Searching
“Che
mi succede, che ogni rumore mi spaventa?
E
queste mani! Ah mi strappano gli occhi!
Potrà
tutto il grande oceano di Nettuno
Lavare
questo sangue via dalle mie mani?
No,
piuttosto questa mia mano tingerà
Di
carne viva i mari innumerevoli
Mutando
il verde in un unico rosso.”
(Shakesperare, “Macbeth”)
8. Vicolo cieco
L’orologio
digitale appoggiato sul comodino segnava le undici. Fuori era buio ormai da due
ore, e a tratti alcune raffiche di vento fresco portavano via con sé l’afa
della giornata. Ran osservò la pistola poggiata ai
margini del letto. Gliel’aveva lasciata Gin quando l’aveva riportata
all’appartamento. Per cosa poi? Quell’aggeggio era ancora scarico. Dovette
ammettere che, se così non fosse stato, durante quell’interminabile pomeriggio
l’avrebbe forse puntata contro di sé. Per mettere fine a tutto, senza causare
la morte di altre persone. Per poter finalmente tornare da Shinichi.
Lui le mancava così tanto. A volte immaginava di essere tra le sue braccia, di
sentire il tocco leggero di lui sulla sua pelle. Immaginava di poterlo baciare,
come mai aveva fatto. Ed era allora che la tristezza lasciava posto alla
rabbia. L’odio verso chi le aveva portato via ogni speranza. Verso quel
maledetto corvo biondo. Ci aveva riflettuto a lungo, ed era arrivata alla
conclusione che gli uomini dell’Organizzazione avessero somministrato a Shinichi qualche strano farmaco, in grado di farlo tornare
bambino. Aveva sentito qualche volta in alcuni documentari che ormai i grandi
scienziati e ricercatori erano in grado di creare pillole capaci di dar luogo
ad effetti impensabili per le persone comuni. Forse quegli uomini avevano al
loro servizio qualcuno di questi scienziati.
Ran
si soffermò ancora qualche minuto a pensare a Shinichi
nei panni di Conan. Quando doveva aver sofferto, standole sempre accanto e non
potendole rivelare la verità. Perché non era stata in grado di capirlo? Sentì
un fitta stringerle il cuore. In fin dei conti, era stata una stupida.
Lo
scatto della serratura della porta d’entrata interruppe il flusso dei suoi
pensieri. Era il momento. Nascose la pistola sotto la giacca e uscì dalla
camera. Gin era lì, ritto in piedi.
“E’
ora. Andiamo.”
Ran
lo seguì senza fiatare. I loro passi risuonavano pesanti sulle scalinate che
conducevano al portone di quella palazzina disabitata e malridotta. Prima di
uscire, Ran si guardò indietro. Aveva la strana
sensazione che non sarebbe mai più ritornata lì. Non sapeva se interpretarla
come un bene o come un male: per il momento, decise di non pensarci.
Si
lasciò sprofondare sul sedile anteriore della Porsche e osservò quelle vie male
illuminate scorrerle davanti. Si stavano probabilmente dirigendo verso il
quartiere malfamato di cui Gin le aveva parlato quel pomeriggio. Doveva avere
più informazioni possibili sulla posizione degli altri uomini
dell’Organizzazione: solo in quel modo poteva sperare di riuscire nel suo
intento. Sparare a Gin prima di dover sparare a quell’imprenditore che, per
quanto libertino, era pur sempre innocente. Almeno per quanto ne sapeva. Ebbe
un’altra fitta di rimorso, unita ad un fastidioso senso di colpa. Le bastò
guardare Gin perché la rabbia prendesse nuovamente il sopravvento. Quell’odioso
essere avvolto dal mantello nero le faceva ancora più ribrezzo ora che il buio
della notte non le permetteva di scorgerne distintamente i lineamenti.
“La
mia pistola è scarica.” disse, tanto per non insospettirlo con il suo silenzio.
E poi, una pistola non funzionante non le sarebbe servita ad un bel niente.
“La
caricheremo a tempo debito.” rispose lui.
Ran
si sentì persa per un istante. E se lui avesse capito tutto?, pensò. No, non
poteva essere. Forse sospettava qualcosa, ma di sicuro non poteva leggere i
suoi pensieri. Non era il caso di darsi per vinta.
Fece
nuovamente silenzio e ricominciò a guardarsi intorno. Stavano attraversando
strade malridotte e le continue buche la facevano sussultare sul sedile. L’uomo
invece sembrava impassibile.
Non
c’erano molte persone in giro. Qualche gruppo di ubriachi o qualche donna dai
tacchi alti e dalle minigonne da capogiro camminavano su quei marciapiedi
sporchi. Di tanto in tanto si intravedeva anche qualche uomo che si guardava
intorno con aria circospetta, fermando ogni persona che gli capitasse a tiro e
chiedendole qualcosa che Ran non poteva sentire.
Immaginò che fossero spacciatori. All’improvviso vide un omone camminare,
vestito di nero e con gli occhiali da sole. Era Vodka, non c’era dubbio. Gin
doveva aver sguinzagliato i suoi scagnozzi in giro per l’isolato. Le
probabilità che il suo piano riuscisse erano davvero basse.
Accostarono
circa cinquecento metri più avanti, nei pressi di una casupola da un cartello
luminoso. Un locale notturno. Doveva essere quello il posto.
Gin
spense la macchina e i fari. Poi si accese una sigaretta, mentre Ran si guardava intorno. C’erano solo palazzi bassi in
quella via. Dove poteva essere il famoso cecchino?
“E
allora, dov’è?”
“Chi?”
rispose lui, senza nemmeno guardarla.
“Il
tuo cecchino.”
Inspirò
profondamente prima di rispondere. “La possibilità che piova è troppo alta. Ho
preferito schierare i miei uomini a terra, dove potranno essere più utili.
Dammi la tua pistola.”
Ran
la estrasse dalla giacca e gliela porse. Come immaginava, Gin prese a caricargliela.
Ci mise meno di un minuto. Sembrava abituato a fare cose di quel genere. Ran, da parte sua, non si stupì più di tanto. Quando la
riprese, notò che l’uomo la stava guardando di sottecchi. Uno strano sguardo,
come a dire “non fare brutti scherzi”. Che stupida. Forse l’ansia e la paura le
stavano facendo immaginare tutto.
“Qual
è il piano?” si affrettò a dire, per scacciare ogni tipo di pensiero.
“Entreremo
nel locale, lo attireremo vicino all’uscita sul retro. Non è sorvegliata. Lì
farai quello che devi. E poi ce ne andremo così come siamo venuti. Nulla di più
facile.”
Ran
si chiese se la stesse prendendo in
giro. Come poteva essere facile
ammazzare una persona?
Si
limitò ad annuire ed entrambi scesero dalla macchina. Gin camminava avanti e Ran lo seguiva. L’uomo imboccò una via laterale adiacente
all’entrata e Ran immaginò che volesse entrare dal
retro. Effettivamente, dopo poco trovarono una porticina chiusa. Era l’entrata
di servizio.
“Hai
le chiavi?” chiese lei, a cui l’ansia faceva fare anche le domande più stupide.
Gin non la calcolò nemmeno. Con un colpo di pistola fece saltare la serratura.
Il silenziatore evitò che qualcuno nelle immediate vicinanze potesse sentirli.
Ma comunque, in quel quartiere un colpo di pistola notturno non doveva essere
qualcosa di raro.
Entrarono.
Si ritrovarono in un piccolo corridoio. La musica assordante del locale
giungeva fin lì ovattata, come se si trovassero in una enorme bolla di sapone.
Sul corridoio davano alcune porte, tutte socchiuse. A giudicare da quanto si
poteva intravedere, dovevano essere i camerini delle ballerine. In fondo, vi
era una porta leggermente più spessa. Ran pensò che
si trattasse dell’accesso diretto al locale.
“Ora
zitta e ascoltami.” iniziò lui, “Ci penso io ad attirarlo qui. Basterà dare
qualche soldo ad una ballerina per convincerla a portare il nostro uomo nel suo
camerino. Nasconditi lì.” disse, indicando la prima porta, la più vicina a
quella principale, “terrai la porta socchiusa. Giusto lo spazio per guardare e
sparare. Ora ascoltami attentamente. Una volta tornato, io andrò a posizionarmi
nel camerino più vicino alla porta sul retro. Ci penserò io a finire l’uomo nel
caso in cui tu fallisca. E’ tutto chiaro?”
La
osservava con quei suoi occhi verdi e penetranti. Lei ebbe la sgradevole
sensazione che lui stesse provando a frugarle nell’anima. Non poté fare altro
che annuire, nonostante si sentisse tutto tranne che pronta. Andò a nascondersi
nel camerino indicatole, socchiudendo la porta, mentre Gin si dirigeva
all’interno del locale. Per un attimo la musica assordante le colpì
direttamente le orecchie. Poi, quando l’uomo richiuse l’uscio dietro di sé, i
suoni tornarono di nuovo attutiti. Ora poteva sentire chiaro e distinto solo il
battito del suo cuore, un martellare continuo che le squarciava il petto.
All’interno
della piccola stanzetta c’era un divanetto pieno di vestiti scollati e
parrucche. Scarpe dai tacchi alti erano buttate qua e là sul pavimento. Un
tavolino pieno di matite per occhi, ombretti aperti e rossetti si trovava nell’angolino,
davanti ad uno specchio sporco. Qualche foto era attaccata alla parete.
Ran
strinse la pistola nelle mani sudate e ripassò mentalmente le istruzioni che
aveva sentito quella volta, al commissariato di polizia. Ce l’avrebbe fatta. Si
tolse le scarpe scomode e le buttò fra le tante che erano sparse per la sala.
Sarebbe fuggita a piedi nudi, per correre più veloce. Se fosse riuscita a
fuggire.
Aveva
ormai deciso il momento in cui la sua vendetta avrebbe dovuto consumarsi. Gin
sarebbe rientrato di lì a poco e le avrebbe dato le spalle, per andare a
nascondersi nel camerino in fondo al corridoio, vicino all’entrata. Aveva solo
qualche secondo a disposizione. Non c’era tempo per i ripensamenti. Che
cos’altro poteva fare? Le opzioni erano tre: sparare a Gin, sparare
all’uomo-preda, o sparare a se stessa. Poteva farcela. Doveva farcela.
Quando
sentì la porta che dava sul locale aprirsi, ebbe un fremito. Era il momento. Si
mise in posizione, l’occhio appoggiato sulla fessura tra la porta e lo stipite,
la pistola puntata. Riconobbe i passi dal suono lento e cadenzato. Era lui. E
non sembrava nemmeno tanto preoccupato, a giudicare dalla calma con cui
camminava. Mentre sentiva i passi avvicinarsi, tutta la sua vita le scorse
davanti. Tutta la sua vita, che era stata caratterizzata da una sola persona. Shinichi. Il suo
compagno di giochi, il suo migliore amico, quello che lei si era accorta di
amare troppo tardi per poterlo riavere. I loro pomeriggi al parco da bambini,
quando avevano ancora tanti sogni, che credevano di poter realizzare insieme. I
primi casi in cui Shinichi era stato coinvolto e lei
sempre al suo fianco, nel tentativo di aiutarlo a risolverli. Le loro serate al
cinema, con Shinichi perennemente in ritardo per
essersi fermato troppo al commissariato. Le lavate di capo di suo padre, quando
lei, certe sere, faceva un po’ troppo tardi per avere solo sedici anni. I
pomeriggi passati sui libri, nel tentativo di studiare, che sfociavano poi
sempre in una marea di scherzi e risate. Le prese in giro di Sonoko, che li chiamava i “due piccioncini”. La loro vita
tranquilla e normale, fino a quando non era stata sconvolta dal volo funesto di
quel dannato corvo. E tutto che si concludeva con un piccolo corpicino
abbandonato nei pressi del porto.
Bastardo,
pensò. La sagoma nera era appena passata oltre il suo camerino. Si era fermata.
Si stava girando. Le mani le tremavano. Non era paura, era solo rabbia e
dolore. Strinse più forte la pistola. Lui si stava ancora girando.
Non
avrebbe saputo dire quando incominciò a sparare. Era come in trance. I tre
colpi partirono netti, senza una mira precisa. La vista annebbiata dalle
lacrime le impediva di vedere correttamente. Sentì un tonfo sordo. L’uomo era
caduto a terra. Aprì piano la porta, con la pistola ancora in pugno. Ciò che
vide le provocò un conato di vomito.
Il
Corvo era lì, a terra, un grosso buco all’altezza del collo. Gli occhi
sbarrati, la bocca contorta nel silenzio della morte. Era come un fantoccio, il
volto immerso in una pozza scura. Non poté trattenere il conato. Cadde in
ginocchio, il rancore era sparito come neve al sole. Che cosa aveva fatto? In
quale mostro si era trasformata? Aveva ucciso. Proprio come aveva fatto loro.
Che cosa poteva ora distinguerla da quegli uomini? Le lacrime iniziarono a scorrere.
Era sconvolta, ritornata finalmente in sé dopo due giorni di totale trance. In
che cosa può trasformare l’odio?
A
riscuoterla dai suoi pensieri arrivò il suono della porta che si apriva. Ran alzò lo sguardo. La ballerina ingaggiata da Gin stava entrando,
seguita dalla vittima dell’Organizzazione. Quando la donna vide quell’orrido
spettacolo, lanciò un urlo. Ran prese la pistola,
poggiata a terra, e iniziò a correre, dandosi alla fuga tramite la porta sul
retro.
Correva
all’impazzata per quelle stradine buie. Si sentiva seguita, sapeva che ben
presto Vodka e gli altri scagnozzi si sarebbero accorti di tutto e l’avrebbero
cercata, anche in capo al mondo. L’urlo della donna continuava a riecheggiarle
nella mente e il corpo di Gin, pallido in quel lago di sangue, era
continuamente davanti ai suoi occhi.
Sentiva
il freddo dell’asfalto sui piedi nudi e più di una volta un forte bruciore
intervenne a distrarla dai suoi pensieri senza filo logico. Doveva essersi
tagliata, correndo in quelle strade sporche senza alcuna protezione. Imboccò
una piccola stradina laterale e continuò a correre, incurante dei topi che le
tagliavano a tratti la strada. Poi, d’improvviso, sbatté contro un muro. Quello
era un vicolo cieco. Era lì che l’avevano portata le sue azioni? In una strada
senza via d’uscita? Sorrise amaramente, nascondendosi dietro un barile alto
circa la metà e di lei, e poggiando le spalle al muro. La pistola era ancora
lì, nella sua mano.
Cosa
ne era stato dell’adorabile figlia del detective Mouri?
Della ragazza dolce e gentile, conosciuta da tutti per la sua bontà? Ora era
un’assassina nascosta in un vicolo che puzzava di marcio quanto la sua anima
macchiata.
Si
sentiva al capolinea. E pensare che solo una settimana prima non avrebbe mai
immaginato nulla del genere! La verità l’aveva distrutta e il rancore l’aveva
portata a commettere la peggiore delle azioni. Forse sarebbe stato davvero
meglio non sapere nulla, come diceva Yukiko.
Si
ritrovò a piangere. Quanto le mancava Shinichi.
Avrebbe voluto averlo lì con lei. Eppure ora non si sentiva più degna di lui:
aveva ucciso. E, per quanto la sua vittima fosse stato il più deplorevole degli
uomini, il suo gesto non era giustificabile.
“Perdonami,
Shinichi.” mormorò piano, la voce spezzata dalle
lacrime, “Perdonami. Perché io non ho saputo perdonare loro.”
Le
sembrò di sentire dei passi pesanti nei pressi della stradina dov’era nascosta.
Un omone si stava probabilmente avvicinando. Forse era Vodka o forse era
semplicemente un ubriaco. Si sporse leggermente, per guardare oltre il barile
che la nascondeva. Una figura imponente si stagliava circa cento metri più avanti. Strinse i denti
e la pistola, preparandosi a combattere la sua ultima battaglia. I piedi
feriti, la mani sporche di sangue e l’anima in mille pezzi.
Un
bagliore improvviso illuminò il vicolo. Poi un suono sordo e potente. Un tuono.
Già, pensò Ran. Per quel giorno avevano previsto
pioggia.
Angolino
autrice:
La scorsa estate ho letto un libro, ma lo
ricordo in gran parte come se l’avessi letto ieri. Ero arrivata all’ultimo
capitolo con una voglia matta di scoprire come l’autore avesse deciso di porre
fine alla storia: ho letteralmente divorato le ultime pagine. Finito il
capitolo, sono rimasta di sasso. Il libro terminava con il protagonista
nascosto tra gli alberi su una collina, con una ferita che gli impediva di
muoversi. Aveva fatto fuggire la sua amata, ma lui non aveva scampo, il nemico
stava arrivando e l’avrebbe presto trovato. E il libro finisce così: lui, steso
e ferito, che imbraccia il fucile e prende la mira contro il comandante nemico.
Nulla di più nulla di meno.
Per qualche interminabile minuto ho
odiato l’autore. Come poteva lasciarmi così? Poi, ho riflettuto un po’ meglio
su quel finale. La parte razionale e cosciente di me mi diceva che ormai il
protagonista era bello che spacciato: anche se fosse riuscito a colpire il
comandante, gli altri l’avrebbero trovato. E comunque, con quella ferita non
sarebbe andato lontano. Eppure, la parte più irrazionale e sentimentale di me
mi diceva che forse, chissà, c’era ancora qualche speranza per lui. E ancora
oggi, a un anno di distanza, quel libro è sempre qui, nel mio cuore, e io penso
a cosa possa essere successo a quel soldato. Dopo aver odiato l’autore per quei
primi minuti, ora lo amo incondizionatamente per aver scelto quel finale che, anche se in fin dei
conti implicitamente lapidario per quanto riguarda la sorte del protagonista,
lascia al lettore la possibilità di sperare, di fare quel libro un po’ suo. Non
cito il titolo del romanzo, per non rovinare la sorpresa a chi eventualmente
avesse intenzione di leggerlo.
Tutto questo per spiegare la fine che ho
voluto dare a questa fan fiction. Anche in questo caso il finale è
oggettivamente lapidario. Eppure c’è ancora la possibilità di sperare: siete
liberi di immaginare ciò che volete sulla sorte di Ran.
Ho voluto che questa storia fosse anche un po’ vostra.
Quando l’ho scritta, circa un mese fa,
dopo aver concluso questo capitolo, mi sono detta: “Basta. Finisce qui.” . Non
so se vi capita, quando scrivete: a volte è la storia stessa che vi dice quando
è giusto terminarla. Spero che sappiate in qualche modo apprezzare la
conclusione che ho scelto.
Per quanto riguarda la fan fiction in sé,
forse devo spendere qualche parola per spiegare il perché di questa trama
assolutamente fuori dagli schemi. Insomma, dopo averla scritta, ho pensato:
“Accidenti. Questo è tutto quello che vorrei non succedesse nel manga.”
Come mai quindi ho scritto una cosa del
genere? Diciamo che in generale in ogni mia storia mi piace sempre inserire un
filo conduttore: se in “Gocce di Sherry” era la libertà, qui è l’odio, il
desiderio di vendetta, il rancore. Ho voluto provare a mostrare come spesso
l’odio può cambiare totalmente un uomo, e come il rancore sia il sentimento più
difficile da vincere. Perché ci domina e ci sottomette, fino a farci diventare
degli strumenti nelle sue mani. Queste riflessioni sono partite da una frase
che ha pronunciato una volta una persona che conosco: “E’ proprio vero che
l’odio comune unisce più di qualsiasi altra cosa.” E purtroppo ha ragione. E’
sempre così: nelle guerre mondiali come nelle storie di vita quotidiana. Se
aggiungiamo il fatto che ho passato un anno di scuola a studiare tragedie greche,
potrete ben capire il mix da cui questa storia è saltata fuori.
Forse, però, ho rappresentato una Ran un po’ tendente all’OOC. Non saprei giudicare, quindi
mi piacerebbe sapere il vostro parere a riguardo: ritenete indispensabile l’
avvertimento OOC?
Spero di essere riuscita a trasmettervi
qualcosa con questa fan fiction. Un ringraziamento grandissimo va a chi ha
recensito, a chi l’ha seguita, a chi l’ha messa tra le preferite o ricordate.
Penso che il grazie più grande vada a Aya_Brea, che ha recensito ogni singolo capitolo e che mi
sostiene sempre. Grazie, Ayetta <3
E questo è proprio un disegno di Ran “Mibbica” che ha fatto lei
dopo aver letto il capitolo 7:
http://fc08.deviantart.net/fs70/f/2012/220/e/a/ran_mib_version_by_ayabrea9-d5ack0v.jpg
Vi piace? Io lo trovo semplicemente
divino!
Scusate per queste note finali così
lunghe, ma volevo spendere qualche parola sulla storia. Un’ultima cosa.. chi di
voi ha notato qualcosa riguardo alla frase finale? Mi piacerebbe proprio sapere
se vi siete accorti di una cosina..:)
Grazie ancora a tutti coloro che mi hanno
seguita!
Ci si risente/rilegge/rivede su EFP!
Un bacione,
Flami