I Fiori
Ormai da un paio di mesi era stato annoverato tra le figure leggendarie del quartiere, spostando tutta l’attenzione sudi sé, la stessa attenzione rionale che fino a pochissimo tempo prima era stata totalmente devota all’uomo dal nome affilato che spaventava le bambine all’uscita di scuola o nelle strade più frequentate. In un quartiere come quello, non era difficile immaginare come in meno di due settimane il maniaco avesse mostrato le sue vergogne a più della metà delle bambine della vicina scuola media.
Alle famiglie era stata inviata una lettera circolare
preventiva, nella quale si parlava di una situazione più che fastidiosa, di
quell’uomo malato, che sarebbe dovuto essere altrove, in una qualsiasi comunità
di recupero.
Si parlava anche di servizi sociali, di storie travagliate.
Si era detto di tutto, ma dopo un paio di giorni di
convalescenza in prigione, l’esibizionista era nuovamente all’opera. Altra
opera, però, era stata quella di catarsi avvenuta nella maggior parte delle
bambine del quartiere, le quali ormai non sembrano più disposte ad avere paura,
e si aggiravano per le strade indisturbate, cantando a voce spiegata e
raccontandosi gli ultimi avvenimenti consumatisi tra le mura scolastiche.
C’era da stupirsi di fronte alla morale di quella
generazione, sfacciata e giocosa come quelle giornate di fine Maggio, prive di
un qualsiasi ritegno nei confronti del lavoro svolto a scuola nella settimana
precedente alla chiusura.
Ma, come già detto, la predisposizione all’accettazione
delle dicerie rionali aveva successivamente trovato un nuovo soggetto, una
nuova personalità catalitica, ben lungi dall’irruenza dell’affilato
esibizionista, ma potenzialmente più accattivante agli occhini quel paese nella
città.
Il soggetta che aveva fatto la sua apparizione, praticamente
dal nulla, era sui diciotto, a quanto riferivano i più.
Tuttavia persisteva un contingente di ventenni melanconici
che non aveva dubbi sul fatto che il suo volto tradisse più anni di quanti ne
avesse realmente.
Un’ombra di barba che sul quel volto avrebbe dovuta esser
comparsa solo da poco, lo caratterizzava profondamente, rivelando una virilità
latente sotto i vestiti, viva ma contenuta, pulita e profumata sotto una
camicia. L’età, insomma, oscillava tra i sedici ed i diciannove anni, a seconda
della versione che si decideva di ascoltare. Con la pazienza del caso.
Nessuno – dicevano- sapeva indicare con precisione quando
fosse comparso, quando la sua immagine avesse per la prima volta incuriosito
l’opinione pubblica del quartiere.
Si scusavano molto, ma non lo sapevano proprio, non
conoscevano la risposta a questa domanda.
Ma le ipotesi non mancavano affatto.
Dapprima si fece avanti la corrente di quelli che lo
volevano comparso proprio in corrispondenza dell’arrivo delle ciliegie sugli alberi-
giuravano di averlo visto assaggiare il primo frutto di quei rami fitti e
appesantiti, tendenti al vento, alla commistione tra sole ed aria.
Secondo altri – e questa era la soluzione più consolidata-
il suo arrivo era da associarsi alla fine delle vacanze estive.
Quest’ultima ipotesi fu preferita proprio in virtù delle
successive congetture riguardo a quello che lo spingeva a compiere
quotidianamente quei gesti così misurati e virili al tempo stesso.
Su una cosa, però, non si erano riscontrati dissensi. Il
luogo di apparizione.
Lo si vedeva svolgere il suo ufficio sempre e soltanto
davanti a quella porta in ferro battuto, incassata nel muro, un muro rurale,
intriso quindi del fascino della muratura a secco, tipica delle case più
antiche del quartiere.
Era un luogo che fino a pochissimi decenni prima poteva
tranquillamente campagna, quel quartiere.
E tuttavia, l’avvento dei palazzi, dei viali e della civiltà
cittadina, non ne aveva minimamente stravolto l’armonia.
C’erano palazzi, ma anche un fiume e villette a schiera. In
collina, sotto la cittadina di Fiesole – stiamo dunque parlando di Firenze- si
potevano incontrare magnifiche ville che sbadigliavano sulla visione globale
della città. Il tutto attraverso innumerevoli muretti trafitti da edere a dal convolvolo,
nasturzi che fiorivano dappertutto.
E ancora ulivi abbandonati nei prati, e lucciole che
rincuoravano le nottate di Maggio. Tante e luccicanti.
E strade in salita, nascoste tra gli alberi e cinte dai muri
a secco, percorse da qualche turista più avventuroso degli altri e da qualche
anima volenterosa che facevano jogging.
Per questo – proprio in una di quelle strade- la
visione di quel ragazzo di fronte ad
uno di quei cancelli di ferro battuto era qualcosa di disarmonicamente
romantico, un’eccezione alla regola oziosa che da anni sembrava essere in
vigore da quelle parti.
Non suonava mai il campanello, non bussava alla porta. Si
limitava a toccarla, sentendone la fattura sotto il palmo della mano.
C’era chi era certo di averlo visto una volta stringere la
maniglia e accennare una timida spinta, quasi avesse voluto avere la conferma
che anche volendo non avrebbe potuto entrare. Tuttavia anche i più audaci asseriscono che quella fu effettivamente
l’unica volta che la sua composta potenza perse ogni dolcezza e uscì dal
binario.
Se fosse riuscito ad entrare, chissà cosa avrebbe fatto.
Per qualche giorno, molti, per scherzo, se lo chiesero.
Quante ipotesi! Ci fu chi disse che secondo il suo parere quel ragazzo non
avrebbe saputo che fare, e paralizzato dalla tensione se ne sarebbe andato
immediatamente, richiudendo la porta in fretta e con la coda tra le gambe.
Alcuni però gli attribuivano più coraggio, ed erano sicuri che avrebbe percorso
le strade conosciute, ma che si sarebbe fermato davanti ad un altro portone,
perché così gli sarebbe parso giusto.
Secondo i più fantasiosi, si sarebbe gettato invece in uno
dei falò che occasionalmente ardevano
nel campo al di là della porta di ferro battuto, morendo con le foglie
d’ulivo nel naso, felice di aver finalmente espletato il suo ufficio, col cuore
in pace.
Decisamente troppo fantasioso, decadentismo gratuito,
cortesia di un paio di accoliti del quartiere intenzionati a fare di quella
congettura il nuovo romanzo tragico della città intera.
Non l’avevano mai visto
in compagnia di qualcuno, era sempre stato avvistato da solo.
Buio totale su dove abitasse, anche se a molti sembrava di
ricordarsi di lui, dai tempi delle scuole elementari.
Figlio di brava gente, secondo alcuni.
Uno dei figli di papà della zona, secondo altri.
A prescindere dalla sua levatura, era manifestamente
educato, e lasciava trasudare un certo orgoglio nel portamento, una certa
regalità, una sicura fierezza.
Nessuno – similmente- aveva un’idea precisa riguardo da dove
arrivasse per portare a termine il suo ufficio quotidiano.
Quando si recava al solito luogo era palese che non stesse
venendo da casa, perché giungeva scendendo dall’alto. Era assai probabile che
la sua meta fosse il punto centrale di una passeggiata, di un itinerario
semplice e conosciuto che poteva assumere le sembianze di un pellegrinaggio
doloroso. Pareva che nei suoi occhi color cannella balenasse una quantità
sopraffacente di ricordi. Si diceva che sembrassero sgorgargli dagli occhi
mentre scendeva sempre a testa alta,abbozzando un sorriso, che al solo far
capolino emanava una serenità indescrivibile, una tranquillità pensosa, una
condizione raggiunta passando attraverso dolori difficilmente immaginabili.
Sembrava coscienzioso, navigato in un mare che aveva visto
tempeste a volontà. Ma sembrava uscito indenne. Sereno e più attaccato alla
vita, cosciente che ogni perdita è seguita da una contropartita, convinto in
fondo di trovarsi nel bel mezzo di una
transizione e di stare per vedere i propri muscoli scolpirsi e lisciarsi come
pietre di fiume.
Scendeva, e non fu mai visto esitare.
Non scendeva per piangere una morte, ma per celebrare una
vita futura, preso solo da una strisciante tristezza.
Ma è inutile dire come il lato più discusso e ambiguo
dell’intera vicenda fosse quello concernente all’ufficio che il ragazzo
svolgeva quotidianamente davanti a quella porta.
Prevedibile che ci fossero pareri contrastanti anche su
questo, ma verso novembre circolava ormai una sola versione della storia.
Stando a quella che con sana lascivia potremmo definire “versione ufficiale2 dei
fatti, il ragazzo si presentava ogni giorno recando in mano un mazzo di fiori.
Stava per qualche secondo in piedi davanti alla porta di ferro, e dopo aver
osservato con sguardo trasparente ciò che quella celava, depositava i fiori, e
mormorando qualche frase se ne andava.
Sempre mostrandosi sereno e soddisfatto.
Ma era una soddisfazione piuttosto particolare. Qualcuno la
paragonò all’espressione di leggera liberazione ravvisabile in un ragazzo che
ha assistito alla morte dell’amico malato terminale.
Ed è felice disperandosi, felice di aver finalmente visto la
fine delle sofferenze del poveretto. Tuttavia , era chiaro che nella storia del
nostro ragazzo erano implicate situazione meno ferali, e sicuramente cariche di
gioia latente.
Riguardo tutto questo, le varie versioni presentavano
numerose differenze in altrettanto numerosi lati della vicenda. Molte
innanzitutto le opinioni contrastanti per quanto riguarda la specie dei fiori
recati dal ragazzo. Solitamente chi della faccenda sapeva poco o nulla era
solito affermare che si trattava di rose, rosse per essere precisi.
Tra questi, però, ce n’erano un paio che partendo dal
preconcetto delle rose asserivano però che il loro colore fosse il bianco, o
addirittura il giallo. Dipendeva –dicevano- dal giorno della settimana.
C’era poi una moltitudine di persone, i più dei quali erano
ragazzi sui diciotto, che sosteneva fermamente che quei fiori fossero camelie.
Addirittura, dichiaravano di averne sottratta una dal mazzo
una volta che aveva seguito il ragazzo di nascosto.
Camelie – avevano detto- e di ottima qualità. Molte persone
nel quartiere iniziarono a prestare fede a quella versione così ben argomentata
e documentata, accontentandosi spesso di sottostare ad una notizia sommaria
calata loro dall’alto.
Questo finché non fecero capolino due ragazzi dell’età del
soggetto.
Lo conoscevano- dissero- e bene per giunta. Sì, certo, era
il tipo da fare cose del genere – aggiunsero- ma quanto ai fiori non potevano
in nessun modo essere camelie! In quell’assurdo circolo di informazioni, i due
ragazzi aggiunsero la versione più significativa e successivamente analizzata:
quella delle orchidee. Secondo loro quei fiori dovevano essere tassativamente
orchidee, non c’era altra possibilità, quella era l’unica ipotesi possibile.
Quell’indiscutibile postulato fu istantaneamente accolto dagli abitanti della zona- quei fiori
erano diventati a tutti gli effetti orchidee. Per qualche tempo –eravamo a
dicembre- nessuno tentò più di mettere in discussione questo lato della
questione. Ci si preoccupò invece di un altro problema di non poco conto. Se
nessuno avesse ogni giorno rimosso i fiori portati dal ragazzo, in poco tempo
davanti alla porta si sarebbe accumulata un’immensa massa floreale.
A questo proposito emersero testimonianze poco meno che
stupefacenti.
Si parlava di una ragazza sui sedici anni che ogni sera
usciva dalla porta e prendeva i fiori per portarli dentro.
Si capiva, però, che i fiori non erano per lei. Non li
annusava e quasi non li guardava. Però
sorrideva, e in fondo era probabile che si sentisse molto vicina all’autore di
quel regalo.
Sicuramente ne conosceva il destinarlo, anche se sarebbe
stato molto più razionale parlare di una destinataria.
In questo contesto si poneva un’altra domanda topica, La
Domanda Topica: perché il ragazzo faceva tutto ciò? Chiunque si pensasse
trovava che per sopportare la monotonia di una gesto tanto quotidiano , in
mezzo ai petali , alla neve e alle intemperie, servissero una determinazione senza
pari e una motivazione esterna molto importante.
A questi riguardi, le
versioni che circolavano erano realmente incalcolabili. Nei salotti
delle villette a schiera si mormorava riguardo un amore ostacolato, una ragazza
chiusa dietro quel cancello, e di un ragazzo follemente innamorato che
nascondeva nei fiori lettere d’amore e promesse di soluzioni e baci. La
versione romantica non era condivisa dalla maggior parte dei ragazzi, che
preferivano – in virtù di una vena decadente- una versione dei fatti tragica:
lui diventava un ragazzo privato della
sua defunta compagna, della sua anima gemella trovata precocemente. Girava,
ripeteva le frasi che si erano detti e le regalava in eterno i suoi fiori
preferiti, le orchidee.
Dicevano che la sua tomba si trovasse proprio dietro quel
cancello, nel parco, e che lui non avesse il coraggio per affrontare la fredda
lapide.
La voleva tenere in vita con le sue orchidee.
Riguardo l’identità della ragazza che ritirava i fiori,
c’erano forti dubbi.
Partendo dal presupposto della ragazza prigioniera o morta,
poteva esserne la sorella o la cugina, o perché no, un’amica che abitava sullo
stesso terreno.
Una versione meno accreditata sosteneva invece che fosse
proprio lei la destinataria dei fiori. Lui allora diventava il ragazzo
innamorato di questa figura sfuggente che del suo amore accettava solo i fiori.
Qualcosa cambiò.
Ogni situazione per quanto statica tende verso l’evoluzione.
Non si sa se fu la determinazione a venire meno, o qualche altro fattore
esterno ad intromettersi, ma le visite del ragazzo si fecero più rade. Era
Maggio e la primavera era priva di rondini ma gravida di profumi.
Fu allora che lo incontrai.
Non so se durante la mia corsa passai di proposito da quella
strada, ma col vento che fermava il mio sudore sul nascere, io lo vidi. Un
ragazzo piuttosto carino. Biondo.
Recava in mano un paio di orchidee selvatiche. Vestiva
abbastanza leggero, non meno elegante di come me l’avevano descritto.
Non mi sembrò sereno, ma quantomeno raggiante. Mi fermai,
dalla corsa passai ad una timida camminata. Lui si chinò e depositò i fiori.
Baciò l’aria. Fui preso dall’impulso di domandargli l’ora. Erano le sei stando
a quanto mi disse. Si accorse che stavo fissando i fiori.
Quella era l’ultima volta, mi disse. Sorrise.
Ripartii stordito.
Non fu più visto, e non se ne parlò più. Geloso com’ero
dell’incontro, non lo avevo detto a nessuno.
Me ne dimenticai, finché un tardo pomeriggio di giugno, lo
vidi nuovamente.
Era in compagnia di due ragazze. Si abbracciavano e
ridevano.
Ridevano.
Una delle due aveva un’orchidea tra le dita.
Mi riconobbe e azzardò un sorriso, dopodiché se ne andò
insieme alle amiche, esibendosi in una solenne alzata di spalle.
Mi sembrò di averne compresa la storia.
Mentre la gente tornava a casa gli odori erano spariti, ma
in cielo vigevano rondini e orchidee.