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Autore: Flami Destrangis    09/08/2012    4 recensioni
“Per un attimo le sembrò di aver dimenticato tutto. Il telefono perso, il motivo per cui si trovava lì, le preoccupazioni degli ultimi mesi. Kogoro, Shinichi, Conan, Sonoko.. le sembravano solo nomi lontani. Poi, la realtà tornò a bussare con insistenza alla porta. E per quanto lei non volesse aprire, prima o poi la realtà si stufava di aspettare. Estraeva la chiave di scorta e apriva la porticina della sua mente, irrompendo come un fiume in piena.”
In un giorno di primavera, Conan scompare improvvisamente. L’ultima immagine che Ran ha di lui è quella di un bambino che corre, attirato da una strana Porsche nera parcheggiata nelle vicinanze. Due giorni dopo, il suo corpo viene ritrovato nei pressi del porto. Chi è stato? Ran è sempre più confusa, al dolore per la morte di Conan si aggiunge lo strano e improvviso silenzio di Shinichi. Perché non la chiama più?
Per mantenere viva la speranza di ritrovarlo, Ran decide di partire. Un viaggio alla ricerca di Shinichi, un percorso che la porterà in giro per il Giappone, tra città sconosciute, antichi templi e una leggenda che assomiglia fin troppo alla sua storia. Finché la leggenda non si tramuterà in realtà.
Genere: Azione, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro Personaggio, Kogoro Mori, Ran Mori | Coppie: Ran Mori/Shinichi Kudo
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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“Che mi succede, che ogni rumore mi spaventa?

E queste mani! Ah mi strappano gli occhi!

Potrà tutto il grande oceano di Nettuno

Lavare questo sangue via dalle mie mani?

No, piuttosto questa mia mano tingerà

Di carne viva i mari innumerevoli

Mutando il verde in un unico rosso.”

 

(Shakesperare, “Macbeth”)

 

8. Vicolo cieco

 

L’orologio digitale appoggiato sul comodino segnava le undici. Fuori era buio ormai da due ore, e a tratti alcune raffiche di vento fresco portavano via con sé l’afa della giornata. Ran osservò la pistola poggiata ai margini del letto. Gliel’aveva lasciata Gin quando l’aveva riportata all’appartamento. Per cosa poi? Quell’aggeggio era ancora scarico. Dovette ammettere che, se così non fosse stato, durante quell’interminabile pomeriggio l’avrebbe forse puntata contro di sé. Per mettere fine a tutto, senza causare la morte di altre persone. Per poter finalmente tornare da Shinichi. Lui le mancava così tanto. A volte immaginava di essere tra le sue braccia, di sentire il tocco leggero di lui sulla sua pelle. Immaginava di poterlo baciare, come mai aveva fatto. Ed era allora che la tristezza lasciava posto alla rabbia. L’odio verso chi le aveva portato via ogni speranza. Verso quel maledetto corvo biondo. Ci aveva riflettuto a lungo, ed era arrivata alla conclusione che gli uomini dell’Organizzazione avessero somministrato a Shinichi qualche strano farmaco, in grado di farlo tornare bambino. Aveva sentito qualche volta in alcuni documentari che ormai i grandi scienziati e ricercatori erano in grado di creare pillole capaci di dar luogo ad effetti impensabili per le persone comuni. Forse quegli uomini avevano al loro servizio qualcuno di questi scienziati.

Ran si soffermò ancora qualche minuto a pensare a Shinichi nei panni di Conan. Quando doveva aver sofferto, standole sempre accanto e non potendole rivelare la verità. Perché non era stata in grado di capirlo? Sentì un fitta stringerle il cuore. In fin dei conti, era stata una stupida.

Lo scatto della serratura della porta d’entrata interruppe il flusso dei suoi pensieri. Era il momento. Nascose la pistola sotto la giacca e uscì dalla camera. Gin era lì, ritto in piedi.

“E’ ora. Andiamo.”

Ran lo seguì senza fiatare. I loro passi risuonavano pesanti sulle scalinate che conducevano al portone di quella palazzina disabitata e malridotta. Prima di uscire, Ran si guardò indietro. Aveva la strana sensazione che non sarebbe mai più ritornata lì. Non sapeva se interpretarla come un bene o come un male: per il momento, decise di non pensarci.

Si lasciò sprofondare sul sedile anteriore della Porsche e osservò quelle vie male illuminate scorrerle davanti. Si stavano probabilmente dirigendo verso il quartiere malfamato di cui Gin le aveva parlato quel pomeriggio. Doveva avere più informazioni possibili sulla posizione degli altri uomini dell’Organizzazione: solo in quel modo poteva sperare di riuscire nel suo intento. Sparare a Gin prima di dover sparare a quell’imprenditore che, per quanto libertino, era pur sempre innocente. Almeno per quanto ne sapeva. Ebbe un’altra fitta di rimorso, unita ad un fastidioso senso di colpa. Le bastò guardare Gin perché la rabbia prendesse nuovamente il sopravvento. Quell’odioso essere avvolto dal mantello nero le faceva ancora più ribrezzo ora che il buio della notte non le permetteva di scorgerne distintamente i lineamenti.

“La mia pistola è scarica.” disse, tanto per non insospettirlo con il suo silenzio. E poi, una pistola non funzionante non le sarebbe servita ad un bel niente.

“La caricheremo a tempo debito.” rispose lui.

Ran si sentì persa per un istante. E se lui avesse capito tutto?, pensò. No, non poteva essere. Forse sospettava qualcosa, ma di sicuro non poteva leggere i suoi pensieri. Non era il caso di darsi per vinta.

Fece nuovamente silenzio e ricominciò a guardarsi intorno. Stavano attraversando strade malridotte e le continue buche la facevano sussultare sul sedile. L’uomo invece sembrava impassibile.

Non c’erano molte persone in giro. Qualche gruppo di ubriachi o qualche donna dai tacchi alti e dalle minigonne da capogiro camminavano su quei marciapiedi sporchi. Di tanto in tanto si intravedeva anche qualche uomo che si guardava intorno con aria circospetta, fermando ogni persona che gli capitasse a tiro e chiedendole qualcosa che Ran non poteva sentire. Immaginò che fossero spacciatori. All’improvviso vide un omone camminare, vestito di nero e con gli occhiali da sole. Era Vodka, non c’era dubbio. Gin doveva aver sguinzagliato i suoi scagnozzi in giro per l’isolato. Le probabilità che il suo piano riuscisse erano davvero basse.

Accostarono circa cinquecento metri più avanti, nei pressi di una casupola da un cartello luminoso. Un locale notturno. Doveva essere quello il posto.

Gin spense la macchina e i fari. Poi si accese una sigaretta, mentre Ran si guardava intorno. C’erano solo palazzi bassi in quella via. Dove poteva essere il famoso cecchino?

“E allora, dov’è?”

“Chi?” rispose lui, senza nemmeno guardarla.

“Il tuo cecchino.”

Inspirò profondamente prima di rispondere. “La possibilità che piova è troppo alta. Ho preferito schierare i miei uomini a terra, dove potranno essere più utili. Dammi la tua pistola.”

Ran la estrasse dalla giacca e gliela porse. Come immaginava, Gin prese a caricargliela. Ci mise meno di un minuto. Sembrava abituato a fare cose di quel genere. Ran, da parte sua, non si stupì più di tanto. Quando la riprese, notò che l’uomo la stava guardando di sottecchi. Uno strano sguardo, come a dire “non fare brutti scherzi”. Che stupida. Forse l’ansia e la paura le stavano facendo immaginare tutto.

“Qual è il piano?” si affrettò a dire, per scacciare ogni tipo di pensiero.

“Entreremo nel locale, lo attireremo vicino all’uscita sul retro. Non è sorvegliata. Lì farai quello che devi. E poi ce ne andremo così come siamo venuti. Nulla di più facile.”

Ran si chiese se la stesse prendendo in  giro. Come poteva essere facile ammazzare una persona?

Si limitò ad annuire ed entrambi scesero dalla macchina. Gin camminava avanti e Ran lo seguiva. L’uomo imboccò una via laterale adiacente all’entrata e Ran immaginò che volesse entrare dal retro. Effettivamente, dopo poco trovarono una porticina chiusa. Era l’entrata di servizio.

“Hai le chiavi?” chiese lei, a cui l’ansia faceva fare anche le domande più stupide. Gin non la calcolò nemmeno. Con un colpo di pistola fece saltare la serratura. Il silenziatore evitò che qualcuno nelle immediate vicinanze potesse sentirli. Ma comunque, in quel quartiere un colpo di pistola notturno non doveva essere qualcosa di raro.

Entrarono. Si ritrovarono in un piccolo corridoio. La musica assordante del locale giungeva fin lì ovattata, come se si trovassero in una enorme bolla di sapone. Sul corridoio davano alcune porte, tutte socchiuse. A giudicare da quanto si poteva intravedere, dovevano essere i camerini delle ballerine. In fondo, vi era una porta leggermente più spessa. Ran pensò che si trattasse dell’accesso diretto al locale.

“Ora zitta e ascoltami.” iniziò lui, “Ci penso io ad attirarlo qui. Basterà dare qualche soldo ad una ballerina per convincerla a portare il nostro uomo nel suo camerino. Nasconditi lì.” disse, indicando la prima porta, la più vicina a quella principale, “terrai la porta socchiusa. Giusto lo spazio per guardare e sparare. Ora ascoltami attentamente. Una volta tornato, io andrò a posizionarmi nel camerino più vicino alla porta sul retro. Ci penserò io a finire l’uomo nel caso in cui tu fallisca. E’ tutto chiaro?”

La osservava con quei suoi occhi verdi e penetranti. Lei ebbe la sgradevole sensazione che lui stesse provando a frugarle nell’anima. Non poté fare altro che annuire, nonostante si sentisse tutto tranne che pronta. Andò a nascondersi nel camerino indicatole, socchiudendo la porta, mentre Gin si dirigeva all’interno del locale. Per un attimo la musica assordante le colpì direttamente le orecchie. Poi, quando l’uomo richiuse l’uscio dietro di sé, i suoni tornarono di nuovo attutiti. Ora poteva sentire chiaro e distinto solo il battito del suo cuore, un martellare continuo che le squarciava il petto.

All’interno della piccola stanzetta c’era un divanetto pieno di vestiti scollati e parrucche. Scarpe dai tacchi alti erano buttate qua e là sul pavimento. Un tavolino pieno di matite per occhi, ombretti aperti e rossetti si trovava nell’angolino, davanti ad uno specchio sporco. Qualche foto era attaccata alla parete.

Ran strinse la pistola nelle mani sudate e ripassò mentalmente le istruzioni che aveva sentito quella volta, al commissariato di polizia. Ce l’avrebbe fatta. Si tolse le scarpe scomode e le buttò fra le tante che erano sparse per la sala. Sarebbe fuggita a piedi nudi, per correre più veloce. Se fosse riuscita a fuggire.

Aveva ormai deciso il momento in cui la sua vendetta avrebbe dovuto consumarsi. Gin sarebbe rientrato di lì a poco e le avrebbe dato le spalle, per andare a nascondersi nel camerino in fondo al corridoio, vicino all’entrata. Aveva solo qualche secondo a disposizione. Non c’era tempo per i ripensamenti. Che cos’altro poteva fare? Le opzioni erano tre: sparare a Gin, sparare all’uomo-preda, o sparare a se stessa. Poteva farcela. Doveva farcela.

Quando sentì la porta che dava sul locale aprirsi, ebbe un fremito. Era il momento. Si mise in posizione, l’occhio appoggiato sulla fessura tra la porta e lo stipite, la pistola puntata. Riconobbe i passi dal suono lento e cadenzato. Era lui. E non sembrava nemmeno tanto preoccupato, a giudicare dalla calma con cui camminava. Mentre sentiva i passi avvicinarsi, tutta la sua vita le scorse davanti. Tutta la sua vita, che era stata caratterizzata da una sola persona. Shinichi. Il suo compagno di giochi, il suo migliore amico, quello che lei si era accorta di amare troppo tardi per poterlo riavere. I loro pomeriggi al parco da bambini, quando avevano ancora tanti sogni, che credevano di poter realizzare insieme. I primi casi in cui Shinichi era stato coinvolto e lei sempre al suo fianco, nel tentativo di aiutarlo a risolverli. Le loro serate al cinema, con Shinichi perennemente in ritardo per essersi fermato troppo al commissariato. Le lavate di capo di suo padre, quando lei, certe sere, faceva un po’ troppo tardi per avere solo sedici anni. I pomeriggi passati sui libri, nel tentativo di studiare, che sfociavano poi sempre in una marea di scherzi e risate. Le prese in giro di Sonoko, che li chiamava i “due piccioncini”. La loro vita tranquilla e normale, fino a quando non era stata sconvolta dal volo funesto di quel dannato corvo. E tutto che si concludeva con un piccolo corpicino abbandonato nei pressi del porto.

Bastardo, pensò. La sagoma nera era appena passata oltre il suo camerino. Si era fermata. Si stava girando. Le mani le tremavano. Non era paura, era solo rabbia e dolore. Strinse più forte la pistola. Lui si stava ancora girando.

Non avrebbe saputo dire quando incominciò a sparare. Era come in trance. I tre colpi partirono netti, senza una mira precisa. La vista annebbiata dalle lacrime le impediva di vedere correttamente. Sentì un tonfo sordo. L’uomo era caduto a terra. Aprì piano la porta, con la pistola ancora in pugno. Ciò che vide le provocò un conato di vomito.

Il Corvo era lì, a terra, un grosso buco all’altezza del collo. Gli occhi sbarrati, la bocca contorta nel silenzio della morte. Era come un fantoccio, il volto immerso in una pozza scura. Non poté trattenere il conato. Cadde in ginocchio, il rancore era sparito come neve al sole. Che cosa aveva fatto? In quale mostro si era trasformata? Aveva ucciso. Proprio come aveva fatto loro. Che cosa poteva ora distinguerla da quegli uomini? Le lacrime iniziarono a scorrere. Era sconvolta, ritornata finalmente in sé dopo due giorni di totale trance. In che cosa può trasformare l’odio?

A riscuoterla dai suoi pensieri arrivò il suono della porta che si apriva. Ran alzò lo sguardo. La ballerina ingaggiata da Gin stava entrando, seguita dalla vittima dell’Organizzazione. Quando la donna vide quell’orrido spettacolo, lanciò un urlo. Ran prese la pistola, poggiata a terra, e iniziò a correre, dandosi alla fuga tramite la porta sul retro.

Correva all’impazzata per quelle stradine buie. Si sentiva seguita, sapeva che ben presto Vodka e gli altri scagnozzi si sarebbero accorti di tutto e l’avrebbero cercata, anche in capo al mondo. L’urlo della donna continuava a riecheggiarle nella mente e il corpo di Gin, pallido in quel lago di sangue, era continuamente davanti ai suoi occhi.

Sentiva il freddo dell’asfalto sui piedi nudi e più di una volta un forte bruciore intervenne a distrarla dai suoi pensieri senza filo logico. Doveva essersi tagliata, correndo in quelle strade sporche senza alcuna protezione. Imboccò una piccola stradina laterale e continuò a correre, incurante dei topi che le tagliavano a tratti la strada. Poi, d’improvviso, sbatté contro un muro. Quello era un vicolo cieco. Era lì che l’avevano portata le sue azioni? In una strada senza via d’uscita? Sorrise amaramente, nascondendosi dietro un barile alto circa la metà e di lei, e poggiando le spalle al muro. La pistola era ancora lì, nella sua mano.

Cosa ne era stato dell’adorabile figlia del detective Mouri? Della ragazza dolce e gentile, conosciuta da tutti per la sua bontà? Ora era un’assassina nascosta in un vicolo che puzzava di marcio quanto la sua anima macchiata.

Si sentiva al capolinea. E pensare che solo una settimana prima non avrebbe mai immaginato nulla del genere! La verità l’aveva distrutta e il rancore l’aveva portata a commettere la peggiore delle azioni. Forse sarebbe stato davvero meglio non sapere nulla, come diceva Yukiko.

Si ritrovò a piangere. Quanto le mancava Shinichi. Avrebbe voluto averlo lì con lei. Eppure ora non si sentiva più degna di lui: aveva ucciso. E, per quanto la sua vittima fosse stato il più deplorevole degli uomini, il suo gesto non era giustificabile.

“Perdonami, Shinichi.” mormorò piano, la voce spezzata dalle lacrime, “Perdonami. Perché io non ho saputo perdonare loro.”

Le sembrò di sentire dei passi pesanti nei pressi della stradina dov’era nascosta. Un omone si stava probabilmente avvicinando. Forse era Vodka o forse era semplicemente un ubriaco. Si sporse leggermente, per guardare oltre il barile che la nascondeva. Una figura imponente si stagliava  circa cento metri più avanti. Strinse i denti e la pistola, preparandosi a combattere la sua ultima battaglia. I piedi feriti, la mani sporche di sangue e l’anima in mille pezzi.

Un bagliore improvviso illuminò il vicolo. Poi un suono sordo e potente. Un tuono. Già, pensò Ran. Per quel giorno avevano previsto pioggia.

 

 

 

 

Angolino autrice:

La scorsa estate ho letto un libro, ma lo ricordo in gran parte come se l’avessi letto ieri. Ero arrivata all’ultimo capitolo con una voglia matta di scoprire come l’autore avesse deciso di porre fine alla storia: ho letteralmente divorato le ultime pagine. Finito il capitolo, sono rimasta di sasso. Il libro terminava con il protagonista nascosto tra gli alberi su una collina, con una ferita che gli impediva di muoversi. Aveva fatto fuggire la sua amata, ma lui non aveva scampo, il nemico stava arrivando e l’avrebbe presto trovato. E il libro finisce così: lui, steso e ferito, che imbraccia il fucile e prende la mira contro il comandante nemico. Nulla di più nulla di meno.

Per qualche interminabile minuto ho odiato l’autore. Come poteva lasciarmi così? Poi, ho riflettuto un po’ meglio su quel finale. La parte razionale e cosciente di me mi diceva che ormai il protagonista era bello che spacciato: anche se fosse riuscito a colpire il comandante, gli altri l’avrebbero trovato. E comunque, con quella ferita non sarebbe andato lontano. Eppure, la parte più irrazionale e sentimentale di me mi diceva che forse, chissà, c’era ancora qualche speranza per lui. E ancora oggi, a un anno di distanza, quel libro è sempre qui, nel mio cuore, e io penso a cosa possa essere successo a quel soldato. Dopo aver odiato l’autore per quei primi minuti, ora lo amo incondizionatamente per aver scelto quel finale che, anche se in fin dei conti implicitamente lapidario per quanto riguarda la sorte del protagonista, lascia al lettore la possibilità di sperare, di fare quel libro un po’ suo. Non cito il titolo del romanzo, per non rovinare la sorpresa a chi eventualmente avesse intenzione di leggerlo.

Tutto questo per spiegare la fine che ho voluto dare a questa fan fiction. Anche in questo caso il finale è oggettivamente lapidario. Eppure c’è ancora la possibilità di sperare: siete liberi di immaginare ciò che volete sulla sorte di Ran. Ho voluto che questa storia fosse anche un po’ vostra.

Quando l’ho scritta, circa un mese fa, dopo aver concluso questo capitolo, mi sono detta: “Basta. Finisce qui.” . Non so se vi capita, quando scrivete: a volte è la storia stessa che vi dice quando è giusto terminarla. Spero che sappiate in qualche modo apprezzare la conclusione che ho scelto.

Per quanto riguarda la fan fiction in sé, forse devo spendere qualche parola per spiegare il perché di questa trama assolutamente fuori dagli schemi. Insomma, dopo averla scritta, ho pensato: “Accidenti. Questo è tutto quello che vorrei non succedesse nel manga.”

Come mai quindi ho scritto una cosa del genere? Diciamo che in generale in ogni mia storia mi piace sempre inserire un filo conduttore: se in “Gocce di Sherry” era la libertà, qui è l’odio, il desiderio di vendetta, il rancore. Ho voluto provare a mostrare come spesso l’odio può cambiare totalmente un uomo, e come il rancore sia il sentimento più difficile da vincere. Perché ci domina e ci sottomette, fino a farci diventare degli strumenti nelle sue mani. Queste riflessioni sono partite da una frase che ha pronunciato una volta una persona che conosco: “E’ proprio vero che l’odio comune unisce più di qualsiasi altra cosa.” E purtroppo ha ragione. E’ sempre così: nelle guerre mondiali come nelle storie di vita quotidiana. Se aggiungiamo il fatto che ho passato un anno di scuola a studiare tragedie greche, potrete ben capire il mix da cui questa storia è saltata fuori.

Forse, però, ho rappresentato una Ran un po’ tendente all’OOC. Non saprei giudicare, quindi mi piacerebbe sapere il vostro parere a riguardo: ritenete indispensabile l’ avvertimento OOC?

Spero di essere riuscita a trasmettervi qualcosa con questa fan fiction. Un ringraziamento grandissimo va a chi ha recensito, a chi l’ha seguita, a chi l’ha messa tra le preferite o ricordate. Penso che il grazie più grande vada a Aya_Brea, che ha recensito ogni singolo capitolo e che mi sostiene sempre. Grazie, Ayetta <3

E questo è proprio un disegno di RanMibbica” che ha fatto lei dopo aver letto il capitolo 7:

 

http://fc08.deviantart.net/fs70/f/2012/220/e/a/ran_mib_version_by_ayabrea9-d5ack0v.jpg

 

Vi piace? Io lo trovo semplicemente divino!

Scusate per queste note finali così lunghe, ma volevo spendere qualche parola sulla storia. Un’ultima cosa.. chi di voi ha notato qualcosa riguardo alla frase finale? Mi piacerebbe proprio sapere se vi siete accorti di una cosina..:)

Grazie ancora a tutti coloro che mi hanno seguita!

Ci si risente/rilegge/rivede su EFP!

Un bacione,

Flami

 

 

  
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