Water
«Lui
vive in te»
Re
Leone.
Nel
tour-bus nessun letto era rifatto. Le lenzuola candide come la neve
erano
attorcigliate su se stesse, mentre le coperte più pesanti
erano riverse per
terra. Era impossibile camminare sulla moquette bordeaux senza
calpestare
qualcosa. Maglie, pantaloncini, indumenti intimi
–principalmente erano i
mutandoni dei maschi- tazze da latte e fazzoletti. Se non trovavi uno
di questi
oggetti, era inutile che cercassi con più attenzione
nell’armadio, nella
valigia, nella borsa o nella dispensa. La moquette
era la risposta ai tuoi problemi.
Inutili
erano le strigliate di Terry McBride, il mio manager, che ogni santo
giorno ci
rimproverava di questo caos, che lui amorevolmente definiva
‘porcilaia’. Era
solo fiato sprecato.
All’istante
gli davamo anche retta, all’inizio per paura e poi solo per
compiacerlo.
Tiravamo su le coperte e piegavamo i vestiti che riponevamo dentro le
valigie e
negli armadietti.
Tuttavia
non imparavamo mai. Nell’arco di mezz’ora
già era tutto sotto sopra, come
prima. Come se Terry McBride non ci avesse mai redarguito.
Era
facile buttare tutto a soqquadro. Mark Spicoluk e Jesse Colburn
sostenevano di
non riuscire a gustarsi un piatto se non lo mangiavano sdraiati sul
letto. Così
le coperte si sgualcivano in un attimo. Evan Taubenfeld prima di uno
show aveva
delle crisi adolescenziali: non riusciva mai a decidersi che cosa
mettersi.
Dico io, hai forse 14 anni? Io ne ho 19 e questi problemi non me li
sono mai
fatta. E sono pure una ragazza. Comunque ritornando al discorso, dato
che il
mio miglior amico Evan si faceva dei complessi mentali così
grandi da indurre
al suicidio una persona instabile e debole, tirava fuori disponendoli
con cura
sul letto tutti i suoi vestiti. Poi ne prendeva uno alla volta e li
esaminava:
se non gli andavano a genio, invece che ripiegarli con cura e riporli
all’interno della valigia, li buttava all’indietro.
Per far prima, diceva. Dato
che prima di un concerto eravamo tutti su di giri, chi provava
incessantemente
i pezzi da portare in scena, chi si spruzzava quintali di lacca per
apparire perfetto davanti agli
occhi dei fan
urlanti, chi rideva o piangeva istericamente per l’ansia,
Evan per così dire si
esentava da quel manicomio e se ne stava da solo –o quasi- a
rigirarsi
convulsamente tra le mani i capi, non riuscendo a decidere quale
mettersi.
Poteva rimanere lì anche ore prima di emettere una sentenza.
Ma il tempo come
si sa, non basta mai.
Così
arrivavo io, con tutta la mia baldanza e fierezza che 19 anni e un
disco al
primo posto possono conferire e facendo finta che me fregasse qualcosa,
gli
indicavo quali vestiti avrebbe dovuto mettere.
«Sei
sicura?» Era la sua consueta domanda.
«Certo.»Rispondevo
io impassibile.
«Perché
io..»
«Quegl’altri
li metti al prossimo concerto ok?» Cercavo sempre di tagliar
corto, dato che di
vestiti non me ne sono mai intesa e interessata.
Andava
sempre così. Ovviamente Evan non avrebbe lasciato quei
vestiti già preparati
per il prossimo show e così la storia si ripeteva ad ogni
singola tappa.
Che
noia.
Infine
si entrava in scena prima che Evan potesse raccogliere tutti gli
indumenti.
Facile mettere in disordine, non trovi?
Quel
giorno avevo un cappellino beige squadrato in testa e masticavo
freneticamente
una gomma al gusto di fragola.
Mi
ero alzata con una gran voglia di scrivere canzoni. Questo fatto mi
sorprese.
Di solito accade dopo eventi che mi hanno segnata emotivamente e che
hanno
lasciato qualcosa dentro di me. Per esempio il fidanzato che mi ha
lasciato, la
solitudine e l’insicurezza che mi hanno pervaso dopo questo
evento. Oppure la
forte infatuazione per un ragazzo che però non corrisponde i
miei sentimenti…
Questa
volta era diverso. Solamente un grande impulso a scrivere, non sapevo
nemmeno
su cosa o chi scrivere.
Presi
così intanto a girovagare per il tour-bus in cerca di penna
e block notes per
buttare giù qualche frase.
Frugai
nel cassetto sotto il mio letto, ma non trovai nulla. Così
chiesi a Mark e a
Jesse se avevano penna e carta da prestarmi, ma niente.
«Se
ti inabissi fino a toccare la moquette potrai trovare molte cose andate
perdute. Puoi tenare!» disse Mark scherzosamente mentre Jesse
esplodeva in una
fragorosa risata. Ma non ero dell’umore giusto per ridere.
Non
ero arrabbiata né triste. Anche perché non avrei
avuto motivo di esserlo.
Tuttavia
sentivo come un chiodo sul petto che mi puntava con forza.
Decisi
di ignorarlo e di proseguire nella mia ricerca al block notes e alla
penna.
Appena vidi Terry corsi da lui e gli chiesi se poteva procurarmi il
materiale
che mi serviva.
«Basta
cercare. Se qua dentro tutto fosse ordinato le cose si troverebbero in
men che
non si dica!»
Me
ne andai con un certo risentimento, non avevo voglia di discutere.
Presi
a rovistare per terra quando scorsi una penna blu. Per il block notes
impiegai
più tempo, ma lo trovai accanto alla porta del bagno.
Mi
assicurai che la penna funzionasse e mi stravaccai sul letto.
Impugnai
la penna decisa a scrivere fiumi di parole. Ma di tutta
quell’acqua che mi
sentivo di sprigionare, non ne arrivò nemmeno una goccia.
Fissai imperturbabile
il foglio bianco, mentre le lancette si muovevano e il tempo scorreva.
Avevo
l’impulso di scrivere, volevo scrivere. Ma non mi usciva
nulla.
Che
odio.
Dopo
mezz’ora abbassai il block notes e presi a guardare il tetto
del tour-bus. Era
verde, con delle stelline gialle ocra.
Che
schifo.
Poi
mi attorcigliai le coperte, fino a coprirmi completamente, cercando di
estraniarmi e di entrare in un mondo tutto mio.
Che
puzza.
Da
quant’è che le coperte non venivano più
cambiate? Due settimane? Tre?
Potrei
scrivere di
questo, pensai. Di come non mi va bene niente di questo
fottutissimo mondo e di come un chiodo invisibile mi sta perforando il
petto
senza alcun motivo!
Mi
buttai giù dal letto e mi diressi nel cucinotto.
Presi
una mela vicino al lavandino e l’addentai, non mi interessava
se non era
lavata. Non è l’unica
cosa sporca qui
dentro. Una in più o una in meno non cambia niente.
Non mi presi nemmeno la
briga di sbucciarla, tanto la mia pigrizia stava avendo la meglio su di
me.
Appena
buttai via ciò che restava di una mela rossa come i capelli
di Jessica Rabbit,
percepii qualcosa di strano.
Una
macchia si diffuse dentro di me, impregnando torace, fegato, stomaco,
milza,
tutto quanto. Non era più un chiodo. Ma una sostanza, una
sorta di catrame che
aveva preso in una morsa il mio bacino e sembrava non avere intenzione
di
dissolversi.
La
testa cominciò a vorticare e un senso di nausea mi
salì fino alle narici. Presi
una bottiglia d’acqua e mi attaccai al becco, noncurante
delle buone maniere e
me ne scolai metà. Più bevevo e più
ero assetata. Non mi era mai capitata una
cosa del genere.
Lasciai
il cucinotto e arrancai fino al mio letto, mentre la mela mi
ballonzolava nello
stomaco. Mi distesi completamente e mi infilai le cuffie
dell’MP3 nelle
orecchie. Appena la musica partì, sollevai i piedi e
cominciai a volare mentre
lasciavo il tour-bus, l’America e questo pianeta.
Non
ero più Avril Lavigne. Non vivevo più negli Usa.
Ero distaccata da tutto e da
tutti, in un mondo impenetrabile, dove solo io conoscevo la chiave e
dove io
ero il capo indiscusso e onnisciente..
Poi
il sole si oscurò e un uomo di mezza età con un
cipiglio pronunciato si materializzò
davanti a me. Abbozzai un’ espressione di stupore, riposi i
piedi per terra e
accantonai le ali e la mia vena dittatoria. Tolsi le cuffie e mi misi a
sedere
sul letto. Era incredibile, la nausea e il mal di testa se ne erano
andati.
«Avril,
ti devo parlare» Terry aveva abbandonato per un secondo
quell’aria burbera e si
fece più…. Umano.
Scacciò
Mark e Jesse che tentavano di origliare la conversazione, pregando loro
di
lasciarci soli.
Di
solito Terry esponeva le prossime mosse a tutta la band e non solo a
me. Magari
a loro lo avrebbe rivelato più tardi. O magari non si
trattava di musica.
E
infatti indovinai.
«Ho
ricevuto una chiamata» proferì in tono serio.
«Wow!
E chi è Britney? Si è arrabbiata
perché la ragazza finta punk ha più successo
delle sue mise succinte e volgari?»
«No
Avril.. De.»
«O
magari Justin Timberlake? O Christina Aguilera o Anastacia?»
Sebbene
leggessi sul volo di Terry l’esasperazione, non potei farei a
meno di
continuare con la mia lista dei cantanti più In del momento.
Mi
sarebbe piaciuta una collaborazione. Con qualsiasi artista.
«Lasciami
parlare!»tuonò, così mi tappai la bocca
e finsi interesse per ciò che avrebbe
dovuto dirmi.
Intanto
la mia mente vagava altrove. Magari era Deryck.. Voleva un appuntamento
con
me..
«Genitori.»
Fu quella parola che mi risvegliò e mi portò alla
realtà. Che c’entravano i
miei?
«Eh,
non ho capito.»
Terry
mi guardò torbida e sebbene avesse intuito che ero stata
distratta tutto il
tempo disse: «Hanno chiamato i tuoi genitori.»
Ah,
preferivo
Deryck.
Abbozzai
un’espressione disinteressata. Avranno
chiamato per farmi gli auguri per il concerto, no?
Poi
vidi Terry incupirsi e abbassare gli occhi. La voce gli
suonò in un modo così
dolce e dispiaciuto, che mai più l’ho sentita
dacché lo conosco.
«Mi
dispiace tanto, Av»
Inarcai
le sopracciglia e sgranai gli occhi.
Il
catrame dentro il mio petto era ritornato più forte che mai,
minacciando di
aggredire gli arti, mentre il sapore di vomito riaffiorò
alla bocca, più
intenso e disgustoso di prima.
Poi
senza altri giri di parole, la frase arrivò secca e
tagliante, come una
frustata.
«Tuo
nonno è deceduto ieri notte. Credimi, mi dispiace
tanto.»
**
Mi
sentii come se un grandissimo tubo avesse prosciugato tutto
l’ossigeno del
mondo. Come se una tarlo mi stesse divorando lentamente, togliendomi
tutte le
forze fisiche e la lucidità mentale. Mi sentii come se la
felicità fosse stata
asportata via da me e mi si fossero iniettate insicurezza, tristezza e
angoscia.
Evitai
lo sguardo di Terry. Prima abbassai il capo, scrutai le mie converse
nere un
po’ strappate ai lati, poi girai la testa a destra verso il
finestrino e la
luce del sole mi sembrò più fioca rispetto a
prima.
Tentai
di dire qualcosa, ma il catrame era giunto fino alla gola, impedendomi
di
proferire parola, mentre un busto in gesso invisibile stringeva in una
morsa il
mio petto. Poi la testa vorticò come non mai, il sapore di
vomito si fece più
intenso e la mela prese a rimbalzare come una palla da basket dentro il
mio
stomaco.
Non
sapevo che cosa dire. Non sapevo che cosa fare. Tutto ciò
che volevo era
sotterrarmi sotto un mare di coperte, da sola, rinchiusa nel mio
piccolo mondo
dove la paura, la tristezza e la morte non esistevano senza che
qualcuno
cercasse di consolarmi. Anzi, più che farmi sentire meglio,
mi avrebbe fatto
innervosire ancora di più.
«Condoglianze»
Ancora
sei qui?
Terry vattene, cazzo. Ho bisogno del mio spazio e di pensare a
ciò che è
successo. Non
sapevo bene cosa provavo, era un misto tra dolore lancinante e una
rabbia
assurda.
Fui
in grado solo di sbiascicare un «Grazie» e poi me
ne andai a testa bassa mentre
le lacrime cominciarono a rigare il mio viso.
Attraversai
il corridoio, aprii la porta dove Jesse, Mark ed Evan ridevano e
scherzavano.
Odiai quella visione. Loro possono essere
felici, mentre io no? Loro possono avere ancora i nonni in vita, mentre
io no?
Dio, perché?
Appena
entrai l’atmosfera si fece più pesante. I tre si
accorsero immediatamente del
mio malumore e quando Evan si avvicinò non poté
non notare le lacrime. Mi prese
il viso tra le mani, cercando di instaurare un contatto visivo con me.
«Av,
tutto bene?» Mi sussurrò dolcemente.
«Vattene!»
Gli risposi sgarbatamente e con uno scatto mi liberai dalla sua presa e
corsi
in bagno, chiudendomi a chiave dentro.
Non
avevo voglia di stare tra la gente, di sorbirmi la loro finta
compassione, il
loro fino rammarico e dispiacere. Volevo solamente sfogarmi, piangere
quante
lacrime avevo da piangere e lasciarmi tutto dietro alle spalle.
Mi
accovacciai in un angolino, accanto allo sciacquone, aspettando che
tutte le
lacrime finissero. Ma fui interrotta da un rumore sordo alla porta.
Qualcuno
aveva appena bussato.
Era
Terry.
«Av,
si va in scena.»
A
quelle parole mi sentii raggelare il sangue. Non potevo salire su un
palco in
quello stato. Non sarei riuscita a dare carica al pubblico, dato che io
stessa
non avevo forze nel corpo e nell’anima.
Rimandiamo
il concerto,
ti prego!
Ma
non potevo deludere tutti i miei fan che si erano sacrificati per me
arrivando
fino a qui, spendendo tanti soldi e soprattutto sapevo che loro
aspettavano
questo evento da tanto tempo. No, non volevo essere io la causa della
loro infelicità.
Non me lo sarei mai perdonata.
«Arrivo»
dissi debolmente.
Mi
guardai nello specchio e vidi una ragazza bionda scapecchiata con gli
occhi
gonfi di lacrime e rossi.
Puoi
farcela! Vai,
il nonno è qui con te. Lui non vorrebbe che tu fossi
così triste.
Mi
asciugai le lacrime e mi ritoccai un attimo il trucco.
Aprii
la porta e Terry McBride era lì, di fronte a me.
«Ce
la fai?»
«Certo.»
**
Mi
trovavo dietro le quinte e sentivo una mare di fan urlanti e
scalpitanti che
aspettavano solo me. Chissà quanta strada avevano percorso
per vedermi. I soldi
che avevano speso, le persone che avevano disturbato..
E
io stavo per mandare all’aria ogni cosa.
«Mi
dispiace
ragazzi, il concerto è stato annullato!»
Quanti
visi tristi, quante speranze illuse, quanto tempo perso..
Certo
non stavo bene. Il catrame ancora c’era e pure il busto
invisibile.
Non
so bene come
farò a cantare con questo groppo in gola,
pensai.
Tuttavia
quando le luci si accesero e mi ritrovai in mezzo al palco, il calore
emanato
dalle centinaia di ragazzi e ragazze venuti qui solo per me,
cominciò a
dissolvere quella sostanza nerastra, lasciandomi più libera.
Per
quel giorno decisi di applicare una modifica alla scaletta.
Avrei
iniziato con Tomorrow.
Quel
brano era essenziale per me. Il testo mi rispecchiava in pieno e
soprattutto
andava a nozze con la mia situazione.
And I, I don’t know how to feel,
tomorrow.
Imbracciai
la chitarra e aggiustai il microfono.
Poi
le parole mi uscirono senza che ci avessi meditato su:
«Voglio
soltanto dire, che il concerto oggi è dedicato a mio
nonno»
Ti
prego non
piangere, ti prego, ti prego, tiene a bada le lacrime!
«Che
è morto proprio oggi..»
Ma
non ci riuscii. In fin dei conti, non avevo esaurito tutte le lacrime
dato che
Terry mi aveva interrotto poco prima del concerto, quando ero rinchiusa
nel
bagno.
Cominciai
a suonare, ma la mia voce non era fluida come le altre volte. Il groppo
in gola
era appena ritornato, facendomi cantare a singhiozzi.
C’erano
state esibizioni migliori, certo. Eclissai sugli acuti, le lacrime non
se ne
andavano mai e quando me le asciugavo con la mano erano sempre pronte
lì per
riaffiorare. Tuttavia fu un’esibizione epica, tanto che a
distanza di 9
anni i fan se la
ricordano perfettamente
e per molti è anche la loro preferita.
Dicono
che si è vista la mia parte umana, la mia
sensibilità e sebbene al momento non
riuscissi a pensare a nient’altro se non a mio nonno, al suo
viso sorridente e
di come mi aveva sempre supportato in qualsiasi cosa facessi, i fan
sostengono
che sia stata una performance davvero coinvolgente e toccante. Le
lacrime
soprattutto mi hanno aiutato per mostrare e chiarire tutti i dubbi a
coloro che
credevano che fossi una bambola nelle mani dei discografici.
Mai
è stato così e
mai lo sarà.
**
Finito
il concerto mi buttai sul letto e sprofondai sotto ben tre coperte.
Mi
rannicchiai in posizione fetale, ma questa volta allontanai da me le
cuffie e
presi in mano il block- notes e la penna. Ora sapevo esattamente cosa
scrivere
e su chi scrivere. La mia mano prese a danzare sulla carta bianca
mentre la
bick azzurra stampava parole chiare e concise. Buttai giù il
testo in 10
minuti. Lo revisionai più volte, apportando piccole e
innocue modifiche,
successivamente, ma il fulcro, il disegno iniziale che si era creato
nella mia
mente e che la mia mano aveva messo alla luce, era rimasto intaccato.
Ricordo
che mentre la penna procedeva imperterrita, le lacrime affioravano di
tanto in
tanto e cadevano sul foglio bianco lasciando dei piccoli aloni
grigiastri.
Ricordo
che non riuscivo a staccare gli occhi dal block- notes e che la mia
testa era
una fucina di idee.
Ricordo
di aver appuntato nell’angolino in basso a destra gli
strumenti musicali che
volevo. Ricordo che quella melodia l’avevo già in
testa mentre buttavo giù il
testo.
«In
questa canzone, voglio il pianoforte»
Credevo
che si addicesse questo strumento più degli altri, al sound
che volevo dare
alla mia nuova creazione.
Genere?
Piano-rock
assolutamente. Non voglio niente di allegro, ma qualcosa che faccia
venire la
pelle d’oca ai miei fan, che faccia capire loro il dolore
della perdita di una
persona cara.
Poi
arrivò il momento di apporre un titolo alla canzone. Senza
pensarci troppo mi
avvicinai al foglio e in alto a destra scrissi:
Slipped Away.
Angolo
Autrice: Un
grazie di cuore e un forte abbraccio (virtuale LOL) per aver letto
tutta la mia
storia (do per scontato che se leggi questa nota tu abbia letto tutto
il
racconto). Spero che tu recensisca, ma se sei proprio pigro/a mi
accontento
anche di un mi piace J,
certo se non ti è piaciuta la mia one-shot allora invece che
snobbarmi puoi
commentare dicendomi che faccio schifo come scrittrice e che ho delle
idee
insipide. Comunque
ci ho messo di più a
buttare giù queste 6 righe che l’intera storia xD
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