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Autore: alexus_alec    06/08/2012    2 recensioni
Dedicata a tutti bambini vittime dell'odio nazista, a tutte quelle piccole vite ancora lontane dallo sbocciare o stroncate sul nascere.
Dedicata a tutti i mai nati.
Dedicati ai bambini nati morti.
Dedicata ai genitori che hanno visto i propri figli strappati dalle loro braccia.
Genere: Drammatico, Storico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Novecento/Dittature
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La luna era un pallido fantasma immerso nell’oscurità della notte.
I suoi raggi argentei rendevano tutto più scuro, anche i grossi lividi che mi segnavano le braccia.
A quell’ora di notte ci era vietato stare fuori dal capanno ma eravamo più di mille bambini là dentro e il caldo opprimente di Luglio era davvero insopportabile in quelle condizioni.
Per loro non eravamo altro che un ammasso di carne calda, zozza e inutile.
Giacevo sul terriccio bagnato, la testa fra le gambe ossute, le dita picchiattanti sulla testa rasata, il sudore che colava giù per la schiena, lento e denso.
Mi prudeva il palato per la fame, i crampi allo stomaco invece erano diventati una parte di me.
A volte non ci facevo neanche caso.
Sotto i vestiti a brandelli e incrostati di sangue, vedevo la forma delle costole premere contro l’ormai sottile strato di pelle.
I miei capelli corvini, un tempo lucidi e morbidi, stavano ricrescendo velocemente, ruvidi e duri, come la barba di papà.
<< Papà… >> sussurrai nel silenzio.
Quando mi avevano strappato dalle sue braccia con forza, avevo capito che non l’avrei più rivisto.
Mai più.
Avevo sentito forti pugni allo stomaco, lucciconi che debordavano copiosi sulle mie guance e il cuore scricchiolare sotto il peso della verità. Papà urlava il mio nome, più volte, dimenandosi fra i polizziotti, con gli occhi scuri gonfi e rossi, le mani sporche che si protendevano verso di me.
Qualcuno mi afferrò da dietro le spalle e mi trascinò via. Non opponevo resistenza, ero intenta a guardare allontanarsi la figura di mio padre, a udire la sua voce farsi sempre più flebile, prima che qualcuno mi chiudesse nel capannone, insieme agli altri bambini.
Affondai le unghia nel terra molle, stringendola con forza, fin quando le nocche sbiancarono.
Avevo mille sogni, mille progetti, mille speranze, mille desideri.
Avrei voluto prendere il massimo dei voti in matematica.
Avrei voluto giocare a palla con Xavier, il figlio dei miei vicini, “testolina bionda” lo chiamavano i miei genitori.
Avrei voluto diventare uan famosa ballerina di danza classica.
Avrei voluto sposarmi, avere dei figli, dei nipoti.
Avrei voluto invecchiare con a fianco mio marito, fissando il tramonto, mano nella mano.
Eppure non potevo.
Perché ero un’ebrea.
Una “sporca, bastarda, ebrea” mi aveva definito l’uomo che mi aveva rasato i capelli.
Ma cosa avevamo di diverso io e lui?
Non eravamo due esseri umani? Cosa cambiava?
L’aspetto? L’accento? I vestiti? La cultura? L’eleganza?
Cosa?
La mia voglia di vivere non era esattamente uguale a qualsiasi altra bambina tedesca o francese?
Il mio sorriso non era esattamente uguale a quello di qualsiasi altra bambina tedesca o francese?
I miei sogni erano davvero qualcosa di proibito, e non come quelli di una bambina tedesca o francese?
Mi alzai di scatto, lanciando per aria il terriccio che tenevo fra le mani. Urlai, con quanto più fiato avevo in corpo, strappandomi i vestiti, strappando gli ultimi brandelli del mio cuore, della mia dignità.
Mi accasciai a terra, priva di forze, col cuore che annaspava nel petto, con la gola che prudeva tanto avevo gridato. Sentivo la terra in bocca, tra i denti e sulla lingua, e presto si mescolò alle lacrime salate che mi rigavano le guance.
Sentii afferrarmi per l’orecchio. << Cosa ci fai tu qui fuori? >>.
Era uno dei polizziotti, mi tirava con troppa forza l’orecchio. Mi lamentai, ma non ne volle sapere niente e mi diede uno schiaffo, facendomi barcollare e crollare a terra.
Mi afferrò nuovamente e iniziò a darmi pizzicotti, incurante delle mie lacrime. << Sudicia ebrea, devi rispettare le regole, capisci? Ma voi siete solo animali, non conoscete le regole! >>.
Continuava a torturarmi, percepivo i capillari spaccarsi tanto erano forti i pizzicotti. Mi diede un altro schiaffo e mi mise in spalla, pizzicandomi il sedere. Urlai, tra i denti, affondandoli nelle labbra, stringendo la sua uniforme.
<< Così impari, bastarda! >>.
Mi gettò dentro il capanno, come fossi un agnello abbattuto. Forse lo ero.
<< E resta lì! >> tuonò prima di sbattere la grande porta di legno.
Tra un colpo di tosse e un gemito, mi trascinai dolorante verso la paglia, aggrappandomi all’humus freddo, strisciando le gambe e sputando sangue.
Senza neanche voltarmi, sapevo che i bambini mi guardavano paralizzati e impauriti. Non provavano ad aiutarmi, sapevano di non poter fare niente se non lasciarmi in pace.
Arrivai al giaciglio di paglia ormai fradicio di sudore, lacrime e vomito e mi acquattai su me stessa, continuando a piangere.
La mamma avrebbe saputo come consolarmi, anche in un momento come quello.
Mi avrebbe accarezzato la nuca, baciandomi la guancia, stringendomi a sé.
Ma le avevano sparato quando aveva tentato di nascondermi sotto il letto matrimoniale.
Odiavo i tedeschi. Avrei voluto che morissero.
Mi sfilai la maglietta a brandelli e me la strinsi intorno al collo, chiudendo gli occhi.
Non gli avrei dato la soddisfazione di uccidermi, no.
Decidendo così di decidere per un’ultima volta.

   
 
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