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Autore: Ariana_Silente    13/08/2012    1 recensioni
"«Secondo Silente è più facile perdonare gli altri quando si sbagliano che quando hanno ragione» intervenne Hermione.
«Ho sentito che lo diceva a tua madre, Ron.»
«Sembra proprio il genere di cose assurde che potrebbe dire Silente» commentò lui." - Harry Potter e il Principe Mezzosangue
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Albus Silente, Altro personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra
- Questa storia fa parte della serie 'Declino'
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Buona sera a tutti! Mi sono presa un paio di licenze poetiche, per così dire: nel primo libro si diceva che Silente aveva il naso adunco, come se fosse stato rotto almeno un paio di volte... una sappiamo che è stata al funerale di Ariana ad opera di Aberforth, ma non ricordo si sia accennata una seconda, e poi ho disegnato Ab un filo propenso a muovere le mani, ma aveva molte ragioni per avercela con il fratello... un'altra cosa: Ab è un tipo strano, ho pensato che la pittura potesse essere un suo hobby e anche mi sono presa la libertà di decidere che sapesse che il suo ritratto copre il passaggio per Hogwarts, che noi scopriamo nell'ultimo libro.
Non mi rimane che augurarvi buona lettura!

§§§§


Dopo la terza Notte.

 

 

 

«È chiuso, maledizione!» un altro colpo alla porta.
«Sono chiuso, per il sinistro floscio di Merlino!» nuovo colpo alla porta chiusa e già sprangata del locale.
«Fino a domani mattina non se ne parla minimamente, andatevene! Non voglio più sentire un solo colpo!» eppure, chiunque fosse alle due di notte ebbe la sfrontatezza di bussare ancora una volta.
Esasperato andai alla porta e aprii il bar, la bacchetta in pugno con tutte le intenzioni di scaraventare contro il muro opposto lo sfacciato importunatore.
Tutto quello che volevo vomitargli addosso mi rimase appiccicato alle labbra, mentre il respiro mi si fermò e il cuore perse diversi battiti.
Sentii cigolare l'insegna – la mia insegna – al vento di quella notte che si rivelava odiosa.
Difronte a me stava mio fratello, pulito, ordinato, i capelli e la barba con più fili grigi che rossi, ormai, legati.
Mi sentii per l'ennesima volta mancante al suo confronto, per il mio modo di vestire e del mio aspetto arruffato e disordinato e sporco, anche: quando devi tener dietro a una sorella e a un pub, mica hai tutto questo tempo per curarti e... Ariana!
«Stupeficium!» lo colpii proprio mentre alzava le braccia e prendeva fiato per parlare. Non glielo permisi.
Non gli concessi nemmeno un attimo per trovare parole adatte a spiegarsi, scusarsi, dare un filo logico alla morte di nostra sorella, anzi della mia sorellina.
L'unico che accettavo era che Albus fosse un grandissimo egocentrico ed egoista, innamorato per di più di un altro altrettanto egoista, egocentrico esaltato e pericoloso squilibrato assassino. Che andasse a cercare il suo maledetto bene superiore da qualche altra parte!
Sbattei la porta del mio pub con un colpo violento, facendo tremare addirittura la brina sulle superficie esterne, incurante del cartoccio sanguinante a terra dalla parte opposta della strada che era mio fratello.
 

ͼͽͼͽͼͽ

La notte successiva mio fratello si ripresentò alla mia porta e fece in modo di disturbarmi a tal punto che l'aprii e lo colpii ancora, questa volta però preferii rovesciargli addosso una scarica di cazzotti, un colpo inclemente dopo l'altro con l'intento preciso di fargli tutto il male che potevo. Mi ritrovai alla fine ansante, i pugni arrossati e doloranti sull'uscio di casa mia ad osservare il corpo inerte di mio fratello, rannicchiato e tremante, in più punti anche sanguinante.
Nonostante il sangue, le vesti sgualcite e in disordine, ancora una volta mi ritrovavo a disagio al suo confronto. Lui, la mente brillante e geniale, lui, il ragazzo prodigio, osannato da qualunque mago importante ed influente del nostro tempo, il promettente insegnante di Trasfigurazioni. Lui, ora accartocciato ai miei piedi dolorante, sanguinante e sporco... Ma pur sempre mio fratello.
Per la seconda volta si lasciava pestare a sangue, senza reagire minimamente anche se avrebbe potuto fermarmi col solo pensiero.

Siete fratelli, verrà il giorno in cui entrambi avrete bisogno dell'altro, e in quel momento riscoprirete la vostra immensa fortuna” diceva nostra madre alla fine dei nostri innumerevoli litigi e io tutte le volte sbuffavo, Albus invece sbatteva la porta di camera sua.

Ma dopo quello che era successo ad Ariana, avevo giurato a me stesso che mai più gli avrei rivolto parola e avevo deciso che mia madre sbagliava sul conto del figlio maggiore.
Eppure ancora incombevo su di lui, ansante e tremante anch'io.
Si allungarono gli attimi assieme ai nostri respiri prima corti e bruschi, Albus iniziò a rilassare il corpo e con estenuante lentezza aprì gli occhi e cercò i miei, gli occhiali erano finiti chissà dove.
Voleva dire qualcosa, lo sapevo, conoscevo bene mio fratello, ma voleva anche che facessi un qualsiasi segno per permetterglielo.
Una parte della mia mente si stupì di quel privilegio che mi accordava e che mai mi aveva concesso.
Ma la mi rabbia e il mio dolore si rilevarono ancora troppo grandi. Mi allontanai di qualche passo, respirando a pieni polmoni, mentre anche lui si tirava su a sedere, ma feci morire subito la speranza balenata nei suoi occhi: scossi la testa e sputai ai suoi piedi.
Senza curarmi di altro mi voltai e lo lasciai lì, a fare i conti con il suo fallimento, se l'intento era quello di parlare.

ͼͽͼͽͼͽ

Ero seduto a uno dei miei tavoli, un boccale di Whisky Incendiario tra le mani. Era tutto il giorno che ci pensavo.
Mio fratello che si lasciava picchiare, senza una parola, senza nessun tentativo di difesa. Quando i colpi lo raggiungevano faceva in modo di trattenere i lamenti, mordendosi le labbra.
Sembrava quasi che le ricevesse con gioia, le mie botta, lo vedevo, sotto le smorfie di dolore c'era una sorta di liberazione nei suoi occhi man mano che aumentavo la violenza e il ritmo con cui lo colpivo.
Riconoscevo quella sensazione perché la percepivo io stesso, un colpo dietro l'altro e quando alla fine avevo i pugni dolenti e le nocche sbucciate, una sensazione pulsante come pulsavano le mie mani, come se una morsa in seguito ai miei colpi tendesse ad allentarsi e la sofferenza che mi infliggeva nell'animo diminuiva.
In tutti quegli anni di solitudine mi ero chiuso nel mio dolore, nella mia disperazione, a piangere la mia perdita e ad alimentare la mia ira nei suoi confronti e di quell'altro elemento.
E in tutti quegli anni lo avevo escluso. Quindi non mi ero mai soffermato a riflettere che in fondo anche Albus, come me, aveva perso tutto...

Bussarono alla porta.
Non risposi.
Bussarono di nuovo.
Non mi mossi, sorseggiando il Whisky.
Bussarono ancora.
Sollevai lo sguardo, indugiando sulla porta, era lui. Riconoscevo quel suono.
«La porta è aperta» mi decisi alla fine, ma non mi degnai né di muovermi né di salutarlo, una volta che richiuse la porta dietro di sé.
Si fermò alle mie spalle e rimase dritto, fermo e zitto, tanto che potei udire bene le gocce d'acqua cadere dal suo mantello.
Ordinai al fuoco di accendersi nel camino alla parete.
«Appendilo al caldo, non vorrai infangarmi il pavimento» sperai di suonare il più scortese possibile.
Senza una parola si avviò al camino e appese il mantello che portava sulle spalle. Quindi rimase accanto all'appendi abiti, le braccia lungo i fianchi. Non so in attesa di cosa.
Rimase in silenzio per un tempo considerevole e alla fine mi spazientii.
«Che vuoi?»
«Pensavo ripetessimo il solito copione» lo guardai in cagnesco.
«Sul serio, che diavolo vuoi ancora?» sibilai cercando di imprimere tutto il mio disprezzo. Mi guardò bene negli occhi.
«Proprio questo. Il tuo disprezzo, è una delle poche cose che merito» ci guardammo.

Era invecchiato. Eravamo invecchiati terribilmente entrambi, il dolore era inciso nelle rughe precoci della fronte e nei capelli grigi che incorniciavano i nostri volti.

«Se sei un Legilimens così abile sai bene cosa mi sono ripromesso, quindi levati dai piedi il più velocemente possibile» non dovetti fare nessuno sforzo questa volta per far trapelare la mia rabbia e la mia amarezza.
Lui mi guardò ancora negli occhi, poi li abbassò non prima che io notassi che lo scintillio che li animavano era svanito alle mie parole. Riprese il mantello ancora umido, se lo gettò sulle spalle.
Sentii una fiamma calda avvolgermi il cuore per la gioia vendicativa che provai quando mio fratello maggiore abbassò il capo, passandomi accanto.
Lo seguii fino alla porta, stava per mettere mano alla maniglia, ma lo afferrai per il braccio e lo feci voltare, come sempre il suo viso superava il mio.
«Non sei così stupido da credere che possa perdonarti» gli ringhiai addosso a un soffio dal suo naso. Notai con un'altra ondata di gioia maligna che non era più tornato come prima, era rimasto adunco. La rabbia mi ribollì nelle vene a una velocità impressionante, un liquido velenoso e ustionante.
Il suo viso prima neutro ebbe un tremito e un'ombra scese nei suoi occhi.
«Lo so. Ho detto che merito il tuo disprezzo... però, Aberforth...» le parole gli mancarono, annaspò cercando l'aria da respirare e io aumentai la presa sul braccio... mi godetti quei miseri attimi di vendetta che non ci avrebbero mai ridato indietro quanto avevamo perso... «cerca... prova a mettermi nei miei panni...» capì di aver scelto le parole sbagliate nello stesso istante in cui le pronunciava, ma era già troppo tardi.
Gonfiai il petto per la rabbia, la mano libera si chiuse a pugno di scatto, caricai tutta la forza che avevo nel braccio sinistro e glielo scaraventai un'altra volta sul naso.
Sentii distintamente il suono sinistro che si creò e il mugugno di mio fratello mi disse che gliel'avevo rotto per la seconda volta. Un'ondata di sangue sgorgò e andò a inzuppare le nostre vesti. Prima di sbatterlo fuori dal mio locale gli urlai in faccia tutta la mia rabbia.
«Non posso mettermi nei panni dell'assassino di mia sorella!»

ͼͽͼͽͼͽ

Mio fratello non si presentò per diversi giorni e io ebbi tutto il tempo per chiedermi se davvero era quello che volevo. Se davvero volevo vivere pieno di quella rabbia e quell'amarezza che rendeva amare le mie giornate.
Nessuno mi avrebbe mai strappato via la terribile consapevolezza che era per colpa del comportamento di mio fratello se la mia sorellina era morta e nessuno mi avrebbe mai liberato del tutto della rabbia che mi gonfiava il cuore.
Eppure, per quanto potessi portargli rancore, non potevo ignorare il fatto che fosse stato lui a tornare da me, che si fosse fatto quasi ammazzare di botte senza un fiato e poi...
Allungai la mano a sfiorare le dita di mia sorella, ritratta nel dipinto sopra il camino che nascondeva il passaggio che portava a Hogwarts.
Ci scambiammo un lungo sguardo, come facevo tutte le sere, prima di andare a dormire.
Ariana non avrebbe voluto che ci facessimo del male per colpa sua.
Io e Albus avevamo molto in sospeso... l'unico modo per sbrogliare la matassa era o che lo ammazzassi per davvero di botte, ma questo mi avrebbe condotto ad Azkaban – lanciai un altro sguardo di traverso a mia sorella che fece un cenno col capo – e lei non avrebbe voluto nemmeno questo... oppure, rimaneva che lasciassi ad Albus tempo e modo per parlare, di certo se la cavava più di me con i discorsi.
Attesi fremente che mio fratello riprendesse il coraggio a due mani, ignorasse ancora una volta l'orgoglio in frantumi e tornasse da me.

ͼͽͼͽͼͽ

Successe una sera di fine settembre, avevo chiuso già da diverse ore e stavo seduto a un tavolo accanto al camino, le mani a scorrere le venature e i segni del legno rovinato, in modo da vedere bene la porta, come facevo dall'ultima visita di Albus.
Bussarono e riconobbi la mano di mio fratello dietro quei colpi. Questa volta non lo feci attendere.
«Entra.» Albus entrò e fece qualche passo avanti fino ad arrivare al semicerchio di luce prodotto sulle mattonelle dal fuoco. Ci guardammo e io cercai di capire come stava: era teso e ansioso, lo capivo da come stringeva i lembi del mantello.
«Vuoi rimanere in piedi tutto il tempo?» feci spostare la sedia difronte a me, invitandolo a sedersi, poi feci comparire dei boccali di Burrobirra. Lui si fece avanti esitante, non del tutto rassicurato dalla mia accoglienza.
Finalmente si convinse a sedersi e io gli avvicinai il boccale. Lui annuì.
«Grazie» e bevve un sorso lentamente.
«Non controlli se c'è qualche veleno?» lo apostrofai, tutte le volte lo faceva, a casa, quando ero io a porgere le bevande per avere modo di sfoggiare le sue abilità. Mi lanciò uno sguardo penetrante, addolorato.
«È finito il tempo dei giochi» mi rispose gravemente. Annuii con lo stesso sguardo. Rimanemmo in silenzio... cosa ci si dice dopo anni di silenzio e dopo tre incontri in cui uno massacra l'altro di botte e gli spacca il naso?
Albus aveva il capo chino, le spalle in avanti. Sembrava distrutto.
«Mi dispiace, davvero. Mi dispiace per tutto. Perché è colpa mia, lo sappiamo tutti e due. Perché hai cercato di avvertirmi e non ti ho dato retta. Ma ero giovane, avevo appena perso i miei genitori e all'improvviso mi sono ritrovato una responsabilità immensa tra le mani che non ho saputo gestire. Non sono una bella persona, sono stato egoista e vanitoso, troppo impegnato a sbandierare i miei successi. Aberforth, mi dispiace. Lo so che questo non cambia quello che è successo, ma i tempi si fanno oscuri e io... mi sentirei più tranquillo a sapere che c'è qualcuno di cui fidarmi ciecamente.» Aveva parlato tutto d'un fiato, lasciando trasparire l'enorme sofferenza che provava, l'angoscia. Ma quello che mi colpì più di ogni altra cosa, più delle parole, fu la vergogna che lasciò intendere tra le righe, che mano a mano che si avviava alla conclusione del discorso gli impediva di alzare gli occhi e incontrare i miei.
Aspettai che sollevasse la testa per guardarmi, prima di parlare a mia volta.
«Hai ragione, Albus. E ti credo quando dici che ti dispiace. Sei stato un ragazzo molto orgoglioso ed egoista, anche questo è vero. È vero che ci sono capitate delle gravi disgrazie, la vita non è stata facile per noi, non possiamo negarlo. Ma credo che il diciassettenne che sei stato, non avrebbe mai rinunciato al suo orgoglio, non avrebbe mai saputo mettere da parte la superbia ed ammettere la sua colpa. Non avrebbe mai avuto il coraggio di tornare sui suoi passi ad affrontare il suo zotico fratello minore, consapevole di prenderne un sacco e una sporta.»
Scese di nuovo il silenzio tra noi, rimanemmo immobili con il respiro corto e fremente per l'enorme commozione che ci avvolgeva.
Albus deglutì un paio di volte a vuoto, io distolsi lo sguardo e mi strofinai gli occhi col dorso della mano.
Quando capii che l'emozione stava per sopraffarmi, mi alzai di scatto, lo sguardo d'un tratto ansioso di mio fratello puntato addosso, ma io indicai la porta dietro il bancone.
«Voglio farti vedere una cosa.»
Lo portai con me fino al salotto con il camino e gli mostrai Ariana.
Lui le si avvicinò tremante, un passo alla volta. Alcune lacrime gli brillarono agli angoli degli occhi. A un passo dal ritratto, la mano alzata a mezz'aria mi lanciò un'occhiata per chiedermi se poteva e io feci di sì con la testa.
Restai in disparte e gli lasciai tutto il tempo che voleva con nostra sorella.
Quando si voltò verso di me e potei guardarlo, sentii che molte lacrime mi scivolarono ribelli sulle guance e si persero nella barba. Albus stava piangendo quelle lacrime che non aveva versato mai prima, lo sapevo.
Mi avvicinai cauto senza una parola, poi appoggiai una mano su una dipinta della bambina.
«Pensavo che ti sarebbe piaciuto vederla... l'ho dipinta...» non riuscii a concludere la frase, l'avevo iniziata prima che morisse, per questo lui non aveva mai saputo nulla del quadro.
Albus si schiarì la voce, mi parve che si preparasse per un'ultima fatica e io lo lasciai fare.
«Mi avevi chiesto cosa volessi ancora, ti ricordi?» annuii guardandolo.
«Vorrei ancora mio fratello, perché...» «Siete fratelli e verrà il giorno in cui entrambi avrete bisogno dell'altro, e in quel momento riscoprirete la vostra immensa fortuna» completai, facendo il verso a nostra madre, nonostante l'età e il tempo trascorso. Albus annuì, i suoi occhi erano tornati a scintillare.
«Vorrei un po' di quell'immensa fortuna» gli sorrisi, come non sorridevo da un'eternità.
«Allora facevi in tempo a sentirlo» ghignai divertito.
«Ho sempre sentito anche il tuo sbuffo a dir la verità» mi sorrise anche lui e prima che ci rendemmo conto di cosa stava succedendo eravamo abbracciati a pochi passi dalle braccia aperte di Ariana, sopra di noi.

Il volto malinconico della bambina dipinta si aprì in un sorriso soddisfatto, di trionfo quasi, ma i fratelli non lo notarono.

 

ͼͽͼͽͼͽ

 

 

 

 

 

«Secondo Silente è più facile perdonare gli altri quando si sbagliano che quando hanno ragione» intervenne Hermione.
«Ho sentito che lo diceva a tua madre, Ron.»
«Sembra proprio il genere di cose assurde che potrebbe dire Silente» commentò lui. 

 

 

 

 

  
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