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Autore: polvere_    18/08/2012    1 recensioni
Peeta's POV, fra "La ragazza di fuoco" ed "Il canto della rivolta".
«Se ciò che ho subito sino ad oggi l’ho considerato una tortura, sono il più imbecille fra tutti i vincitori degli Hunger Games. La crudeltà di Capitol City è disarmante. Avrebbero potuto utilizzare qualsiasi, qualsiasi cosa. Il mio distretto. I miei pochi amici. La mia famiglia. Avrebbero potuto mettermi contro me stesso ed avrei sorriso e ringraziato: tutto, ma non questo. Non la mia luce e la mia ragione, non lei. Non Katniss.»
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Peeta Mellark
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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E’ il caos.
Il respiro pesante per la corsa, mi guardo intorno convulsamente ma vedo solo alberi dalle sagome confuse, una sirena assordante riempie le mie orecchie eppure non riesce a sovrastare questo rumore che sembra di bombe. Alzo lo sguardo e mi si prospetta un’immagine bellissima e terribile: la cupola dell’arena, dove tante volte ormai ho visto apparire volti di quelli che erano solo cadaveri, nella quale ho visto sorgere e tramontare il sole ogni giorno pensando fosse l’ultimo, le cui stelle fittizie hanno vegliato su di lei quando io non potevo, quella cupola che è la nostra gabbia d’oro esplode in mille fuochi d’artificio.
Sta andando in pezzi.
Non ho idea di come sia possibile, ma capisco che in qualche modo può essere collegato con il piano di Beete. Cosa faremo adesso? Gli Hunger Games devono avere un vincitore, ma senza arena.. E lei dov’è? Troppi pensieri nella mente, mi metto le mani fra i capelli e so che devo avere un’espressione devastata. Anche questo è in diretta mondiale? No, quei bastardi avranno interrotto il programma: non possono palesare in questo modo una grande sconfitta.. questo pensiero mi fa affiorare sulle labbra l’ombra di un sorriso sardonico, folle.
Poi lo vedo. Un’hovercraft spunta fra le fiamme del cielo artificiale e cala il suo artiglio fra gli alberi lontani a qualche centinaio di metro da me, sollevando ed inghiottendo delle piccole figure. Sparisce così come è arrivato, ed è subito seguito da un altro, che si avvicina pericolosamente a me. Tento di fuggire prima che mi intercettino ma sono ferito ad una gamba, corro disperatamente ed inciampo in una dannata radice. I boschi non sono il mio ambiente, ma il suo.
E non posso combattere la fune che mi viene calata addosso, l’artiglio che mi prende per la schiena e trascina via, il gruppo di Strateghi che mi accerchia, la siringa pronta nella mano del più anziano.
Non posso combattere questo torpore mortale.
 
***
 
Bip bip, bip bip.
Riprendo coscienza ed il mio campo visivo si riempie di bianco. Aprendo gli occhi mi trovo in una linda stanza dalle pareti inamidate, su un letto che sembra d’ospedale; infilzati nelle mie braccia fili e tubi collegati a monitor i quali non fanno che ripetere un rumore, bip bip, bip bip. Così mi sale alla mente quando poco tempo prima Wiress non faceva che ripetere quel “tic-tac”.. e a fatica segue il ricordo di Johanna ed Enobaria nell’hovercraft insieme a me, anche loro appena strappate dall’arena, sconvolte e piene di sangue. Ma dove mi trovo adesso? La pulizia del posto e l’avanzata tecnologia mi fanno pensare ad una costruzione di Capitol City, teoria confermata dallo stemma della città ricamato sulle divise delle due infermiere sorridenti, una bionda ed una mora, appena entrate da una porta scorrevole che non avevo notato. Cosa ne faranno di me?
Le prime parole che escono dalle labbra sono rauche e la voce è spezzata, «Dov’è Katniss?».
Silenzio. Un lungo silenzio. Le donne mi fissano senza rispondere, e la paura per la sua sorte si insinua dentro di me come un veleno. «Cosa ne avete fatto, maledetti! Katniss! KATNISS!» mi metto a sedere ed urlo perché mi senta, ovunque sia, urlo tanto che ho la gola in fiamme.
Quando faccio per alzarmi le due si guardano tentando di mascherare un’espressione turbata, finchè la mora non annuisce e con cipiglio deciso si volta verso di me; avvicinandosi, estrae dalla tasca del camice una siringa sottile ed allungata contenente un liquido biancastro, che provvede ad iniettare in uno dei tubi direttamente collegati con le mie vene.
Bip bip, bip bip.
 
***

Cosa ne fanno dei prigionieri questi aborti dell’umanità vestiti di brillanti, questi conoscitori del galateo, questi mostri raffinati?
Semplicemente, li torturano.
Lentamente.
Sadicamente.
La prima volta che mi hanno condotto nella Sala degli Interrogatori ne stava uscendo Annie Cresta, distretto 4, vincitrice dei settantesimi Hunger Games. Non ho idea di quale crimine abbia commesso né cosa le abbiano fatto, ma quando i nostri sguardi si sono incrociati, nel suo ho visto un terrore folle e cieco che mi ha fatto drizzare i capelli sulla nuca. Avrei dovuto immaginare cosa mi aspettava.
Generalmente si pensa che, durante un interrogatorio, rispondendo alle domande se ne esce incolumi: sbagliato. O almeno, il Capo dell’Inquisizione di Capitol City non è dello stesso parere.
Perché se ti viene chiesto qualcosa la risposta non è mai quella corretta, non è mai sufficientemente dettagliata, hai sempre bisogno di un incentivo. E l’incentivo non è una zolletta di zucchero, una parola gentile che ti invita a continuare. Oh no.
E’ un coltello che taglia lentamente la tua carne.
Una goccia che cade sulla tua testa ritmicamente, ininterrottamente, fino a farti impazzire.
E’ l’elettroshock.
Non sono mai stato una persona forte. Non mentalmente, intendo: sono in grado di sollevare cinquanta chili di farina, ma quando un uomo che sembra più un armadio mi spinge la testa sott’acqua finchè non ho i polmoni che contengono un oceano, allora cedo. Ho detto tutto quello che so, giuro. Eccetto le mie supposizioni e i miei pensieri, ma non hanno comunque nulla in mano. Il punto è che davvero non so chi abbia ordito il piano per la distruzione dell’arena o dove si trovi Plutarch Heavensbee, non conosco il luogo in cui sono rifugiati i Ribelli, non posso dire niente riguardo i progetti di Katniss Everdeen.
Katniss.
Se non sono impazzito come Annie, è solamente grazie a lei. Il suo sorriso stampato sulle mie palpebre irrompe nel bel mezzo del dolore ogni volta che chiudo gli occhi, e mi trattiene aggrappato alla lucidità mentale. Faccio in modo che il suono della sua risata rimbombi nelle mie orecchie sovrastando le urla dell’Inquisitore. Il ricordo delle sue labbra sulle mie mi ricorda che c’è qualcosa per cui devo, voglio, vale la pena vivere. E’ l’unica stella nella notte in cui sento di precipitare ogni istante di più.
Se solo penso alle apparizioni televisive in cui chiedevo un cessate il fuoco con un fucile puntato dietro la schiena, mi è sembrato di tradire in qualche modo la sua fiducia.. sono sempre una marionetta nelle loro mani, la star dello show, eppure al tempo stesso sono inutile ai loro scopi.
O almeno, lo sono per adesso.
 
***
 
Oggi non mi scortano verso la Sala degli Interrogatori: l’infermiera  bionda, una delle tante che ha il compito di sorvegliarmi ed assistermi, mi dirige attraverso un lungo corridoio silenzioso dalle pareti metallizzate, sul quale sono presenti numerosi ingressi per svariate sale, tutte inaccessibili. Camminiamo per qualche minuto finchè non ne arriviamo alla fine, davanti ad una grande porta. L’infermiera -carceriera, mi correggo mentalmente- la apre dinnanzi a me utilizzando una chiave bianca sfilata dalla tasca, e mi trovo in una stanza quadrangolare piuttosto spoglia che puzza di disinfettante, la cui parete di fondo è interamente occupata da un grande schermo. Di fronte ad esso poche sedie, affiancate da una serie di macchinari metallici e un tavolino di vetro su cui sono disposte ordinatamente alcune siringhe contenenti un liquido violaceo.
Ad accogliermi, Coriolanus Snow, leader di Panen da 25 anni.
L’uomo mi viene incontro sorridendo affabile, stringendomi la mano come un vecchio amico -un ospite gradito, un consanguineo giunto da lontano- e mi rivolge una serie di domande del tutto prive di rilevanza, esclusivamente di circostanza. Ha addosso un odore forte che sa di sangue e menta; crede davvero di fregarmi? Se è così che trattano i prigionieri torturati brutalmente, non oso immaginare le cortesie riservate a chi è davvero dalla loro parte. Poi mi rendo conto che no, fotterebbero anche chiunque fosse loro alleato, solo, con una dolcezza ancora più infima.
Ai piani alti di Capitol City sono capaci di pisciarti in testa dicendoti che piove.
«Bene, caro Peeta, adesso sarei lieto di presentarti», sta dicendo il viscido Presidente, «il professor Andern Speicher, che si occuperà di te per tutta la giornata».
A queste parole avanza da un angolo della stanza un uomo alto in giacca e cravatta che indossa dei grandi occhiali con la montatura bianca, mi stringe brevemente la mano e senza dire una parola mi conduce verso il gruppo di sedie di fronte allo schermo. M’invita a sedermi e non posso fare altro che assecondarlo, anche perché il presidente della nazione è ancora nella stanza, osservando ogni nostra mossa.
«Dunque vediamo», inizia a dire il professore diretto a me, mentre lo vedo andare verso il tavolino di vetro. «Come mi è stato riferito dagli Inquisitori, lei afferma di non avere idea dei progetti rivoltosi della vincitrice dei passati Hunger Games, Katniss Everdeen» il suo nome pronunciato da quella voce melliflua mi dà la nausea «..giusto?» chiede voltandosi, e noto che in mano ha una di quelle siringhe dal contenuto violetto.
«Esattamente» rispondo sfoderando un’aria di sfida: non ho paura delle sue torture.
Speicher, che sta tornando verso di me, sembra percepirlo e sospira leggermente prima di continuare, «Non abbiamo intenzione di prolungare i.. trattamenti che le sono stati riservati sino ad oggi» mi riferisce lanciando un’occhiata a Snow, «Non le verrà arrecato niente che possa ledere alla sua persona, che è così preziosa».
Penso che abbia un modo di parlare così pomposo ed accademico, che per un momento non registro le sue ultime parole: sono una persona preziosa. Forse dovrei sentirmene lusingato eppure l’unica sensazione che sento è il terrore, perché in pochi secondi realizzo due cose distinte.
La prima. Si sono resi conto che non sono una fonte d’informazioni come credevano quando mi hanno prelevato dall’arena -quando mi hanno strappato via da lei, - quindi non verrò più sottoposto a torture di sorta, perché è semplicemente inutile.
La seconda. Se non sarò una spia, non potrò essere nient’altro che un’arma.
Non ho tempo di chiedermi di quale tipo -se mi modificheranno geneticamente o mi faranno addestrare per diventare una macchina da guerra-, perché Speicher si siede accanto a me, mentre l’infermiera bionda mi immobilizza alla sedia con alcuni lacci.
«Cos’è questa storia?» domando accennando ai miei polsi e alle caviglie, che sono stati strettamente assicurati allo schienale e alle gambe della sedia.
«Una garanzia che non ti opporrai alla procedura», risponde il professore con noncuranza.
Penso di strappare via i lacci e scappare, e se anche mi prendessero manderei quanti più stronzi possibile all’inferno, e poi… no: dove mai potrei andare? Capitol City è immensa, ed io non sono nessuno. Vorrei quindi replicare, chiedere informazioni riguardo l’imminente futuro, ma la donna prende alcuni tubi ed attrezzi e li avvicina pericolosamente alla mia testa.
«E questi?», è tutto quello che riesco a dire.
«Dobbiamo pur monitorarti in qualche modo, o no?» chiede retorico il mio nuovo, educato torturatore. L’infermiera dunque attacca alcuni fili terminanti in una sorta di ventose al mio collo, ai polsi, alle tempie, alla nuca. Sono praticamente la personificazione della perplessità, finchè non arrivo ad essere sconvolto: Speicher mi pone una fascia sulla testa, sulla quale ci sono due piccoli anellini di metallo sporgenti che provvede ad infilarmi velocemente dentro le palpebre, di modo che non possa sbattere le ciglia. Sono fastidiosi ed ho come la sensazione mi spingano i bulbi oculari dentro il cervello. Non potrei toglierli in nessun modo.
Il professore, ancora di fronte a me, riprende il suo discorso mentre gli occhi iniziano a bruciarmi: «Adesso inietterò questa sostanza nel tuo braccio, e in qualche minuto inizierà ad entrare in circolo nel tuo corpo», asserisce esibendo la siringa.
«Cosa c’è dentro?», chiedo furente, ma il sadico uomo non accenna minimamente a soddisfare la mia curiosità, e sta per riprendere il suo discorso quando in un impeto di istinti repressi gli sputo in faccia con tutta la rabbia che covo da giorni e giorni.
“Ecco, adesso mi sbatteranno nelle prigioni più sotterranee della città..” penso, e già mi figuro gattabuie maleodoranti ed umide quando sento la voce del presidente Snow dietro di me: «Il ragazzo può sapere, poi non ne conserverà alcun ricordo».
«E’ veleno di aghi inseguitori», sbotta Speicher asciugandosi il volto con uno scatto. «E comunque ti idrateremo periodicamente gli occhi», aggiunge tornando glaciale.
Non ho idea del perché vogliano iniettarmi un’atrocità del genere nel corpo, so bene l’effetto che provoca: allucinazioni, sospetto che chiunque voglia farti del male, distorsioni del suono, incapacità di distinguere ciò che è reale da ciò che non lo è.. La paura mi stringe il cuore in una morsa dolorosa.
L’infermiera, che nello svolgersi degli avvenimenti era stata in silenzio, mi affianca recando in mano un.. telecomando? Capisco che serve per l’enorme schermo che, oltre che la parete della stanza, riempie il mio intero campo visivo. La donna ed il medico si scambiano uno sguardo d’intesa, quest’ultimo mi afferra il braccio immobilizzato e sento un grosso ago trafiggerne la carne.
Avevo sbagliato, il contenuto violaceo della siringa non era liquido ma denso, pesante, posso sentirlo diffondersi a fatica nelle mie vene, orientarsi a malapena nel sangue, mi viene la nausea, ho un conato di vomito, le luci nella sala si spengono e l’enorme televisore si accende.
Se ciò che ho subito sino ad oggi l’ho considerato una tortura, sono il più imbecille fra tutti i vincitori degli Hunger Games. La crudeltà di Capitol City è disarmante. Avrebbero potuto utilizzare qualsiasi, qualsiasi cosa. Il mio distretto. I miei pochi amici. La mia famiglia. Avrebbero potuto mettermi contro me stesso ed avrei sorriso e ringraziato: tutto, ma non questo. Non la mia luce e la mia ragione, non lei. Non Katniss.
Ed invece le immagini scorrono spietate sullo schermo, suscitando emozioni contrastanti nel mio cuore.
La prima è una sua foto –bassa qualità- di quando era bambina, con due trecce disordinate ed i grandi occhi grigi già di un adulta. Non sorride all’obiettivo, ma lo fissa con durezza ed aria di sfida: era già una roccia. Non mi chiedo neanche come gli strateghi, gli inquisitori o chi altro l’abbiano trovata, perché sono troppo colpito dal suo volto. All’epoca scrutarla da lontano in rare occasioni era la normalità, e non avrei mai pensato di dover temere per la mia e la sua vita. Sono perso nella contemplazione di quel viso, quando sento una strana emozione che mi è estranea.. una sorta di fastidio legato alla vista dei suoi occhi che d’un tratto, solo per un attimo, mi sembrano piccoli e cattivi.
L’immagine statica è sostituita da un video: il giorno della prima Mietitura, il sorteggio per le ragazze, la morte crudele che tenta di prendere Prim e non ci riesce. Il suo volto disperato e il suo corpo che si divincola fra le braccia dei pacificatori che tentano di tenerla ferma, le sue parole chiare, possenti, «Mi offro volontaria come Tributo!». Sembra così dura, così inattaccabile, eppure è in momenti come questo che si rivela per quello che è: altruista, impulsiva, imprevedibile. Il suo cuore è un giardino segreto dalla recinzione molto alta, ma pieno di splendidi e rari fiori.. Le sensazioni che queste immagini portano con sé cambiano lentamente nel mio petto: guardandola urlare e poi salire sul palco vedo una piccola, egocentrica ragazza piena di sé, che non tollerando l’idea che la sorellina minore sia più in vista di lei ne prende il posto, per stare sotto le luci di uno spettacolo di cui non è degna..
Nuovo fotogramma, questa volta una replica del servizio sui punteggi dei Tributi degli Hunger Games dell’anno precedente. E’ il mio turno, una mia foto galleggia dietro le spalle dei presentatori dello show e poi il mio punteggio, 8, abbastanza buono, e ricordo la sensazione di sollievo. Dopo di me, lei con un punteggio di 11, la migliore di tutti. Ricordo la sensazione di orgoglio ed il sorriso che rivolsi al suo volto stupito, pensando che se le persone fossero state acqua io sarei stato pioggerella leggera, e lei un uragano. Ma non ne traggo più benessere e non sento tutto l’affetto che ho sempre provato per lei ripensando a questo momento, no, sento anzi un violento moto d’orgoglio ferito al pensiero che una sgualdrina insignificante abbia ottenuto un punteggio più alto del mio solo lanciando una freccia in una stupida mela, o magari facendo un servizio completo allo Stratega Capo, oh sì..
Il video dei nostri primi momenti nell’arena sostituisce quello precedente e ci vedo sui piedistalli attorno alla Cornucopia. Sono quasi sicuro che in quell’istante ci fossero agitazione e paura per la sua vita e desiderio di fuggire, mentre adesso non ricordo che la consapevolezza che volesse uccidermi, ed un desiderio implacabile di serrarle le mani intorno al collo e vederla annaspare e soffocare.
Altro filmato: lei arrampicata sull’albero sotto il quale io ed i Favoriti l’avevamo circondata, che taglia un ramo e ci scatena addosso quei piccoli insetti infernali. Vuole la mia morte, ed io la sua.
Le immagini dei tributi pieni di punture gonfie sbiadiscono e ci siamo solo noi due, nella grotta.. lei mi bacia e so che sta mentendo, vuole solo arrivare viva alla fine dei giochi, mi sta sfruttando perché Capitol City l’ha corrotta, è un ibrido, è il nemico.
Ed eccoci le bacche nelle mani. Mentre prima pensavo fosse solo un parto della sua mente brillante per metterci in salvo adesso lo vedo per quello che è: un tentativo di uccidermi. Sono turbato, perché realizzo che se il capo stratega non ci avesse fermati annunciando che eravamo i vincitori, lei avrebbe lasciato che io ingoiassi quei frutti mortali, per essere l’unica star, per i riflettori, per l’avidità e l’egoismo.
Le immagini si susseguono, i ricordi affiorano, mi divincolo in preda alla rabbia e alla confusione. Cerco di oppormi al veleno che ormai mi circola nel sangue e appesantisce i sensi, tento di portare alla mente la felicità che provavo nello stringerla fra le braccia dopo i giochi, quando eravamo tutti e due assaliti da incubi tremendi e solo insieme potevamo contrastarli: ci salvavamo a vicenda in quelle notti fatte solo di parole di conforto e urla di terrore. Torna a scaldarmisi il cuore ricordandola, ma lo schermo continua a trasmettere immagini e filmati, e non mi da tregua.
Vedo i miei quadri dipinti di ritorno al distretto 12 e sorge il dubbio di essere stato costretto in modo subdolo a disegnarla ovunque.
Vedo Gale ripreso da lontano che si dirige alle miniere e capisco che è lui che vuole, non sono stato altro che un diversivo per salvare la sua piccola lurida insignificante vita.
Vedo l’ingresso ai secondi giochi e la voglia di proteggerla si trasforma in quella di ucciderla.
I nostri baci associati ad amara finzione.
Le sue labbra sulle mie quella notte sulla spiaggia, montando la guardia, mi danno il voltastomaco.
Lei che mi insegna a nuotare nel mare artificiale della seconda arena in un momento di pausa, mi ricorda che probabilmente voleva solo vedermi affogare.
La perla che le ho donato mi sembra che l’abbia strappata dalle mie mani con avidità.
Poi l’ultima immagine, l’ultimo ricordo che ho di lei, l’ultima volta che l’ho vista, che pensavo fosse l’ultima. E’ la notte prima dell’esplosione dell’arena, Beete ci dice che Katniss e Johanna dovranno srotolare il filo, mi vedo offrirmi di andare con loro ma non posso, dicono che sono troppo lento: mi sottovalutano, pensano sia un debole. Lei mi bacia prima di andarsene e non si gira a guardarmi, quando so che io l’avrei fatto. Non si volta ed è l’emblema di tutto ciò che sono per lei: niente.
E’ come un uragano, ed io una di quelle casette nei pressi di un fiume; mi ha trascinato via con violenza inaudita e mi ha distrutto, pezzo dopo pezzo.
Avevo pensato che mi avrebbero ucciso, che non l’avrei rivista mai più. Sbagliavo.
Come ho potuto essere così cieco? Mi ha sempre ingannato, non sono mai stato abbastanza per lei. E’ stata per me uno di quei libri con le orecchie alle pagine e le sottolineature di matita; sono stato per lei un leggibile romanzo regalato e lasciato a prendere la polvere su una libreria. E’ come se avessi sempre vissuto con una benda sugli occhi, ed è paradossale che quelli che sono sempre stati i miei nemici me ne abbiano liberato. Non li detesto meno di quanto non facessi prima, ovvio: è solo che un nome è andato ad aggiungersi alla lista nera che non sapevo di avere.
Perché adesso che mi hanno aperto gli occhi so mi lasceranno andare e la raggiungerò, ovunque sia, giuro che la stanerò, e la distruggerò.
Così come lei ha distrutto me.
Ucciderò Katniss Everdeen.
 
 


Angolo dell’ “autrice”
Prima storia con il nuovo account, mi ronzava in testa da un bel pezzo..
Sebbene preferisca generalmente i tempi storici questa è resa al presente, così che fosse più simile al metodo di narrazione della Collins. Mi rendo conto che scrivo periodi lunghi e che a tratti posso essere noiosa, quindi un grazie enorme a chi è riuscito ad arrivare fino alla fine♥
Ci sono delle citazioni:
“If people were rain I was drizzle and she was a hurricane” è presa da “Cercando Alaska” di John Green. “Ci pisciano in testa e dicono che piove”, l’ho un po’ adattata alla storia ma comunque è una frase di Travaglio. “Il suo cuore è un giardino segreto dalla recinzione molto alta” è una frase che ho trovato su tumblr tempo fa.
Mi sono inventata gli inquisitori e pure i punteggi presi nella prova per i primi hunger games, i primi perché mi servivano, i secondi perché non li ricordavo x)
Andern Speicher è un personaggio di mia invenzione: ho scelto il nome dalle parole tedesche “cambiare” e “ricordo”, ed ho scelto il tedesco perché in quanto a cure sperimentali il primo dottore che mi viene alla mente è Freud, appunto tedesco.
E basta, grazie ancora di cuore a chiunque abbia letto. Recensioni graditissime.
Baai.
  
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