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Autore: Pepper_s    15/08/2012    0 recensioni
"Ma in quell’istante c’era solo il presente, dovevo decidere e il più in fretta possibile, il rimorso si contorceva dentro di me, era un dolore insopportabile, ma finalmente ero padrona di me stessa."
La ragazza della mia fan fiction vuole scappare dalla sua vecchia vita, vuole smettere di essere sottomessa agli altri, e sulla sua strada incapperà in 5 ragazzi che la cambieranno profondamente.
E' la mia prima fan fiction ragazzi quindi siate buoni, se avete dei consigli da darmi sono a vostra disposizione!!
Genere: Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Apro gli occhi. E’ un giorno come tanti, se non fosse che ho appena cambiato il colore delle pareti di camera mia. Adesso si che sono soddisfatta.
 Erano  ormai due anni che ero tornata a Londra, subito dopo la scuola superiore avevo deciso di partire, o meglio, scappare. Non ne potevo più della routine italiana. Volevo provare qualcosa di nuovo, delle emozioni! Non mi ero mai sentita così viva, prendere le valigie e lasciarmi il passato alle spalle era la cosa più sensata che avessi potuto fare nella mia vita. Niente preoccupazioni, mi ero ripromessa di non guardare indietro. Passata la soglia di casa non mi sarei girata, non mi sarei chiesta se quello che stavo facendo era giusto o sbagliato. Era il momento di prendere una decisione da sola, senza che nessuno mi condizionasse. Fin da quando ero piccola ero stata educata ad obbedire, proprio come i cani e mi sentivo tale. Una persona non è una persona se non può decidere per sé stessa. Mi sentivo un animale in gabbia, obbligato ad esibirsi davanti a un sacco di persone per il guadagno di qualcuno, quel qualcuno erano i miei genitori. Di due figli ero quella cresciuta con più consapevolezze, ero la più matura, dovevo sempre dimostrare di essere superiore, dovevo stare attenta, guardare al mio futuro. Ma in quell’istante c’era solo il presente, dovevo decidere e il più in fretta possibile, il rimorso si contorceva dentro di me, era un dolore insopportabile, ma finalmente ero padrona di me stessa. Avevo speso gli anni più belli della mia vita nello studio, mentre gli altri andavano a feste a bere e ad ubriacarsi, io stavo a casa a ragionare sul perché Edipo avesse questo grande complesso. Ma in quegli anni così duri e pesanti potevo contare sempre su di loro, le mie amiche. Ci conoscevamo dalle medie: la Chiara, la più bella, aveva un suo stile unico e personale che però gli altri non riuscivano a capire. I suoi capelli castani, i suoi occhi verde-nocciola e le sue lentiggini facevano si che tutti i ragazzi che conosceva cadessero ai suoi piedi; la Emmacon le sue risate strane, a volte finte, ti rendeva la giornata migliore. Capelli ricci e biondi (che lei sosteneva fossero castani, ma nessuno le credeva), occhi castani e delle gambe che facevano il baffo a qualsiasi modella in circolazione. Ma l’anima della festa, quella che bastava guardarla per capire che “la vita è bella”, era la Laura. Non era una star del cinema… ok, ma il suo viso, il suo viso era stupendo, come un raggio di sole in una giornata di pioggia. Per qualunque cosa potevo chiedere a loro, sono sempre state al mio fianco nei  momenti più bui, o imbarazzanti o stupidi della mia vita. Erano la mia ancora di salvezza, la scuola sembrava essere la mia ragione di vita, ma nemmeno a loro o mai confessato il perché traspariva questo di me. La mia situazione a casa mi metteva in condizione di dover rinunciare a tutto pur di vincere una borsa di studio. I problemi economici dei miei stavano diventando un peso, oltre alla scuola svolgevo due lavori. La cameriera in un piccolo bar appena fuori Verona, e la commessa in un supermercato nei fine settimana. Quando mi arrivò notizia che la borsa di studio non era stata finanziata ed era stato tutto uno stupido sbaglio mi sentii morire dentro. Per loro era un gioco, ma era con la mia vita che stavano scherzando e non avrei permesso a nessuno di mettermi i piedi in testa. E fu così che presi quella decisione:scappare. Mi sembrava quella più logica e anche in quel momento avevo ragione.
Passata la soglia di casa, avevo imboccato la strada del non ritorno. Presi un taxi per arrivare fino in aeroporto, mi pagai il biglietto con le mance che mia nonna mi dava ogni tanto la domenica e con alcuni risparmi fruttati dal lavoro, gli altri li avevo lasciati sul tavolo della cucina a disposizione di chi ne aveva più bisogno di me, la mia famiglia. Pagai il biglietto e aspettai fino a che la voce dell’altoparlante non chiamò il mio volo. Presi la mia borsa e mi diressi all’imbarco. Sull’aereo cercai di non pensare a quello che avevo lasciato a Verona, cercai anche di non pensare che in tasca non avevo un soldo, ma solo una gomma e qualche scontrino dell’ultima colazione fatta in pasticceria con le mie amiche. Allora presi il mio i-pod e attaccai la musica, niente di meglio per liberare la mente e far correre la fantasia.  
La hostess con fare stizzito mi svegliò, forse la mia capatina nel mondo delle meraviglie era durata un po’ troppo! Mi scusai e poi ,imbarazzata, scivolai via verso l’uscita. Anche quella volta avrei potuto sprofondare. Mi sentivo spaesata in quell’immenso aeroporto, sembrava una città. Per fortuna il liceo linguistico era servito a qualcosa, chiesi alcune informazioni e poi chiamai un taxi per farmi portare nell’unico posto nella quale mi sarei potuta sentire al sicuro. Ma prima chiesi al conducente di portarmi sulle rive del Tamigi, mi sarei sbarazzata dell’unica cosa che mi ricordava da dove ero venuta, chi ero, e soprattutto chi avevo lasciato dietro di me. Così presi la rincorsa e con un lancio da vera giocatrice di baseball feci fare un volo al mio vecchio cellulare. Ripresa la corsa il taxista mi portò nella mia “bolla d’aria”, a casa della mia migliore amica Marian. Bussai piangendo e mi aprì lei, felice di vedermi ma turbata dal fatto che piangessi e con una voce da mamma mi disse: - Sarò sempre al tuo fianco-.
Mi svegliai la mattina dopo accoccolata sul divano a fianco a lei, credevo fosse stato tutto un sogno, ma questa era la dura realtà. Di fianco a me c’era lei, l’unica persona a cui potevo fare affidamento, l’unica che mi capiva, che sapeva come prendermi. Mi aveva ascoltata. Con il suo braccio mi teneva stretta a se, come in una morsa, ma in una morsa piacevole. Quante volte era già successo che ci svegliavamo alla mattina l’una di fianco all’altra, perché eravamo stanche e non riuscivamo ad alzarci per tornare in camera. Ma quella volta fu diverso.  Sarei voluta rimanere sul quel divano per ancora qualche minuto, ma il mio bisogno di fumare era logorante. Così, cercando di non svegliare nessuno, aprii la finestra e dato che era al primo piano mi buttai di sotto. Presi una storta alla caviglia, ma il male che sentivo dentro era peggiore di quello che sentivo fuori, mi rialzai, presi l’accendino che mi era caduto dalla tasca e mi accesi una sigaretta. Mentre fumavo mi guardai attorno. Era un posto bellissimo, tremendamente diverso da quello a cui ero abituata io. Erano tutte casette unifamiliari, ognuna con un grande giardino. Era estate ma a Londra la mattina c’era umido, e poi io sono sempre stata una ragazza abbastanza freddolosa. Non avevo mai sentito così tanto silenzio in vita mia, certo in giro c’era qualche persona con il cane e gente che correva ma erano ben pochi. Sentii chiamare: - Letty, Letty.. Vieni dentro che ti ammali!!- Mi girai di colpo, era la Marian. In quel momento la vidi meglio, la sera prima ero così frastornata dai miei pensieri che non mi ero accorta di come fosse cambiata in tutti quegli anni in cui non ci eravamo viste e dato che ci sentavamo solo per telefono l’impatto fu ancora più forte. Era diventata una donna anche se ci eravamo ripromesse che lo saremmo diventate insieme. La nostra amicizia era basata su telefonate mensili che duravano circa un’ora, ma eravamo comunque rimaste ottime, per non dire migliori amiche. Mi passò davanti lanostra storia. Noi due che ci trovammo il primo giorno alla materna, il grest, la scuola elementare e lei che era dovuta trasferire per problemi economici quando eravamo in quarta, dopo anni che eravamo sempre state insieme. Io per la sua partenza non versai neanche una lacrima, non potevo. Mi dovevo mostrare forte, dovevo farcela, per noi due. Ma solo io so quanti pianti mi sono fatta dopo che era partita e quante volte ho sentito la mancanza di un abbraccio o di un semplice “ti voglio bene” detto col cuore. I suoi capelli neri le coprivano il volto, si era appena svegliata, era normale. Rientrai dopo aver spento la cicca. Non disse niente, mi abbracciò solo. Ero contenta che lei non mi avesse chiesto nulla di quello che era successo, perché a dire il vero non avrei saputo come spiegarglielo. Ma dopo la colazione era arrivato il momento della verità. Avrei dovuto sputare il rospo prima o poi.
-Cosaaa?- mi fece lei. –Ma come ti è venuto in mente di scappare? E poi, perché l’hai fatto? Sei impazzita!- 
Io le feci il favore di rimanere in silenzio, sapevo che se avessi detto anche una sola parola sarebbe risultato inutile. Quella fu l’unica volta in cui non era d’accordo con me. Per lei l’avevo combinata grossa. In quel momento mi sembrò di sentir  parlare mia madre. Così la fermai:
 – Tu non hai capito! L’ho fatto perché non ne potevo più, sono stufa di dover sempre fare quello che mi dicono gli altri. E non sono venuta qui per farmi sgridare, se no sarei rimasta benissimo a casa dei miei genitori!-                                 
Marian si zittì. Non aveva il coraggio di rispondere, sfruttai quell’occasione per spiegarle tutto quello che era successo.
In qualche modo avrei dovuto trovarmi un lavoro e una casa. Per il momento i genitori della Marian accettarono di ospitarmi nella camera vuota destinata a suo fratello che era però dovuto volare a New York. Mi balenò un pensiero in testa: magari fossi stata io su quell’aereo diretto a New York! Era sempre stato il mio sogno, ma dentro di me sapevo che non ci sarei mai arrivata. Decidemmo quindi di prepararci per andare a cercare un lavoro. Prendemmo l’underground fino alla city, per poi girare per le vie di Londra. Lei mi spiegò che adesso lavorava presso una società di PR nel campo sportivo. Il suo sogno era quello di fare la tennista ma la sfortuna le aveva giocato un brutto tiro, infatti qualche anno prima si era infortunata e non poté più giocare. Ma lo sport era rimasto la sua passione, così quando raccontò a Mr.Groove, il suo capo,che cosa le era successo la prese subito. Era ancora una società piccola ma io confidavo in lei. Fui sorpresa di vedere quant’era disinvolta nella veste di mia mentore. Chiedemmo in numerosi negozi, ristoranti e locande. Dopo una giornata spesa a girovagare per la città ci riposammo in un piccolo pub di fianco all’azienda in cui lavorava.
-Sei una ragazza molto coraggiosa- mi ripeteva – io non ce l’avrei fatta. In questi momenti riesco a ricordare perché sono tua amica, ho sempre avuto stima nei tuoi confronti, e mai come prima, in questo momento. Mi sei mancata in questi anni lo sai?- io annuì, le sue parole mi stavano commuovendo, ma non volevo darlo a vedere così non dissi niente e lascia che lei parlasse per me. – Mi dispiace, non potevo immaginare quello che stavi passando, anche perché sei sempre stata cosi introversa, non riesco mai a capire cosa ti prende.-  mi scappò da ridere – No, veramente! Credimi, sei una persona indecifrabile!- A quel punto dovevo dirle qualcosa. – Mi sei mancata, in tutti questi anni non ho fatto altro che pensare a te; ai nostri momenti passati insieme, alle nostre cavolate.. Non ho fatto altro che ignorare tutto e tutti, mi sono passati davanti gli anni più belli della mia vita ed io non me ne sono resa neanche conto.- scoppiai in lacrime- Non posso credere di aver ubbidito a quelle persone per tutto questo tempo. Non hanno fatto altro che usarmi!- lei mi fermò –Io non la vedo proprio in quest’ottica-
-In che senso?- le chiesi. –Nel senso che magari i tuoi genitori volevano che tu avessi aspirazioni di vita diverse rispetto a tuo fratello, non credo sia appagante per lui pulire i bagni del supermercato di fianco casa tua! Tu non sei così, tu non vuoi trascorrere la tua vita in un monolocale puzzolente in un quartiere malfamato. Io ti conosco bene Mary, fin da quando eri piccola volevi abitare in una villa, sposare un ricco miliardario, andare alle feste più in del mondo… tutto questo ha un prezzo! Non puoi sempre sperare che ti cada tutto dal cielo!- In quelle parole c’era un fondo di verità. Avevo sognato una vita che non mi apparteneva. Forse avevano ragione i miei a farmi studiare. Solo che in quel momento ero troppo arrabbiata per capirlo. Così feci finta di appoggiarla. Pagò il conto e tornammo a cercare un posto di lavoro.

 

  
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