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Autore: mina_s    01/03/2007    9 recensioni
[GazettE]"Sono un tipo strano, vero? Cerco di sembrare linguacciuto, di fare il cretino, di far credere che io non conosca la vergogna... E poi ho paura di rivelare quello che nessuno, mai, dovrebbe tenere nascosto. Se io non fossi così, quella notte io e Kouyou non avremmo litigato. E se noi non avessimo litigato, quella notte al mio amore non sarebbe successo niente..."(FANFICTION CONCLUSA)
Genere: Generale, Romantico, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Aoi, Uruha
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Note dell’autrice: -Non vado matta per le fanfiction su celebrità e questa è la prima che scrivo, quindi per favore siate clementi con le recensioni(mi raccomando, lasciatele, ne ho bisogno) e se fate delle critiche vedete che siano costruttive, per favore.

-Dal momento che nella mia storia tratto argomenti privati/personali, ho deciso di usare i veri nomi dei membri del gruppo:Yuu Shiroyama(Aoi), Kouyou Takashima(Uruha), Akira Suzuki(Reita), Takanori Matsumoto(Ruki), Yutaka Uke(Kai).

Disclaimer: Questa è una storia di pura invenzione con cui non intendo offendere nessuno e da cui non ho intenzione di trarre alcun profitto. I personaggi sono persone reali, che però io non conosco e che probabilmente non conoscerò mai, e di cui comunque so relativamente poco: non intendo quindi spargere false informazioni su di loro.

 

Path to joy

Capitolo I

Non mi interessa perché lo ha fatto, o come voleva che le centinaia di persone che ci osservavano interpretassero il suo gesto: fanservice o non, non doveva farlo.

Lo guardo mordendomi un’unghia, osservandolo mentre ride e beve il suo adorato vino, visibilmente soddisfatto-anche questa volta- di com’è andato il concerto, aspettando con ansia il momento giusto per scatenare il mio rancore su di lui senza pietà.

Quando finalmente gli altri tre escono fuori per fumarsi una sigaretta, troppo sfiniti e troppo distratti per accorgersi del mio broncio, lo afferro per un polso e lo trascino in bagno- in bagno? Perché lì?-, senza troppo fatica, visto che lui si lascia portare da me, tenendo ancora un bicchiere di plastica nella mano.

Ho visto il sorrisino che mi ha fatto quando mi sono avvicinato e l’ho preso per il polso. Chissà cosa crede che io abbia intenzione di fare… Non ne ha la più pallida idea.

Lo sbatto sul muro e chiudo la porta. Lui hai ancora quell’espressione divertita.

“Yuu-chan, non ora… Non vedi che sono sfinito…” borbotta. Forse è già mezzo ubriaco. “Possiamo rimandare a domani?” mi chiede, facendomi gli occhi da cerbiatto.

In questo momento mi fa pena.

Faccio un passo verso di lui e avvicino il mio viso al suo, i miei occhi fissi sui suoi. Devo sembrare davvero un cane incazzato, visto che quella piccola luce nei suoi occhi dal colore del cioccolato ultrafondente si spegne all’improvviso e lui inarca le sopracciglia.

“Perché lo hai fatto?” gli chiedo, quasi sibilando.

“Eh?” fa lui, come un perfetto imbecille.

Sento di non poterlo sopportare in questo momento. Davvero non ne posso più di lui. Probabilmente domani mi pentirò di aver pensato queste cose sull’uomo che amo, ma io sono così: un po’ manesco a volte, uno che dice le cose in faccia-anche se dopo se ne pente- e che deve dire sempre e per forza la sua; se non ti sta bene, tante grazie e arrivederci.

E ora non ne posso proprio di spendere un’ora per fargli capire a che cosa alludo.

“Il bacio, Kouyou!” dico, con voce alterata per il nervoso. “Quello che mi hai dato circa un’ora fa sul palco, dopo l’assolo, davanti a cinquemila persone!”

“Ah, già…” dice lui, ridendo. Cosa ci trova di tanto divertente in tutto questo, devo ancora capirlo. “Che cosa c’era che non andava? Troppo breve? Troppo poco… intenso?”allunga la mano verso la mia guancia, pronunciando l’ultima parola come se avesse detto qualcosa di ridicolo. Io la scanso in malo modo.

“Ma allora proprio non capisci!”

“Ma se non ti sai spiegare, bimbo…!” Cristo, giuro che lo prendo a schiaffi.

Faccio un respiro profondo, passandomi una mano fra i capelli, neri e lucidi per il sudore, chiudo gli occhi e cerco di pensare a qualcosa di buono che mi preparerò domani mattina per colazione. La maggior parte della gente preferisce contare fino a dieci in situazioni del genere. Contenti loro.

“Kouyou.” inizio a spiegare, moderando le parole, il tono e la velocità con cui parlo, forse più per calmare me che per rendere la comprensione più facile al biondino che ho di fronte. “Ti ho detto cinquanta, cento, mille volte che questo genere di… effusioni… a me non piace. Non in pubblico. Non sul palco, davanti a tutte quelle persone.”

Lui non sembra neanche fare caso a quello che sto dicendo: troppo impegnato a osservare la complicatissima struttura del bicchiere-vuoto-, troppo impegnato a controllare se è rimasta ancora una goccia dell’amore della sua vita sul fondo da leccare.

“E’ una cosa chiamata ‘fanservice’, sai, Yuu-chan.” replica. Ha l’aria davvero annebbiata. “E’ una cosa che le band tendono a fare, e che i fans di solito adorano. Hai sentito quanto hanno urlato prima?”

Sì che ho sentito, e non voglio sapere che cosa esattamente volevano comunicare. Probabilmente che vogliono appendermi per i piedi al soffitto e giocare alla pentolaccia con la mia testa, o qualcosa del genere. Forse per gelosia, forse per altro.

E anche se così non fosse, io mi sono sentito dannatamente in imbarazzo.

“Non mi interessa!”replico, quasi gridando, e a lui cade il bicchiere di mano per lo spavento. E’ come se avessi di colpo illuminato con dei fanali la nebbia che gli otturava il cervello. “Si capiva benissimo che non era un fanservice! Sei stato troppo…realistico… Mi sono sentito a disagio, Cristo!”

Gli occhi di Kouyou si riducono a due fessure. “Sai, Yuu-chan, se non ti fossi allontanato da me così velocemente e non mi avessi evitato per il resto del concerto, forse sarebbe stato tutto più verosimile a un fanservice, tesoro.”

Ecco, adesso inizia a fare il sarcastico. Ci mancava anche questo.

“Fanservice o non,” dico, mettendomi una mano sulla fronte”hai davvero esagerato. Lo sai che io sono timido, in questo ambito almeno…”

Per qualche attimo regna il silenzio. Mi sento i suoi occhi addosso, e non ho coraggio di contraccambiare.

“Insomma…” cerco di trovare qualcosa di intelligente da dire. “Guarda Akira a Takanori… Nemmeno loro-”

Loro sono Akira e Takanori, e possono fare quello che preferiscono.” mi interrompe lui, con un tono stranamente pacato. “Noi siamo Yuu e Kouyou.”

Mi prende delicatamente il mento tra le dita e lo alza, obbligandomi a guardarlo. Ha un debole sorriso dipinto su quelle magnifiche labbra.

“Non possiamo nasconderci per sempre, Yuu-chan.” così dicendo, inizia ad accarezzarmi la guancia, e io cerco di discostarmi, ma non riesco a resistere al suo tocco, è più forte di me. “Io non voglio nascondermi per sempre.” aggiunge, ora appoggiando gli avambracci sulle mie spalle, mentre io rimango con le braccia incrociate al petto. Inizia ad avvicinare le sue labbra alle mie…

“Tu pensa per te.” dico queste parole ancora prima di pensarle.

Kouyou rimane immobile per un attimo, la testa ancora inclinata di lato, mentre le mie guance avvampano e io mi rendo conto dell’ennesima cretinata che ho fatto.

“Eh no, Yuu-chan, così non va.” mi dice lui, sospirando, levando le braccia dalle mie spalle. “O prendiamo delle decisioni insieme, o-”

“Io la mia decisione l’ho già presa.” lo interrompo, gelidamente.

“Ah, sì?” posso quasi sentire l’ira che gli ribolle nella voce.

“Sì, Kouyou!” grido io, facendo cadere le braccia lungo i fianchi e stringendo i pugni, vomitando parole di cui domani-lo so- me ne pentirò. “E ho deciso che non voglio passare la mia vita facendomi chiamare ‘finocchio’ o leggendo giornali con le foto di noi due che ci teniamo per mano!”

Lui mi guarda come se mi volesse disintegrare con gli occhi. “Allora è questo l’Aoi che tutti credono così libero e sfacciato?” mi chiede, facendo uno sforzo enorme per controllare la sua voce. “Un uomo che non ha il coraggio di intrattenere una relazione con la persona che ama per paura che qualcuno faccia sapere alla nazione intera che è un finocchio?”

Qualcosa si muove nell’aria, e dopo due secondi vedo Kouyou con la schiena al muro, appoggiato sui talloni, che si tiene il naso mentre fra le sue dita sottili scorre del liquido purpureo.

Gli ho dato un pugno. Dio mio, gli ho dato un pugno, facendogli sbattere la testa al muro e facendogli sanguinare il naso.

Ma cosa mi succede?

Il mio corpo non ubbidisce al mio cervello, e così rimango con i talloni piantati a terra, osservando incredulo cos’ho provocato.

Dopo qualche istante lui alza la testa. Osserva il sangue tra le sue dita, per poi volgere gli occhi a me.

Nel vederli mi si drizzano i peli sulla nuca. Adesso mi uccide, penso.

E invece tutto quello che fa è alzarsi, aprire la porta di scatto, far sussultare gli altri tre componenti del gruppo che le si erano appartati addosso, e scomparire nel corridoio.

Dopo un istante il mio corpo inizia finalmente a reagire e io gli vado dietro, non prestando attenzione ai miei tre amici che mi seguono con lo sguardo.

Kouyou cammina a passo svelto, deciso, picchiando il pavimento con i tacchi degli stivali, e io dopo una breve corsa riesco a raggiungerlo e a recuperare il mio coraggio.

“Kouyou…”lo prendo per un braccio. Lui si libera facilmente con uno strattone.

Ci riprovo. “Lasciami.” aggiunge questa volta.

Non ci provo più. Ma qualcosa devo fare prima che se ne vada. Perché è questo che vuole fare, lo so: pigliare la chitarra e andarsene a piedi verso casa, da solo e al buio, in un quartiere dove di sera la polizia non passa.

Mette velocemente la sua chitarra nella custodia, per poi caricarsela sulla spalla. Ancora non mi degna di uno sguardo.

Questa volta lo prendo per le spalle; lui tenta di scrollarmi di dosso, ma io non glielo lascio fare. E ancora i suoi occhi osservano un punto oltre la mia testa.

“Kouyou, aspetta…”

Sento la sua mano spingere sul mio petto, e poi la mia testa sbattere sul freddo muro della stanza.

Mi fa male. Mi mordo il labbro inferiore, soffocando un gemito di dolore e di rabbia in gola.

Alzo gli occhi verso di lui, che è in piedi, di fronte a me. Beh, si è preso una soddisfazione, ci scommetto.

Quello sguardo mi fa venire di nuovo i brividi. Kouyou è davvero l’unica persona a parte mio padre a potermi spaventare.

Si pulisce il naso sanguinante con il dorso della mano, ansimando.

“Non voglio stare con una persona che si vergogna di me.”

Le sue parole riecheggiano nella mia testa per diversi secondi, facendola girare, costringendomi a chiudere gli occhi.

Quando li riapro, lui non c’è più.

La porta dell’uscita di emergenza è aperta.

Esco in strada, volto la mia testa prima a destra, poi a sinistra, e lo vedo in fondo alla strada, cha cammina con lo stesso passo di prima, insensibile al freddo e allo scooter che quasi lo investe quando attraversa la strada.

“Kouyou! Dannazione torna indietro! Dove diavolo credi di andare?”gli grido, e lui niente. Eppure mi ha sentito, lo so. “KOUYOU!”

Nessuna reazione. Dopo qualche metro, vedo solo un puntino giallo-la sua testa bionda- in lontananza, e dopo qualche metro ancora, niente. Fa troppo buio.

Imprecando, faccio volare una lattina vuota di birra con un calcio, e rientro nell’edificio.

“Vai al diavolo, Kouyou. Al diavolo te e tutto il resto.”

Alzo lo sguardo e vedo venirmi incontro la piccola figura di Takanori. Pochi istanti dopo mi si ferma davanti, ma non mi va di parlargli. Non mi va proprio di parlare con nessuno.

“Mi dispiace per prima…” inizia, con una vocina debole debole. “Non volevamo disturbarvi…”

Io faccio un cenno col capo. “Tranquillo.”

Takanori tiene le mani nelle tasche posteriori dei pantaloni, e mi guarda mordendosi il labbro inferiore. E’ imbarazzato, e si vede. Sembra un bambino che chiede scusa per aver rotto una finestra col pallone.

“Co-come va?”

Sta scherzando, vero?

“Abbiamo… Abbiamo litigato.” Mi guardo intorno, sentendo improvvisamente bisogno di una sigaretta. Mi dirigo verso i camerini con il mio amico alle calcagna.

“Beh, questo l’abbiamo sentito tutti…”

Gli altri tre sono seduti e ognuno con una birra in mano. Abbassano lo sguardo velocemente quando mi vedono; probabilmente credono di avermi fatto chissà quale torto, quando a me in realtà non me ne importa un bel niente se stavano origliando… Non in questo momento.

Nessuno dice niente.

Io cerco un pacchetto di sigarette, e trovo solo le Malboro Menthol Light di Kouyou accanto a uno specchio. Ne prendo una con mani tremanti, cercando di non pensare troppo all’uomo a cui appartengono.

Mentre la nicotina comincia a fare il suo effetto, Takanori finalmente dice qualcosa.

“Non sei obbligato a parlarne, se non vuoi.” E’ appoggiato allo stipite della porta. Akira si alza e gli si mette di fianco.

Io scuoto la testa. Certo che non ho voglia di parlarne. Certo che vorrei semplicemente andare a casa, farmi una doccia, mettermi a dormire, svegliarmi e trovarmi il mio Kouyou accanto che mi dice che è stato solo uno stupido incubo.

Ma non è così. E tanto vale allora parlarne.

Deglutisco. “Perché devo essere sempre il solito idiota?” dico, sedendomi pesantemente su una sedia e mettendomi a guardare il soffitto, perdendomi nel bianco di cui è dipinto. “Perché devo sempre rovinare tutto, specialmente quando stiamo bene?” quasi non mi accorgo di quanto suona disperata la mia voce.

Dopo qualche istante di esitazione, Yutaka mi arriva da dietro, e mi mette una mano sulla spalla.

“Dopo un concerto siamo tutti, sempre snervati, Yuu-chan. E’ normale dire e fare cose che normalmente non si farebbero.”

Caro, piccolo Yutaka-chan, sempre pronto ad aiutare chiunque. Quanto vorrei avere la tua pazienza.

“Hai esagerato, prima. Specialmente quel pugno… Non se lo meritiva.”

Quello non ero io. Non lo farei mai…

“Dovresti trovare un momento adatto, Yuu-chan: per scusarti e parlargli. Lui ti ascolterà, e ti perdonerà.”

Anche se non lo vedo, scommetto che Yutaka sta sorridendo. Ma come fa sempre a essere così ottimista?

“Come fai a esserne sicuro?” Dio, quanto mi sento spossato. Se ne accorgerebbe perfino la nonna di Akira, mezza sorda e mezza cieca.

Yutaka avvicina la bocca al mio orecchio, stringendo la sua presa sulla mia spalla. “Perché ti ama.” Sussurra.

All’improvviso qualcosa in me cambia. E’ come se un uccellino si fosse messo a cantare nel mio cuore.

Mi ama… E io amo lui. Questo basterà per risolvere tutto, ne sono matematicamente sicuro.

“Scusate, ma…” Questa volta è Akira a parlare. Si affaccia sul corridoio; probabilmente riesce a vedere la porta d’uscita ancora aperta. “Kouyou-chan dov’è?”

“Se n’è andato.” rispondo semplicemente io, prendendo un’altra boccata.

Sentendo che nessuno dei tre accenna a respirare, li guardo. Hanno inarcato tutti le sopracciglia, guardandomi come se avessi fatto qualcosa che davvero non avrei dovuto fare. E non hanno coraggio di rimproverarmi.

“Ma, Yuu-chan…” Akira mi guarda incredulo dalla porta. Forse si aspetta che io finisca la frase per lui, visto che per qualche istante non fiata. “E’ tardi, è buio, e fa anche freddo…”

E mi osservano di nuovo, accigliati più che mai, probabilmente della mia ingeniutà… e della mia stupidità. Hanno tutte le ragioni del mondo.

“Ma vai a prenderlo, no?” mi dice Yutaka, senza più quel sorriso sulle labbra.

“A prenderlo…” recupero velocemente le mie cose in giro, smarrito, borbottando parole insensate come un drogato. “Sì, sì, certo… A prenderlo…”

Con la mia chitarra in spalla e la mia giacca in mano, per una buona mezz’ora cerco nei dintorni dell’edificio, chiamando il mio uomo per nome.

Adesso capisco perché gli altri mi hanno guardato in quella maniera quando ho detto loro che avevo lasciato Kouyou andarsene.

“Kouyou!”

Fa freddo, dannazione. Ed è tardi. E per strada ora non c’è nessuno.

“Kouyou!”

Nemmeno i soliti ragazzini deficienti in motorino. Nemmeno un’auto della polizia. Quelli che hanno assistito al concerto se ne saranno ormai andati.

“Kouyou…”

Però qualcuno potrebbe esserci. Qualcuno poco di buono, se si aggira per queste strade a quest’ora.

“Kouyou!”

Qualcuno che potrebbe fare del male alla persona che amo.

“KOUYOU!”

Lo chiamo per l’ultima volta, e sento la mia voce rieccheggiare fra le strade.

Mi sto facendo prendere dal panico.

Tento di ragionare. Kouyou sicuramente si sarà diretto verso casa. Ma a piedi è un bel tratto… Che abbia preso un taxi? Se sì, allora probabilmente sarà già arrivato. Potrei prenderne uno anch’io, e andare direttamente da lui…

Se il mio ragionamento è corretto, allora fra un’ora e mezza o giù di lì saremo distesi sul divano, abbracciati sotto una trapunta, a guardare programmi idioti alla televisione.

Sorrido per la prima volta dopo diverse ore. E’ strano da parte mia rimanere serio e preoccupato così a lungo.

Sento che andrà tutto bene. Non provo più stanchezza né rabbia. Voglio solo rivedere il mio Kouyou… Non posso aspettare. Voglio parlargli subito, visto che sono in vena, e questa volta non lo lascerò scappare. E’ questo il momento giusto di cui parlava Uke, ne sono sicuro…

Metto una mano nella tasca posteriore dei jeans, e mi accorgo di avere ancora il suo pacchetto di sigarette. Tanto meglio: forse gli sarà più facile perdonarmi, dopo che gliele avrò riportate. Rido, pensandoci.

* * *

Apro gli occhi sussultando.

Mi ha svegliato qualcosa di molto rumoroso e molto, molto fastidioso, che non è la sveglia: una piccola luce blu proveniente dal comodino illumina la mia stanza, grigia e buia.

Troppo assonnato e pigro per controllare che ore sono e vedere chi è quel deficiente che mi sta chiamando, prendo istintivamente il cellulare e premo un tasto a caso.

“Moshi moshi?”

“Yuu-chan, ti ho svegliato?”

E’ Yutaka.

Non posso non notare però, sebbene sia stato svegliato nel -secondo me- peggiore dei modi, che c’è qualcosa di insolito nella sua voce, una nota stonata.

“Non importa.” E’ la più grossa bugia che sia mai risuonata tra le pareti della mia stanza, se la memoria non mi inganna. “Ma non avevamo la giornata libera oggi?” chiedo, strofinandomi stancamente gli occhi.

“Non si tratta di lavoro.” Ora Yutaka sembra quasi disperato.

Un allarme interno comincia a suonare nel mio cervello, ma Yutaka mi precede.

“Yuu-chan, devi venire in ospedale.”

“Cos’è successo?” Mi alzo a sedere sul letto, mentre quell’allarme accelera ritmo, diventando più forte, più inquietante.

Yutaka sospira, sospira per non disperare del tutto, lo si capisce perfino al telefono. “Si tratta di Kouyou.”

No, no, No. Dimmi che non è vero.

Tutte le domande che vorrei fare salgono alla gola e lì si fermano, bloccate in unico, grande boccone, troppo amaro da buttare sia giù che fuori.

Silenzio. Sento solo un suono roco, provocato dal sospiro di Yutaka contro l’altoparlante.

“Non posso spiegarti al telefono, Yuu-chan.” Sembra sull’orlo del pianto. “Ti prego, vieni subito.”

Deglutisco. “H-hai.”

Lascio cadere il cellulare sulle lenzuola.

Per circa un minuto resto fermo nella stessa posizione, i miei occhi fissi sulla maniglia della porta, le mie mani che stringono convulsamente le lenzuola, e l’unico suono che si sente è il battito del mio cuore. Mi sembra che si possa udire in tutto l’appartamento.

Sono incapace di muovermi, incapace perfino di pensare.

Nella mia mente rimbombano le parole di Yutaka: ‘Kouyou… In ospedale… Vieni subito…’

Non riesco a dimenticare la sua voce, che sembrava quella di un bambino, un bambino sperduto in mezzo alla folla che cerca disperatamente la sua mamma.

Chiudo gli occhi, mordendomi il labbro inferiore, rendendomi finalmente conto.

Il mio Kouyou è in ospedale. Per colpa mia.

E’ in ospedale perché ieri l’ho aggredito senza un motivo, perché mi era più facile sfogarmi su di lui che su chiunque altro, perché ho lasciato che se ne andasse da solo, di notte, al buio, al freddo, come un agnello che si avventura da solo in un bosco popolato da lupi e orsi.

Capisco perché ieri notte nessuno mi ha risposto quando ho citofonato, e perché non l’ho visto arrivare neanche dopo un’ora che avevo aspettato sugli scalini del suo condominio.

Ma come diavolo ho fatto a non allarmarmi? Come mai non mi è venuto in mente che potesse essergli successo qualcosa?

Perché sono sempre lo stesso, dannato idiota, e sempre lo stesso odioso egoista.

E adesso il mio Kouyou è in ospedale.

Dio mio, che gli sarà successo?

Finalmente esco dalla mia ipnosi, e prima di rendermene conto la mia moto sta sfrecciando per le strade in direzione dell’ospedale, fendendo la sottile nebbia mattutina, rischiando di venire investita da diversi camion e di sbattere sul retro di una macchina ferma al semaforo. Gli altri suonano il clacson e mi mandano al diavolo, ma io sono sordo al mondo.

L’unica cosa a cui riesco a pensare è Kouyou, disteso su un letto d’ospedale, e non riesco -non voglio- nemmeno immaginare per quale motivo: la mia fantasia potrebbe andare troppo oltre.

Nel frattempo quelle parole mi rimbombano ancora in testa, come un martello assordante su una parete, un suono di cui non mi posso liberare e che non posso far finta di non sentire, sebbene ci provi con tutta la mia forza.

E’ colpa mia, è colpa mia, è tutta colpa mia.

To be continued…

 

  
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