e si alzò per venirmi incontro. In quel momento ero così felice che avrei potuto saltare in giro ridendo come una matta.
DaeHyun appena mi raggiunse mi prese la mano con nonchalance, gesto che mi fece diventare rossa come non mai.
-Andiamo a prendere un gelato-
Annuii timidamente fissando le nostre mani che ancora erano legate una all'altra. 
Avevo la pelle d'oca, la sua mano era grande e calda, mi sentivo a mio agio e protetta con quel semplice contatto. 

Daehyun mi portò in un parco non poco lontano che conoscevo abbastanza bene. Gli alberi dai tronchi alti intrecciavano i loro rami creando un tetto che non faceva passare il sole, poco più in la si trovava lo spiazzo dove erano situati i giochi per i bambini, le loro grida gioiose erano udibili fin dalla strada e le madri rilassate sedevano su delle panchine non poco lontane chiacchierando tra loro. Di fronte a noi c'era il chiosco dei gelati, e, nonostante fossimo arrivati a destinazione, DaeHyun non accenava a lasciar andare la mia mano. Mi si scaldò il cuore, quello si prospettava veramente il giorno più bello della mia vita, il giorno che avrebbe potuto cambiare tutto.
-Gusto?- la sua voce mi riportò alla realtà.
-Vaniglia-
Si limitò a guardarmi, sorridendo con gli occhi. Lasciò la mia mano con mio disappunto e un suo piccolo sospiro, per poi dirigersi dal gelataio e tornare con due coni, entrambi alla vaniglia. Me ne passò uno e dopo esserci seduti su una panchina del parco iniziammo a mangiare i rispettivi gelati.
-Quanti anni hai DaeHyun-ssi?-
-Ne ho 19, sono nato il 28 giugno 1993-
-Jinja?- risi sommessamente e più apertamente quando vidi la sua espressione confusa e le sue guance arrossire.
-DaeHyun sono una noona per te!-
-Bwo!? Jinja?! Ma sembri molto più piccola....-
Dopo questo ci fu un momento di silenzio e poi entrambi scoppiammo in una fragorosa risata. Grazie al cielo dopo questo entrambi eravamo molto più rilassati, chiacchierammo tutto il pomeriggio, ridemmo e scherzammo e più il tempo passava più le mie emozioni per quel ragazzo crescevano, era mai possibile innamorarsi in così poco tempo di una persona? Eppure ci ero appena riuscita, DaeHyun aveva completamente conquistato il mio cuore.
Non ci accorgemmo che il tempo era passato più in fretta di quello che avremmo voluto, finché il cielo non fu completamente immerso nelle tenebre della notte.
DaeHyun si offrì di riaccompagnarmi a casa, così camminammo per un'oretta fino a casa mia, sempre parlando e scoprendo cose l'uno dell'altro. 
 
Purtroppo per me quella giornata doveva arrivare a termine.
-Grazie mille per questa magnifica giornata DaeHyun-ah~-
Staccai la mia mano dalla sua.
-Noona.. Prometti che usciremo di nuovo insieme..- disse lui serio e anche un poco preoccupato.
-Promesso!-
-Ci vediamo dongsaeng!- dissi ridendo e allontanandomi piano da lui attraversando la strada che conoscevo fin troppo bene. Gli sorrisi ancora una volta e tutto accadde in un attimo.
 
Non me ne resi conto subito, la prima cosa che vidi fu la faccia terrorizzata di Daehyun che mi urlava qualcosa e poi il dolore. Un dolore lancinante che non avevo mai provato, un dolore tanto forte da farmi perdere i sensi e anestetizzare ogni altra sensazione.
Quello che venne dopo fu piuttosto confuso, Daehyun corse verso di me sollevandomi dall'asfalto su cui ero sdraiata, avvolgendo il suo braccio attorno alle mie spalle e stringendomi al suo petto, mentre tremavo per lo shock avvertii la sua mano intrecciarsi con la mia e le sue labbra baciare i miei capelli cercando di calmare i miei tremiti.
-Sto morendo..- dissi senza alcun segno di tristezza nella voce.
Il ragazzo iniziò a versare delle lacrime silenziose, una smorfia di dolore gli si dipinse in volto e potevo sentire chiaramente il suo petto contrarsi sotto di me. E nonostante il suo volto fosse sfigurato dal pianto e dal dolore rimaneva la persona più bella che avessi mai visto.
-No! No... Andrà tutto bene, ho chiamato l'ambulanza, sarà qui a momenti e.. e tu starai bene.. starai con me..!-
Nonostante le sue parole fossero insicure e piene di paura le trovai dolci e piene di sentimento.
-Daehyun..- prima che potessi finire la frase un dolore lancinante mi percorse da capo a piedi facendomi strozzare la frase in gola.
-S-si... Sono qui...-
-Canteresti per me...?- chiesi accennando un sorriso, ma subito vennì scossa ancora una volta da uno spasmo di dolore e sentii che qualcosa di caldo e viscido si stava facendo strada sul mio mento dalle mie labbra.
Il ragazzo che mi teneva ancora fra le sue braccia, incurante che si stesse sporcando i suoi bei vestiti, singhiozzò e annuì, incominciando a cantare. Più cantava più mi sentivo in pace con me stessa e più le lacrime che scendevano dal suo volto si intensificano, facendo tremare la sua bella voce mentre cantava una delle più belle sinfonie che avessi mai sentito, o almeno così mi sembrava in quel momento.

-No more pain goodbye goodbye
 
yaghaejin nal beoseo deonjigo
(I will shed and throw away)
 
nareul igyeo naegesseo
(my weakness and overcome myself)
 
bring me back to me
 
No more cry goodbye goodbye
 
i sesangeul ttwieo neom gesseo alright
(I will jump over this world alright)-
 
Smise quando la sua voce rotta dal pianto non riusciva più a tenere le note. Era triste perché dovevamo già lasciarci, ma io ero felice, perché il nostro incontro era avvenuto prima che io me ne andassi. Avevo questa strana sensazione che ci saremmo rivisti un giorno, che quello non era un addio e osservai con calma e letizia il ragazzo che continuava a piangere al mio fianco. D'altronde gli avevo fatto una promessa, no? Saremmo usciti di nuovo insieme.
La mia vista divenne sfocata, e l'unica cosa che riuscii a vedere fu il filo rosso legato al mignolo della mia mano sinistra che era stretta a quella del ragazzo. Il filo era piuttosto corto e grezzo, ne seguii il percorso e senza sorpresa scoprii che si collegava a quello del ragazzo. Sorrisi ancora una volta e con le ultime forze che mi rimanevano sussurrai quello che aspettavo di dire da tutta una vita.
-Ti.. amo...-
E non mi interessava che ci fossimo conosciuti solo poche ore prima, perché le mie parole erano sincere, avevo trovato la mia metà.
Sentii il respiro caldo del ragazzo sul mio collo e delle parole sospirate vicino al mio orecchio, poi più niente, io non ero più nulla.

 
-Anche io ti amo...-
  
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