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Autore: Beads and Flowers    09/08/2012    1 recensioni
La bambina era nata su di una lastra di candida roccia. Era nata privata della sua memoria, del suo nome e delle sue origini. Infatti, aveva una bocca e sapeva parlare. Aveva due gambe e sapeva camminare.
Aveva una mente, ma non riusciva a ricordare.
Genere: Malinconico, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Kantos

 
 

La bambina dai capelli bianchi camminava. Camminava lungo una distesa infinita di candido suolo roccioso e di profondi crateri grigiastri. Camminava, gli occhi neri socchiusi a causa dell’ intensa luce che la solida terra bianca emanava. Camminava, il cielo sopra di lei oscuro ed avvolto da una profondità irreale, simile ad una illusione. Camminava, ignorando le miriadi di creature sfocate che danzavano, cantavano, sussurravano in quel manto di cielo nero.
La chiamavano. Le urlavano di fermarsi.
Ma lei le ignorava.
Camminava.
Ora, finalmente, aveva una meta.

La bambina era nata su di una lastra di candida roccia. Era nata privata della sua memoria, del suo nome e delle sue origini. Infatti, aveva una bocca e sapeva parlare. Aveva due gambe e sapeva camminare.
Aveva una mente, ma non riusciva a ricordare.
La sua mente era avvolta dall’amnesia più totale. Era nata, o era morta? Chi era? Quale era il suo nome? Dove si trovava sua madre? Dove si trovava lei? Era da sola, questo era evidente. Il mondo attorno a lei era avvolto dal bianco della roccia, il grigio dei crateri ed il nero del cielo. Tutto era confuso, eppure nitido. Era un ricordo sepolto, ma la bambina non riusciva a costringerlo a riaffiorare.
Aspettò qualche minuto, dopo la sua nascita. Doveva rendersi conto di essere totalmente sola, abbandonata, prima di iniziare a vivere. Quando comprese che nessuno sarebbe venuto a prenderla, a spiegarle dove si trovasse o chi era, la bambina si alzò in piedi e prese a vagare attraverso quel mondo di solitudine.
Camminando, vagando senza una meta, la bambina poggiò casualmente le mani sul suo corpo, trovandolo coperto da un vestitino grigio e drappeggiante. Era molto bello, ma la bambina non riuscì a ricordarsi chi glielo avesse donato. Provò ribrezzo e paura nei confronti di quell’ abito.
Non sapeva dove si stava dirigendo, ne’ cosa stesse cercando. Una risposta, forse. O una domanda. Il bianco del suolo era molto vivido, ma non abbagliante al punto di ferirle lo sguardo. La bambina avvertiva qualcosa attorno a lei, una presenza invisibile. Ma, ogni volta che innalzava lo sguardo al cielo, non vi trovava nulla.
Un giorno, continuando a camminare senza una meta, in silenzio, la bambina udì un canto. Era un canto antico, ne era sicura, un canto che aveva già udito in precedenza. Era un suono profondo, distante… eppure, era anche allegro e terribilmente nitido. Proveniva… proveniva… dall’ alto.
La bambina alzò lo sguardo scuro di scatto. Nulla. Non smise di guardare, continuò a fissare quel vuoto oscuro, alla ricerca di una risposta anche a quel dubbio. E fu allora che le vide. Delle creature, della figure luminose senza forma. Erano bellissime, anche se erano sepolte dall’ oscurità più profonda ed apparivano sfocate alla bambina. E quel canto melodioso…
Le figure cantavano con parole incomprensibili, eppure conosciute, come se fossero state coperte di muschio fresco.
Dubno.
Dubnoreix.
Belisama.
Atenoux.
Douar.
Stirax.
Kantos.
La bambina non riusciva a distinguere la loro bocca, eppure era sicura che fossero quelle figure ad emettere quei suoni. Non riusciva a vedere i loro occhi, ma era certa che alcune di quelle creature la stessero fissando, incuriosite.
Senza neanche accorgersi della sua stessa azione, la bambina le chiamò:
“Creature! Creature che brillate e cantate nel buio più oscuro del cielo! Ascoltatemi!”
Molte voci cessarono di cantare, seppure non tutte le figure avessero completamente abbandonato la melodia. Il canto continuava, infinito come l’ Universo.
“Chi… ci… chiama…?” sussurrarono.
“Creature, temo di ignorare il mio stesso nome! Io non ricordo chi io sia, non ricordo il mio stesso nome, o le mie origini, o chi sia mia madre. Dove mi trovo? Chi siete voi? Rispondete!”
“…Belisama! Belisama, figlia di Atenoux! Non può essere altra bambina se nonBelisama, la figlia diAtenoux! Belisama!Belisama!”
“Chi chiamate, Creature cantanti? Ditemi il vostro nome. Il vostro ed il mio.”
Belisama!Belisama, figlia di Atenoux tu sei! Belisama! Di noi ti ricordi, Belisama? Le tue anziane amiche, le Stirax, sorelle della Fenice di Fuoco e tue maestre noi siamo. Cercata tanto ti abbiamo, Prediletta del Cielo! Belisama! Belisama!”
“Il vostro nome? Qual’ è il vostro nome? Chi è Atenoux? Cosa vuol dire Belisama?”
Stirax! Stirax il nostro nome è! Atenoux di tua madre era il nome, e Belisama tu sei chiamata!”
“Mia madre? Mia madre si chiamava Atenoux? E Belisama… Belisama è il mio nome?”
Atenoux tua madre era, piccola Belisama. Tu tornerai Atenoux col tempo, come prima di nascere lo eri in precedenza.”
“Cosa vogliono dire le vostre parole, Stirax? Se il nome di mia madre era Atenoux ed il mio nome è Belisama, come facevo a chiamarmi io stessa Atenoux prima di nascere? Come potrò ‘diventare’ Belisama col tempo? Non ricordo nulla, la mia mente ha perduto ogni ricordo e pensiero.”
“Non ‘diventare’, Belisama, non ‘diventare’! Tu tornerai Atenoux, e Atenoux tornerà Belisama. Il vostro destino ciò è.”
La bambina guardò a lungo il cielo, in silenzio. Cosa volevano dire le loro parole?
“Dove ci troviamo, Stirax?” mormorò infine la bambina.
“Nel Dubno ci troviamo noi, Belisama. E tuo padre il re del Dubno è. Lui il Dubnoreix è.”
La bambina guardò di scatto il cielo oscuro. La luce che emanavano le figure si stava affievolendo. Il loro canto era sempre più fievole, come se si stessero allontanando.
“Mio padre?! Spiriti! Non allontanatevi, spiriti Stirax! Ditemi solo, chi è mio padre?”
“La Fenice… di… Fuoco… tuo padre… è. Noi sue… sorelle… siamo…”
“Dove posso incontrare Atenoux e la Fenice di Fuoco, i miei genitori?”
“…”
Stirax!”
“Se li… incontrerai… morirai… tu…”
“Morire? E perché dovrei morire?”
“Il Kantos… Il Dubno… si chiude il cerchio… troppo non… amare… Belisama…”
“Stirax? Stirax?”
Il canto era cessato. Il silenzio regnava, ferendo le orecchie della bambina. Il bianco del suolo era più abbagliante di quanto non fosse prima. E, con esso, il cielo diveniva più oscuro.

Dopo quel peculiare discorso, la bambina si ritrovava con ancora più domande a cui non riusciva a trovare una risposta.
Se il suo nome era Belisama, sua madre Atenoux e sua padre una Fenice di Fuoco, perché le sarebbe stato fatale incontrare i suoi genitori? E come era possibile che sarebbe cresciuta per tornare Atenoux, e Atenoux per divenire Belisama? La bambina non capiva.
Continuava a vagare, i piedi scalzi che avanzavano sulla pietra bianca e sempre più abbagliante. Vagava, cercava, si domandava. Come trovare risposte? Doveva incontrare qualcun altro, qualcun altro oltre alle Stirax, che si erano allontanate troppo presto. Ogni tanto, tornava ad udire il loro canto, ma ogni volta che alzava lo sguardo al cielo, la bambina non riusciva più a distinguere quelle strane Creature, ne’ a catturare la loro attenzione.
Un giorno, la bambina si rese conto di non poter più posare lo sguardo sul suolo su cui camminava. Esso era fin troppo abbagliante, troppo forte per lei e per i suoi delicati occhi neri. Tutto quel bianco le faceva male, la feriva. Belisama ebbe paura. Si guardò attorno, in cerca di aiuto. Quel candore la stava bruciando. Era il bianco di una neve tagliente, le stava straziando la carne e le ciglia con cui ricopriva gli occhi. Disperata, tentò nuovamente di guardarsi attorno. Il male che il bianco le donava era insopportabile. Chiamò aiuto. Nessuno rispose. Sarebbe divenuta cieca? Chiamò nuovamente aiuto.
Due occhi.
La bambina li vide, chiarissimi in mezzo a tutta quell’ oscurità che sorvolava quel nocivo bagliore. Due occhi grandi, verdi, bellissimi e lucidi di lacrime. La bambina fissò quello sguardo, incantata,rendendosi conto che quegli occhi avevano anche una bocca, e dei capelli, ed un viso. In quegli occhi vi erano di sentimenti, e quei sentimenti avevano una mente, e quella mente aveva un corpo, ed a quel corpo la figura si avvinghiava, rannicchiata nel buio.
Era una donna, una donna bellissima. Il corpo, rannicchiato in una posizione che invocava protezione, era striato di verde ed azzurro, tanto azzurro. Le mani avevano il colore della sabbia, e lunghi capelli erano dorati come la loro bellezza. Le lacrime che sgorgavano dal volto della donna bagnavano tutto il suo corpo. E l’ azzurro si aggiungeva all’ azzurro, bagnando la figura. In alcuni punti, la creatura sembrava essere stata ferita da qualcosa, o da qualcuno. La bambina scorse del sangue sul suo corpo.
“Perché piangi? Quel’ è il tuo nome?”
Così chiese Belisama. Ignorava il candore bruciante sotto ai suoi piedi, ora era totalmente assorta da quella donna che fluttuava nel buio. La voce della bambina era carica di una tenerezza dimenticata. Nella sua mente,si accese un pensiero sfocato, dolce come il miele, terribile come una ferita.
“Dimmi il tuo nome, caro essere! Perché piangi?”
“… Belisama…”
La bambina indietreggiò, sorpresa. Come faceva quella creatura a conoscere il suo nome?”
“Chi… chi sei?”
“Oh, Belisama… non ti ricordi di me? Sono Douar, la tua amata Douar! Già, ma come potresti mai ricordarti di me, povera piccola innocente? Tu, che incontri tua madre per amore nei confronti di chi non merita di essere amato? Prediletta del Cielo… tu non sai chi sono, non è vero?”
La bambina, in precedenza fiduciosa del tono ragionevole della donna, così diverso da quello etereo delle Stirax, si ritrovò invece costretta ad ammettere di essere più confusa di quanto non lo fosse prima. Chi era questa donna chiamata Douar? Perché piangeva ed affermava di conoscerla? Cosa sapeva di sua madre?
“Douar…” rispose incerta “Tu conosci il mio nome da tempo, non è così? Eppure, io non ricordo il tuo… Douar. Cosa sai di mia madre? E dimmi, perché piangevi?”
La donna sorrise, non abbandonando la sua posizione fetale. Era così bella… Belisama non riusciva a distogliere lo sguardo da lei, ma non solo a causa del bagliore accecante che proveniva dal suolo. Era… attratta da quella donna, sapeva di amarla. Il suo cuore batteva, e lei comprese di amarla.
“Piango, bambina mia, per molte persone. Piango per gl’ innumerevoli esseri che vivono sul mio corpo. Piango per loro, che ogni giorno bevono dalle mie lacrime e si cibano della mia carne. Vedi queste ferite? Gli esseri che io nutro me le infliggono. Ed è il mio destino sopportare, ed attendere che loro si rendano conto del male che mi fanno. Piango per il mio destino, Belisama, il mio destino che mi costringe a soffrire ed amare qualcuno di cui mai potrò vedere il viso.”
La donna esitò, prima di proseguire.
“La Fenice di Fuoco, il Dubnoreix, è colui che amo più tra tutti… tuo padre.”
Belisama rabbrividì, anche se non ne comprendeva il motivo. Lo sguardo di quella donna era così triste, e quel nome con cui veniva chiamato suo padre era così malvagio, eppure così meraviglioso. Guardò per un po’ Douar, prima di chiederle:
“Ami mio padre, anche se non lo hai mai visto in volto? Ma com’ è possibile ciò? Come hai fatto a non vederlo mai prima d’ ora? Mio padre è forse invisibile?”
“… Siediti, bambina mia, ti racconterò una storia.”
Belisama la guardò, incerta. Infine, si sedette tra i freddi raggi di luce del suo mondo. Ora non li vedeva praticamente più. Lo sguardo di Douar era molto più potente di quella luce, ed anche più ammagliante. La donna verde, senza cessare di piangere, prese a raccontare:

Il Kantos, il Cerchio Supremo, colui a cui tutto diede un inizio ed una fine, creò il Dubno, l’ Universo. Il Dubno creò le galassie ed i sistemi, creò un mondo che ruotasse attorno a punti di riferimento precisi, creò l’ ordine ed il caos, creò il gelo dei pensieri ed il calore della vita. La sua creazione prediletta fu la Fenice di Fuoco, a cui assegnò nove creature da comandare e sottomettere. Esse non avrebbero mai e poi mai dovuto guardare il loro Signore e padrone negli occhi. Ad alcune di questi esseri, chiamati i Berios, cioè le ‘Grandi Rocce’, furono donati a loro volta alcune creature minori, le Leukas, le ‘Luci Riflesse’. Le Leukas servivano i propri Berios, come i Berios servivano la Fenice di Fuoco. Nonostante questo, la Fenice non si rendeva conto che i Berios erano disperatamente innamorati di lui. Attratti dalla sacra luce che il loro padrone emanava, essi non potevano tuttavia degnarsi di guardare il loro Signore negli occhi. Se l’ avessero fatto, infatti, sarebbero stati bruciati vivi dal loro peccato, resi ciechi dalla luce della Fenice e dal loro futile amore. Le Leukas, dal canto loro, provavano un profondo rispetto per i Berios, ma non ne erano attratti quanto i loro signori amavano la fenice di Fuoco. Vi era solo una di queste creature che amava profondamente il suo Berios, seppure non fosse corrisposta da essa. Il nome di quella Leukas era Atenoux, ed il suo Berios era Douar.

La bambina sussultò, incredibilmente sconvolta da quelle parole. Atenoux… Atenoux si era innamorata di Douar prima che lei venisse al mondo? E che cosa le era accaduto? Molte cose le tornarono in mente: lei era la nuova Leukas di Douar, essendo sua madre morta. E Douar… Douar non aveva mai amato sua madre… era forse questa la causa della sua scomparsa?

Gli altri Berios amavano profondamente la Fenice di Fuoco. Ma Douar era colei che l’ amava di più. Ella era infatti pronta a sacrificarsi per il suo Signore, e sarebbe volentieri morta bruciata pur di vedere il suo volto. Seppure la Fenice sapeva di essere tanto amato, ignorava le attenzioni di Douar, bruciante di orgoglio per essere il preferito del Dubno tra le Stirax, sue sorelle. Douar non si lasciò scoraggiare, e tentò in ogni modo di posare il suo sguardo su di lui. Sapeva che con la sua morte la Fenice si sarebbe almeno interessata a conoscere il suo nome. Atenoux tentò in ogni modo di convincerla a non commettere quell’ atto, ai suoi occhi folle e privo di senso. Ma, come la Fenice di Fuoco ignorava Douar, così Douar ignorava Atenoux. Nel frattempo, la Berios si preparava a quell’ estremo sacrificio per il proprio padrone. Ogni giorno girava su se stessa, rannicchiata in una posizione fetale. Girò ventuno volte in quella strana maniera, ogni giorno alzando di un poco lo sguardo verso il suo amato. Credeva, infatti, che in quel modo si sarebbe potuta abituare meglio al fuoco del suo padrone. Certamente, non al punto di non morire, ma quel tanto che le sarebbe bastato per vedere finalmente il suo volto. Il ventiduesimo giorno alzò definitivamente lo sguardo sulla Fenice di Fuoco. Ma non vide il suo volto infuocato. Vide, invece, la sua bellissima Atenoux. La sua Leukas aveva camminato in cerchio attorno a Douar senza che lei se ne accorgesse. La sua terra bianca l’ aveva seguita, ed Atenoux ora si trovava tra la Fenice di Fuoco e Douar. Come uno scudo, strava proteggendo la sua amata fino all’ ultimo. Il suo corpo bruciò per sette giorni, annerendolo. Di lei non restò che poca cenere, ed una bambina. Belisama.

Il silenzio caduto tra le due era pesante. Si poteva distinguere il lontano canto delle Stirax, sorelle della Fenice di Fuoco, per quanto silenzio vi era tra la Leukas e la sua Berios. Belisama, seduta tra miriadi di raggi di luce bianca che il suolo della sua terra emanava, fissava Douar con occhi neri ed increduli.
Sua madre aveva amato questa bellissima donna.
Era morta per lei.
E la donna piangeva per tutti, tranne che per Atenoux.
La bambina socchiuse le labbra, cercando di dire qualche parola. Non vi riuscì. Era troppo sconvolta per parlare. Poggiò le mani a terra e si tirò su, tremando leggermente. Guardò la donna, attendendo che continuasse il suo racconto, che compiangesse la morte di Atenoux, che le dicesse qualsiasi cosa. Ma lei continuava a piangere, con gli occhi verdi colmi di lacrime azzurre.
“Piangi per te stessa e per la tua Fenice di Fuoco. Ma perché non piangi per mia madre, morta per te e solo per te? Non provi alcuna vergogna? Rispondimi!”
Belisama non stava piangendo, nessuno le aveva mai insegnato a farlo. Eppure, lo avrebbe tanto desiderato! Attese una risposta, in silenzio. La sua Berios parlò, lentamente:
“Perché dovrei piangere la scomparsa di tua madre? Ella non fu la prima a compiere un simile atto. Tua madre, tua nonna, la tua bisnonna e la nonna della tua bisnonna morirono tutte per non farmi compiere questo mio atto. Dovrei forse piangere per tutte le Leukas morte per me? Non trovi che io abbia già versato abbastanza lacrime? Dimmi, dunque, tu sei forse diversa dalle tue antenate? Tu non mi ami, e non tenterai di salvarmi inutilmente come le altre? In quel caso, sappi che ti sono grata, e che sono felice che tu sia una Leukas che tenta davvero di servire la propria padrona. Lasciandomi morire, tu mi rendi felice, Belisama.”
La bambina la guardò, indignata.
“Ti sbagli sul mio conto, Douar!” gridò “Io ti amo, e ti amerò fino alla mia morte! Sei una donna perfida, egocentrica, che ignora l’ amore di un’ altra creatura ancora più di quanto la Fenice non ignori il tuo! Eppure, io ti amo. Ti amo più delle Stirax, più del Dubno e più del Kantos. Ti amo più della Fenice di Fuoco. Ti amo più della mia stessa vita. Ed è per questo che io ti salverò nuovamente dal tuo stesso amore. Seguirò l’ esempio delle mie antenate, camminerò fino a giungere tra te e la Fenice, conducendo con me la mia bianca terra. Brucerò, se ciò potrà salvarti. Soffrirò, se questa dovrà essere la prova del mio amore. Morirò, se il mio amore mi darà la forza per sacrificarmi.”
La donna scossa la testa, piangendo in silenzio. Lentamente, continuò a girare su se stessa, e distolse lo sguardo dalla bambina. Non voleva più vedere quel volto. Il volto di una Leukas che si sacrificava inutilmente per lei. Perché nessuno riusciva a comprendere l’ amore di Douar? Nessuno l’ avrebbe potuta distogliere dal suo estremo sacrificio, anche se altre miliardi di Leukas avrebbero sofferto tanto per lei.
Questo a Belisama non importava. Sarebbe morta per Douar, solo per lei. E sarebbe anche stata l’ ultima. Non avrebbe generato altre figlie per donare uno spirito a quella terra di grigi crateri. Lei sarebbe stata l’ ultima Leukas della sua Berios.

La bambina dai capelli bianchi camminava. Camminava lungo una distesa infinita di candido suolo roccioso e di profondi crateri grigiastri. Camminava, gli occhi neri socchiusi a causa dell’ intensa luce che la solida terra emanava. Camminava, il cielo sopra di lei oscuro ed avvolto da una profondità irreale, simile ad una illusione. Camminava, ignorando le miriadi di creature sfocate che danzavano, cantavano, sussurravano in quel manto di cielo nero.
La chiamavano. Le urlavano di fermarsi.
Ma lei le ignorava.
Camminava.
Sapeva che anche lei avrebbe dovuto danzare assieme a quelle creature, o cantare, o sussurrare. Ma il canto delle Stirax non era abbastanza forte. La luce sotto i suoi piedi non era abbastanza abbagliante. Il suo amore era più grande.
Camminava. Camminava, senza mai voltarsi indietro.
Ora, finalmente, aveva una meta.
Suo padre. La Fenice di Fuoco.
A volte, quando Douar alzava di poco lo sguardo, ruotando su se stessa, lanciava una fugace occhiata a Belisama. Gli occhi verdi erano stanchi, leggermente arrossati dall’ incessante pianto a cui era costretta dal destino. La bambina le sorrideva, dolcemente, senza mai fermarsi. Continuava a camminare, instancabile.
E, man mano che avanzava, conducendo con sé la sua terra, i suoi capelli bianchi si allungavano sempre di più. La sua statura aumentava, il nero dei suoi occhi si faceva sempre più deciso. La bambina si stava facendo donna, ad una velocità sempre maggiore.
Aveva delle ferite sotto i piedi nudi. Le ignorava. Le facevano male, tanto male, ed il sangue tingeva di rosso il candido suolo. Ma lei continuava a camminare, ad avanzare, ignorando il dolore che le ferite le infliggevano.
Un giorno, la bambina scorse una figura, lontano nel buio. La avvertiva, come le Stirax, anche senza vederne il volto. Era più grande e vicino degli spiriti cantanti che aveva incontrato circa quattordici giorni prima, e non stava cantando ne’ danzando. Eppure, brillava come nessun altro spirito aveva mai brillato. Immediatamente, Belisama abbassò lo sguardo.
Era la Fenice di Fuoco.
Non doveva guardarlo, non ora. Il suo sacrificio sarebbe stato perfettamente inutile, se l’ avesse guardato in quel momento. Tenendo lo sguardo fisso a terra, riprese a camminare. Man mano che avanzava verso la Fenice, si rese conto che il suolo roccioso su cui camminava brillava sempre meno. Stava perdendo la sua luce.
Il suo mondo stava andando a morire con lei.
Camminava.



Douar chiuse gli occhi, ed altre migliaia di lacrime sgorgarono dai suoi occhi verdi. Gli esseri che abitavano il suo corpo si muovevano, le laceravano la pelle. I suoi figli. I figli che ignoravano la morte della propria madre. Sarebbero morti assieme a lei, lo sapevano questo? Sapevano che sarebbero stati tutti arsi per un unico amore? Amavano anche loro la Fenice di Fuoco?
Quegli esseri erano strani. Ferivano la loro stessa Madre, la loro stessa Berios. E sì, amavano la Fenice di Fuoco. Eppure, amavano contemporaneamente anche quella sciocca di una Leukas, Belisama. Come si poteva amare una creatura tanto stupida e tanto insignificante? Come?
No.
Tutto il suo amore sarebbe stato impresso nel dolore che il fuoco del suo amato le avrebbe donato. Sarebbe morta per lui, solo per lui, ed avrebbe assaporato il dolore che il suo sguardo le avrebbe inflitto. Doveva godere di quel momento. Non doveva pensare alla bambina.
Forse, questa volta ci sarebbe riuscita. Forse…
Aprì gli occhi, piano.
Ecco, ecco la luce del suo amato! Sentiva il suo calore, sapeva che sarebbe morta per lui! Le sue splendide ali di fuoco si agitavano, come se stesse per spiccare il volo. Era bellissimo. Ed il suo sguardo? Il suo sguardo… il suo ardente sguardo… dov’ era il suo sguardo? Se non l’ avesse fissata negli occhi, lei non sarebbe mai morta con il fuoco del suo padrone. Lui non avrebbe mai e poi mai conosciuto il suo nome.
“Douar…” sussurrò la Berios, come a chiamarlo, come a spingerlo a voltarsi nella sua direzione “Douar… sono io la tua Douar… Douar…”
Si stava voltando, con una grazia lenta e maestosa. Il suo Signore si stava voltando…
Una donna dai lunghi capelli bianchi si slanciò tra la Berios e la Fenice. Il suo abito grigio era lungo, le arrivava fino ai piedi insanguinati. Il suo sguardo era deciso, gli occhi neri socchiusi a causa dell’ intenso calore che il Dubnoreix emanava. La donna era seguita da una gigantesca sfera di roccia bianca, sfregiata da grigiastri crateri. Questa sfera era più piccola del corpo di Douar, ma abbastanza grande da proteggerla dall’ intensa luce dello sguardo infuocato della Fenice.
Il Dubnoreix ora fissava la donna dai capelli bianchi, ed il suo colore e la sua luce erano talmente potenti da imprigionare il suo fragile corpo a mezz’ aria. La donna sorvolava il bianco terreno roccioso ai suoi piedi, avvolta da una luminosa coperta di fuoco. Fissava la Fenice negli occhi, decisa a proteggere la sua Berios fino all’ ultimo. Come sua madre, sarebbe morta per Douar.
La pelle bianca di Belisama aveva iniziato ad annerirsi, a poco a poco, e così la candida roccia del suo piccolo mondo. Era doloroso, la Leukas percepiva il calore che le divorava la pelle morbida. Avvertiva il fuoco ed il dolore, l’ odore acre di bruciato. Capiva di stare morendo. Aprì debolmente gli occhi e guardò in basso. La bianca sfera ai suoi piedi era ora completamente nera. Il dolore che l’ attanagliava era insopportabile.
Quella morte era così diversa da come aveva immaginato: era lenta e dolorosa, avrebbe davvero dovuto aspettare una settimana prima di morire? Tentò di concentrarsi su qualcosa di diverso, per attenuare il dolore.
La testa. I capelli.
No, i suoi bellissimi capelli bianchi non c’ erano più. Erano stati i primi ad essere bruciati e tramutati in cenere. Il suo corpo era nudo, il suo vestito grigio era stato completamente carbonizzato dal calore intenso della Fenice.
Pensò a Douar. Ai suoi splendidi occhi verdi, al suo corpo striato di colori freschi come l’ acqua. Douar… Douar… quanto era bella, la sua Douar.
“Stupida!”
Una voce alle sue spalle. La donna si voltò leggermente, gli occhi socchiusi in un’ espressione carica di dolore rassegnato. La sua Berios la stava fissando, gli occhi verdi sgranati dall’ ira e dall’ incredulità. I pugni serrati, la guardava con odio.
“Stupida! Sei una stupida! Devi morire! Muori! Muori, sciocca piccola Leukas! Credi seriamente che io ti ami? Che io ti perdoni per avermi tenuto in vita? Ti odio! Ti odio, e ti odierò sempre, Atenoux!”
La donna socchiuse gli occhi, carica di tristezza e confusione. Atenoux? No, no, il suo nome non era Atenoux… Atenoux… No… No, il suo nome era… era…
Belisama!”
Un canto. Un canto lontano e vicino, carico di commovente felicità ed antica giovinezza. La donna si voltò stancamente, cercando di capire dove dovesse voltare il capo affaticato per scorgere la presenza delle Stirax.
Belisama…”
Eccole, si disse la donna. SI voltò, e percepì chiaramente le figure degli spiriti danzanti. Erano lì, giusto oltre quella spessa cortina di fuoco. Sorrise.
Belisama… trovata ti abbiamo, Belisama! Bruci tu, Belisama? Avevamo te ammonito, Prediletta del Cielo! Troppo amare non dovevi! Ora tua madre e tuo padre incontrare devi, povera piccola bambina!”
“Stirax… Stirax, amiche mie… siete venute per dirmi addio, dolci spiriti?”
“Povera, povera Belisama! Perché tuoi genitori incontrato hai, Belisama? Tu ora Atenoux tornerai ad essere, e Atenoux tornerà a te essere!”
Belisama non capiva, non riusciva a capire. Atenoux? Come poteva essere? Lei non poteva tornare ad essere Atenoux, lei era Belisama. Atenoux era il nome… il nome di sua madre, non il suo. Perché mai le Stirax le stavano dicendo quelle cose senza senso?
“Cosa… cosa state dicendo? Come potrei mai tornare ad essere Atenoux, mia madre? E come posso incontrarla, se è morta? Vi prego… ditemi cosa intendete, amiche mie…”
“Oh, povera piccola Atenoux! Perché ora Atenoux tu sei! Il tuo nome, piccola bambina dagli occhi neri, vuol dire ‘Luna Nuova’. E tua figlia! Tua figlia! Il suo nome sarà Belisama, la Luna!”
“Cosa? No! No, spiriti danzanti! Mia figlia non porterà il mio nome! Io non ho una figlia, sono l’ ultimo spirito che farà muovere la bianca terra, che ora muore e si annerisce con me. Ed il mio nome non è Atenoux, è Belisama!”
“Sciocca! Sciocca!”
Douar le urlava contro, copriva il canto melodioso delle Stirax.
“Stirax! Stelle, Stelle maledette! State zitte, non cantate per lei! Non se lo merita! Lei deve morire, e deve soffrire per il suo peccato! Stirax, lei ha peccato! Ha peccato contro di me, la sua Berios, la sua padrona! Zitte, Stelle! E’ Douar che ve lo ordina, la Berios chiamata Terra!”
Il canto cessò. Il silenzio cadde nuovamente, nel cielo oscuro, nel vuoto infinito. La donna attese, attese una risposta da parte degli spiriti danzanti. Ma non c’ erano più. Vi era solo il silenzio, e le terribili parole di Douar, seguiti da lunghi lamenti e singhiozzi. E Belisama era lì, privata di una fonte di risposte, la mente piena di domande.
Scoppiò a piangere.
Pianse piano, le lacrime che le donavano un leggero refrigerio da quel calore opprimente e doloroso. Pianse, e sussurrò un aiuto, una risposta al suo essere. Chi era? Cosa stava facendo? Moriva per qualcuno che odiava. Ed era sola, adesso. Era sola, e per sempre.
“Non piangere, Atenoux.”
Una voce.
Una voce forte, imponente. Una voce dolce, tenera, paterna.
La pelle di Atenoux cadeva, lentamente. Cadeva, nera, sul terreno del suo mondo, ormai scuro come le sue ferite. Le ferite laceravano il gracile corpo di Atenoux. Il fuoco la divorava, e lei soffriva. Il suo cuore sanguinava, eppure non moriva. Voleva morire.
Morire.
Adesso.
“Non piangere, Atenoux. Presto il dolore finirà. E tu tornerai ad essere la mia bella bambina dai capelli bianchi e gli occhi neri. Avrai una bocca e saprai parlare. Avrai due gambe, e saprai camminare. Avrai un cuore, e saprai vivere. Avrai una mente, ma non saprai ricordare. Ed il Kantos, il Cerchio Supremo, compierà nuovamente la sua opera sulle nostre vite. All’ infinito. Fino alla fine del Tempo.”
Atenoux aprì gli occhi, stancamente. Guardò davanti a sé, lo sguardo annebbiato dal dolore e dal fumo. Eppure riuscì a distinguere, senza perdere l’ uso della vista, il volto amorevole della Fenice di Fuoco. No… non era quello il nome con cui suo padre voleva essere chiamato. Lui voleva che la sua bambina lo chiamasse con affetto, ora Atenoux riusciva a ricordare bene.
“… Padre…” mormorò, piangendo “… Sole…”
La Fenice aprì le sue grandi ali e l’ avvolse, protettivamente. In questo modo, il rumore dei lamenti di Douar fu completamente soppresso. Vi era solo il fumo, ora. Il fumo, il rumore del fuoco, ed il viso del Sole, la Fenice Infuocata del Dubno.
Un viso indescrivibile. Il viso di un padre, di un tiranno. Di una creatura mitologica, del messaggero tra l’ Inferno ed il Paradiso. Era terribile, eppure sereno e meraviglioso, come il canto di un angelo.
Come il messaggio di un Dio.
“Atenoux,” suo padre la chiamava, rimproverandola con giocosa severità “Atenoux, tu non riesci ancora a ricordare ciò che è stato prima della tua nascita? Non è vero, Atenoux?”
“… No, mio Signore…”
“Sai chi è Douar?”
“Sì, mio Signore.”
“Dici il vero, tu sai chi è Douar. E sai anche chi sono le Stirax, le mie sorelle. Sai addirittura chi sono io, o forse dico il falso?”
“Io so chi voi siete, mio Signore.”
“Eppure, non sai chi sei tu.”
“No, mio Signore...”
“Ha importanza chi tu sia, Atenoux?”
“… Non credo, mio Signore.”
“Eppure, mia cara Atenoux, ha importanza chi tu sia.”
“… Chi sono io, mio Signore?”
“Chi è tua madre, Atenoux?”
“… Non lo so, mio Signore.”
“Conosci, per lo meno, il suo nome?”
“Pensavo che esso fosse Atenoux, e che il mio fosse Belisama.”
“Ma non è così?”
“No, mio Signore.”
“Ti ritrovi nuovamente in errore, mia piccola Atenoux. Tu sei Belisama. Eppure, sei anche Atenoux. Sei chiamata con entrambi i nomi, ed entrambi i nomi ti appartengono.”
“Ma Atenoux è il nome di mia madre.”
“Ella si chiamava anche Belisama, mia bella Atenoux.”
“Non capisco, mio Signore.”
“Tua madre era Atenoux e Belisama. Tu sei Atenoux e Belisama. Tu sei tua madre. Tua madre era te.”
“…”
“E così lo erano tua nonna, la tua bisnonna, e la nonna della tua bisnonna. Tutte voi siete Belisama ed Atenoux. Luna e Luna Nuova. Tutte voi siete la stessa cosa. Tu sei sempre la stessa, bambina dai bianchi capelli. Per mesi e mesi, per anni ed anni, per secoli e secoli tu sei morta e rinata per Douar, sin dall’ inizio del tempo. Ogni mese tu muori, e rinasci dalle tue ceneri come una fenice. Rinasci bambina. Rinasci senza ricordo di ciò che ti è accaduto. Ed ogni mese, quando la mia luce t’ illumina abbastanza perché tu posso vederla, posi il tuo sguardo su Douar, e te ne innamori. Ogni mese muori. Ogni mese rinasci. E’ il Kantos, il Cerchio che ha predisposto così il tuo destino. Rinascerai senza ricordi, all’ infinito. Ed all’ infinito vivrai soffrendo e morendo per amore di Douar. E’ il prezzo che devi pagare per l’ immortalità del tuo spirito, mia piccola Belisama, mia piccola Atenoux. Tu sei la Luna. La Luna Nuova. All’ infinito.”
La donna annuì. Ricordava, adesso. Ricordava ogni cosa. Chiuse gli occhi, con stanchezza. Per sette giorni bruciò. Per sette giorni dormì, soffrendo e ricordando i suoi incubi. Al settimo giorno, le sue ceneri furono la prova della sua morte, e caddero sul mondo di roccia bianca.

La bambina era nata su di una lastra di candida roccia.
Era nata privata della sua memoria, del suo nome e delle sue origini. Infatti, aveva una bocca e sapeva parlare. Aveva due gambe e sapeva camminare.
Aveva una mente, ma non riusciva a ricordare.







Angolo dell'Autrice:

Ed ecco conclusa la favola 'Kantos', e vi lascio a malincuore con tutte le traduzioni dei nomi all'interno del testo (sono tutte parole celtiche).

1- Belisama: Luna Splendente.
2- Atenoux: Luna Nuova.
3- Douar: Terra.
4- Stirax: Stelle.
5- Dubno: Universo.
6- Dubnoreix: Re dell'Universo.
7- Berio: Grande Roccia (pianeti).
8- Leukas: Luci Riflesse (satelliti).
9- Kantos: Cerchio.

Grazie a tutti coloro che so hanno letto la storia. Se avete dei dubbi o delle critiche, fatemi pure sapere!
Un bacio, Beads.
















   
 
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