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Autore: Strega_Mogana    22/02/2007    13 recensioni
Cinque ragazze, cinque ragazzi, cinque amori.
Genere: Romantico, Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Inner Senshi, Sorpresa
Note: Alternate Universe (AU), OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Il profumo del Natale (prima parte)



Esser bambini.
Esser sempre bambini.
Non crescere mai, non cambiare, restare con la mente ingenua, tanti sogni e occhi sgranati su tutto quello che il mondo ti propone.
Invece si cresce.
Tutto cambia.
Il mondo non diventa più quel posto meraviglioso che credevi da piccolo. Sei costretto a diventare grande, diventi più consapevole di quello che ti gira attorno ed immediatamente torni a desiderare l’infanzia, per periodo dove la tua massima preoccupazione era il colore del vestito che deve indossare la tua bellissima bambola nuova che ti ha regalato papà.
Crescere vuol dire staccarsi dalla fantasia, vedere la realtà cruda che hai davanti agli occhi tutti i giorni, vuol dire prendersi delle responsabilità che non vuoi, che non hai mai voluto.
Ma ci sono molti lati positivi nel diventare grandi. Si diventa indipendenti, si conoscono persone speciali che possono vivere con te il tumulto dell’adolescenza dove non sei né grande né piccola, dove non sai se i ragazzi ti guardano perché gli piaci o solo perché non capiscono cosa siano le due piccole sporgenze che si intravedono sotto la camicetta. Crescere vuol dire anche sopravvivere alle amiche gelose, ai compagni che allungano solo le mani, ai brutti voti, ai professori severi.
A volte vuol dire solo imparare ad amare.
Quando ero piccola avevo paura di crescere, avevo paura di diventare come zia Kioko, bellissima e sempre maltrattata dagli uomini che amava. Mi ricordo quando piombava di notte a casa nostra, io ero piccina, eppure mi ricordo il suo viso rigato dal trucco colato per via delle calde lacrime, ricordo il suo straziante dolore, i suoi pianti isterici perché l’uomo che riteneva il più dolce del mondo aveva preferito al compagnia di un’altra. Ricordo che stavo seduta sui gradini che portano in cucina, a sentire mia madre che le preparava una tazza di tisana calda e la consolava dicendole che l’uomo giusto sarebbe arrivato prima o poi. Una volta mi sono avvicinata alla cucina, ho sbirciato dentro e avevo visto Kioko piangere sul tavolo, la testa appoggiata sulle braccia conserte, i suoi bellissimi capelli biondi, che io ho ereditato, sparsi sul tavolo come una cascata luminosa, la schiena scossa dai singhiozzi e mia madre accanto, con un braccio appoggiato sulle sue spalle, cercava di consolarla, di darle forza ma era chiaro che non credeva neppure lei a quelle parole.
Le stesse parole da anni.
Ero tornata in camera mia tremante, avevo undici anni, piccola eppure consapevole che stavo inevitabilmente crescendo, che dovevo abbandonare l’infanzia e buttarmi nel mondo dei miei genitori, di mio fratello e di zia Kioko.
E io non volevo finire come lei.
Mi ero coperta con il lenzuolo fin sopra la testa, tappandomi le orecchie con le mani continuando a ripetere a me stessa che non sarei mai innamorata, che non avrei permesso a nessun uomo di farmi piangere in quel modo. Non so quante volte l’ho ripetuta quella frase, ma so che erano tante… erano come un incantesimo. Un incantesimo di protezione.
Un pensiero profondo per una bambina di undici anni ora che ci penso.
Ma alla fine sono cresciuta ugualmente, ho trovato amiche fidate, la mia famiglia sta bene e zia Kioko continua la sua personale caccia all’uomo ideale. Solo che non viene più a piangere nel cuore della notte a casa nostra.
Forse si è rassegnata.
Per quanto riguarda il cuore… beh ci sono state un paio di storielle con dei miei compagni di scuola ma nulla di più, qualche bacio ma mai andata oltre.
In fondo crescere non è così brutto come temevo.
Anche se c’è un periodo dell’anno dove torno bambina, dove tutto torna dove deve stare. E il Natale, il periodo dell’anno che preferisco, con le vetrice colorate, le strade illuminate, perfino la gente è più serena, più disposta a lasciarsi andare. Ed è in questo periodo che io torno bambina, che i miei sogni hanno il sopravvento, che i miei timori sul futuro svaniscono come neve al sole.
Un profondo e lento sospiro mi riporta alla drastica realtà, sbatto le palpebre e vedo il mio riflesso nella vetro della finestra, sento un altro sospiro e mi volto è Minako che fissa incantata il tavolo rotondo del bar dove siamo sedute tutte quante.
- Ancora preoccupata per il regalo di Natale?- le chiede Rei sorseggiando quello che, se non ricordo male, è un succo d’arancia.
- Parli tu che sei certa sul regalo! – sbuffa la mia amica bionda con la testa appoggiata sul tavolo – Il tuo ragazzo lo conosci da una vita! Io e Kunzite siamo insieme da poche settimane… come faccio a sapere quello che gli piace o meno?
- Giocate entrambi a pallavolo no?- fa Ami che ha la risposta giusta a portata di mano in qualsiasi situazione – Puoi regalargli qualcosa per giocare.
Un lampo si accende negl’occhi di Minako.
- Ami sei un genio! Devo scappare! – si alza e corre via.
Restiamo in quattro, ci guardiamo in faccia e scoppiamo a ridere contemporaneamente, Minako è famosa per queste fughe improvvise.
Makoto si asciuga gli occhi, quegl’occhi verdi che le ho sempre invidiato, oltre alla sua bravura nel cucinare.
- Oddio è tardissimo. – si alza e si spolvera i pantaloni color muschio – Nephrite mi aspetta in centro… vuole fare un po’ di compere.
La vedo allontanarsi velocemente, canticchia come una sposa felice. Credo che non manchi proprio molto a quel momento, quando ci saremo diplomate Makoto sarà la prima a portare all’altare il suo ragazzo, in fin dei conti vivono quasi insieme ormai.
Poco dopo arrivano anche Zoisite e Jadeite portandosi via Ami e Rei.
Resto così da sola, come di norma nell’ultimo periodo. Osservo i bicchieri e i piattini vuoti accanto a me e sospiro sconsolata.
Le invidio un po’.
Mi appoggio allo schienale della poltroncina imbottita su cui sono seduta e torno a sospirare.
Lo faccio spesso in questi giorni.
Una mano entra nel mio campo visivo, prende un piatto, poi un altro e lo posa sopra il primo, prende un bicchiere, una tazzina e crea un’improbabile pila di stoviglie.
Se dovessi camminare io con quella torre in mano sarebbe già a terra in frantumi.
Non alzo lo sguardo perché so a chi appartiene quella mano.
Quella fantastica mano.
- Ti hanno lasciato sola anche oggi eh?- mi domanda con quel tono dolce e io mi chiedo sempre come faccio a non svenire ogni volta che mi parla.
- Già. – rispondo cercando di sembrare solida, una donna tutta d’un pezzo.
Non resisto alla tentazione di guardarlo, di ammirare il suo bellissimo viso e alzo gli occhi. Percorro la linea del suo braccio, salgo sfiorandogli appena il petto, la spalla, il collo, il mento coperto da un filo impercettibile di barba, le labbra perfette, il naso ed incontro le due pozze blu che ha al posto degli occhi, potrei immergermi in quello sguardo per ore, sono profondi come l’oceano e dolci come una ciambella.
Vorrei tanto che mi guardasse non solo come una bambina ma anche come una donna che può amare. Che può amarLO.
- Dovresti trovare anche tu un fidanzato.
Sorrido e torno a concentrarmi sul mio gelato mangiato solo a metà.
- Ci sto lavorando.
Sento che mi sta sorridendo e io mi volto a fissare fuori dalla vetrata, la realtà è che non potrei osservarlo mentre lavora, l’ho già fatto altre volte e sempre ero sul punto di cedere, di gettarmi tra le sue braccia mandando al diavolo quel briciolo di autocontrollo e dignità che mi è rimasto. Torno a massacrare questa povera coppa gelato che non ha fatto nulla di male, mescolo i gusti creando una poltiglia marroncina che ha ben poco di appetitoso.
Mamoru lavora da Motoki quando l’università e l’ospedale glielo permettono, un comportamento molto maturo e responsabile.
Lo ammiro molto per questo.
Lo ammiro per molte cose.
Lascio i soldi sul tavolo, mi imbacucco bene nel mio cappotto di lana bianca, mi sistemo la sciarpa e i guanti rosa e vi volto verso di lui. Sta servendo del caffè ad un cliente, sorrido appena sapendo bene che presto si accorgerà che sto uscendo. Alza lo sguardo e si volta verso di me, è come se sentisse che sto per andarmene o forse sono solo io che voglio pensarla in questo modo. Mi fa un lieve cenno col capo e io ricambio prima che il freddo pungente dell’inverno mi colpisca il viso.
Affondo si più il capo nella sciarpa cercando un vago calore che so che non arriverà prima di cinque minuti.
Il cielo è grigio con varie striature di bianco che promettono solo neve e altro freddo. Sarebbe bello passeggiare per le vie della città con un ragazzo come Mamoru accanto. Camminare piano, assaporare i profumi che il mondo offre solo durante il Natale mentre i primi magici fiocchi di neve scendono dal cielo.
Sì, sarebbe proprio bello.

***
Quando ero piccolo non vedo l’ora di crescere.
Di prendere in mano la mia vita, di decidere da solo dove andare e con chi stare.
Fin dal giorno dell’incidente, quando i miei genitori sono morti, io non ho più avuto la possibilità di parlare con la mia voce. C’erano sempre altri a parlare per me, avvocati, assistenti sociali, amici dei miei genitori che neppure ricordo e famiglie adottive. Non ho potuto dire la mia, decidere con che famiglia stare, chi amare, chi chiamare mamma e papà.
Mai.
Nelle lunghe serate estive, quando faceva abbastanza caldo da non lasciarti dormire la notte, io immaginavo di volare lontano, in un posto dove avrei potuto esser chi volevo e quando volevo. Immaginavo il mio futuro, un futuro che potevo scegliermi da solo.
E, compiuti i diciotto anni, me ne sono andato di casa.
Dall’ennesima casa che mal vedeva quel ragazzo solitario sempre con la testa tra i libri.
Ho fatto i lavori più umili per entrare all’università e ho studiato molto per ricevere quella borsa di studio.
Volevo crescere per starmene per conto mio, per afferrare la mia vita con entrambe le mani e guardare gli altri che hanno sempre scelto per me e urlargli: Guardate! Non sono il moccioso decelerato che avete sempre creduto! Ho un cervello e sono capace di usarlo.
Ma dopo essermene andato da casa, dopo aver passato l’esame d’ammissione all’università a pieni voti, dopo aver trovato una casa decente e dopo aver ricevuto la borsa di studio, quella magra consolazione non mi serviva più.
Serio, diligente, responsabile, freddo, distaccato, questi sono solo alcuni degli aspetti del mio carattere. Motoki dice che sono un uomo di granito, che dovrei esser più ingenuo, più fiducioso verso gli altri.
Forse ha ragione.
Forse no.
Forse non sono mai stato un vero bambino, forse il mio passato, il mio traumatico passato, ha cancellato in me quell’innocenza fanciullesca che c’è in ogni bimbo. Forse sono diventato uomo troppo presto, così presto che ero un uomo in un corpo da bambino.
Per questo ho sempre voluto crescere e diventare un uomo.
Per questo un po’ invidio Usagi.
Il suo approccio al mondo, quell’espressione innocente da ragazzina che ogni tanto ha, quei suoi occhi sempre fiduciosi e la sua innata capacità di credere nelle persone.
Mi piacerebbe, anche solo per una volta, provare quello che prova lei quando osserva le persone che la circondano. Mi piacerebbe lasciarmi andare, fingere, anche solo per un’ora, di non avere responsabilità, di non aver pensieri, di esser tornato a quando ero piccino.
Ma non ci riuscirei, non ne sono capace, io sono questo e non posso certo cambiare.
Fisso le ragazze da dietro il bancone, questo grembiule mi fa sembrare ridicolo ma aiutare Motoki è un po’ il mio ringraziamento per essermi amico anche quando sono decisamente insopportabile. Il chi vuol dire spesso in quest’ultimo periodo.
Parlottano tra di loro, poi Minako prende ed esce come una furia facendo ridere altre. Continuo a servire ai tavoli giusto il tempo necessario per vedere anche le altre uscire con i rispettivi fidanzati.
Finisco di sistemare il tavolo, Usagi è seduta da sola come accade spesso in queste ultime settimane, sospira guardando fuori dalla finestra.
Vorrei sapere quali pensieri affollano quella testolina buffa.
Mi avvicino a tavolo e inizio a pulire, so che mi ha visto ma non si volta.
- Ti hanno lasciato sola anche oggi eh?
- Già. – risponde malcelando il suo disappunto per la situazione.
Si volta verso di me e io resto folgorato, il sole brilla alle sue spalle, la luce l’avvolge come una coperta dorata, i lunghi capelli brillano come oro puro, gli occhi sono due immensi zaffiri luminosi, mi sorride e il mio cervello, il cervello di cui vado tanto fiero, diventa una pappetta informe.
- Dovresti trovare anche tu un fidanzato.
Dio mio che farse idiota!
Non dovrei dire queste cose ad una ragazza.
Ma non sono mai stato bravo nelle relazioni tra uomo e donna.
Credo che diventerò uno di quei medici così freddi distaccati da lasciare solo un paziente in studio dopo avergli dato una brutta notizia, già mi vedo che porgo un pacchetto di fazzoletti all’ennesimo malato terminale e poi esco con la patetica scusa di un’urgenza, lasciandolo solo con il proprio dolore.
Forse Motoki ha ragione quando dice che sono di granito.
Intanto il sorriso di Usagi si è affievolito anche se non vuole farmelo notare.
- Ci sto lavorando.
Vorrei consolarla ma non so proprio da che parte si inizia così pulisco il tavolo e torno al mio lavoro.
Usagi resta seduta ancora qualche minuto poi si alza e si mette il cappotto. Mi saluta con un cenno di mano e io alzo solo il capo impegnato come sono con questi clienti.
Esce dal bar, affonda di più le mani in tasca e affossa il capo tra le spalle cercando un po’ di colore.
Mi immagino al suo fianco, cercando quell’innocenza che lei può darmi, scaldandola con il mio corpo.
Sì… sarebbe bello.
   
 
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