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Autore: White Gundam    18/08/2012    3 recensioni
Zac.
E cade un altro pupazzo.
Zac, zac.
E cade un'altra testa.
Zac, zac, zac.
Quando potrà fermarsi quest'incessante respiro?
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Vincent Nightray
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Zac, zac, zac
 


Zac.
E cade un altro pupazzo.
Zac, zac.
E cade un'altra testa.
Zac, zac, zac.
Quando potrà fermarsi quest'incessante respiro?

Respirare è facile. Si apre la bocca, si allargano i polmoni, si inala l'ossigeno e si espira l'anidride carbonica.
Nessuno ti insegna a respirare, è una cosa automatica, si chiama istinto vitale. Perché gli esseri umani nascono con questo stupido istinto?
Quando nasci non sai niente. Nessuno ti ha ancora spiegato che quell'occhio rosso è una maledizione. Nessuno ti ha ancora insegnato che la tua stessa esistenza può essere una dannazione per chi ami.
Quando nasci senti solo delle braccia che ti stringono. E fuori è freddo, e quelle braccia ti riscaldano. Solitamente sono le braccia di tua madre.
Ma la mamma stava gridando. Emetteva strani suoni che all'epoca non sapevo riconoscere. Avrei impiegato qualche anno per capire quell'orrenda parola. Interi e lunghi mesi della mia esistenza per conoscere quel terribile colore.
Eppure c'erano delle braccia a scaldarmi, a proteggermi da quel freddo, da quei suoni, da quella luce. Erano braccia corte, dalle manine piccole, erano braccia di bambino.
Quando nasci non sai niente. E quel tocco ti rassicura, e chiudi gli occhi per la luce accecante, e respiri. Sì, respiri.
Nessuno ti ha ancora detto che non dovresti farlo, nessuno ti ha spiegato che basterebbe calare il tuo piccolo viso tra quelle braccia, facendovi aderire bene il naso e la bocca, per fermare quel respiro; perché quelle piccole, dolci braccia ti cullino verso la morte, verso la fine dell'esistenza, verso il termine di ogni male. E tu, ancora incosciente, ancora inconsapevole, respiri.
La mamma poteva farlo. Aveva gridato. Aveva detto quell'orrida parola. Che non gli piacevo era già chiaro, era già ovvio. Ma perché non l'ha fatto? Perché quelle piccole braccia dovevano soffrire anch'esse?

Zac.
La forbice si pianta nella stoffa.
Zac, zac.

La lama trafigge la carne.
Zac, zac, zac.

Ometti ancora dal mio nome quelle due inutili lettere.

N... T... Che lettere inutili. Non mi piacciono quelle due lettere vicine, non hanno mai significato nulla. N e t, due consonanti vicine sono troppo difficili da pronunciare per un bambino.
“Vince...”
Non gli riusciva di pronunciare le ultime lettere del mio nome, mentre mi stringeva tra quelle sue braccia. Non importa: Vincent mi ha chiamato la mamma, e la mamma non aveva il diritto di darmi un nome. Non doveva sforzarsi a dire quelle due ultime lettere, non sono mai servite; non mi piacciono nemmeno.
“Vince...”
Quella voce aveva cullato i miei primi sogni, con quel tono dolce ed impastato, quel tono di bambino.
La mamma sapeva dire il mio nome completo, ma non lo diceva mai. La mamma sapeva pronunciare quelle due consonanti vicine, ma preferiva usare un altro modo per rivolgersi a me, un nome molto più lungo.
“Bambino della sfortuna” diceva, e sembrava il mio nome di battesimo. Ma c'erano anche dei soprannomi: “Disgrazia”, “Sciagura” e così via...

Quando nasci non sai niente. Non riconosci nemmeno quei suoni, quelle parole. Non sai quanto male può fare la persona che ti ha messo al mondo né sai il male che potrai fare tu.
“Vince!”
Quella voce irata che minava quel tono infantile mi aveva protetto, mi aveva fatto sentire in colpa.
“Vince...”
Quel tono mesto e grave, quella voce di uomo, mi ha fatto giungere alla mia conclusione.
Perché la mamma non mi ha ucciso? Poteva farlo. Non potevo capire, ma non le piacevo. Perché invece abbandonarci, donando solo tristezza a quella candida voce di bambino?


Zac.
La forbice recide il soffice cotone.
Zac, zac.
La lama si bagna nella tenera carne.
Zac, zac, zac.
Il rosso è disgrazia, l'oro è miracolo.
 

Gli occhi sono lo specchio dell'anima. E' una frase risaputa, chiunque l'ha sentita pronunciare.
Il rosso non è un bel colore. “Rosso” è un'orribile parola.
Odio il rosso.

Cremisi è il sangue che gocciolava dalle sue ferite mentre si frapponeva tra me e il lancio delle pietre. Scarlatto è l'odio che macchiava il suo sguardo quando pronunciavano il nome che usava la mamma per rivolgersi a me. Rosso è il colore della passione sfrenata di chi, dopo averlo fatto con il mio, ha abusato anche del suo corpo.
Cremisi, scarlatto, rosso... Tre parole per intenderne una soltanto.

Quando nasci non sai niente. Non ti hanno ancora insegnato che la paura porta l'uomo a cercare di rassicurarsi suddividendola, sezionandola nelle sue diverse sfumature. Non ti hanno ancora spiegato che, se si usano tre parole per intenderne una sola, è perché quel concetto è in sé terribile.

L'oro è un bel colore. “Oro” è una bellissima parola, quando non intesa per il vile metallo.
Amo l'oro.
D'oro erano quegli occhi che mi guardavano mentre quelle braccia mi stringevano e quella voce mi parlava. D'oro è il sole del mattino dopo una notte di incubi e paure. D'oro è la luce dell'Abisso, dove il mio desiderio diverrà realtà.

L'oro non ha altre parole per essere definito, perché non spaventa, perché l'oro è il colore dei miracoli.
Si dice che gli occhi siano lo specchio dell'anima, e forse è vero. I suoi occhi sono d'oro. Un mio occhio è rosso, perché sono la sua disgrazia; un mio occhio è d'oro, per il miracolo di averlo avuto come fratello.
La mamma poteva farlo. Non gli sono mai piaciuto. Nemmeno io mi piaccio. Perché la mamma non mi ha ucciso? Perché lasciare invece che il mio occhio rosso contaminasse quello sguardo dorato?


Zac.
Le bambole sono finite.
Zac, zac.
Non rimangono teste che debbano essere tagliate.
Zac, zac, zac.
Che il tempo venga riavvolto, che il passato venga cambiato, che il mio primo respiro sia anche l'ultimo, che tu possa avere una vita felice.
 

   
 
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