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Autore: but honestly    19/08/2012    2 recensioni
Mi sentivo particolarmente drammatica! Si tratta di una oneshot shounen-ai sul pairing Deidara x Sasori. La reazione di Deidara alla tragica fine del maestro, tante lacrime. Non ho molto da dire a riguardo, se non che adoro questi due insieme e vorrei trasmettervi almeno un po' di quello che credo li leghi. Spero vi sia gradita, comunque!
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Akasuna no Sasori , Deidara | Coppie: Sasori/Deidara
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Naruto Shippuuden
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Il frusciare gentile delle foglie, succubi del costante soffiare del vento, delicato, piacevole. Una brezza fresca che mi scompigliava le ciocche bionde disordinatamente raccolte; gli steli d’erba umidi sotto i palmi delle mani. Gli occhi sgranati a fissare il vuoto, le iridi azzurre che a stento contenevano le pupille tremanti. Non può essere… Non avrei mai pensato ad un’eventualità simile, se non si fosse imposta con violenza nella mia realtà, quel giorno.
 
Avrei voluto tornare a quella stessa mattina, trascinare il tempo indietro con le mie sole forze, per rivivere ancora quei momenti in cui il caos, dentro la mia anima, ancora non esisteva. Mi ero alzato, quel giorno già distante, incredibilmente presto, al contrario di come mi ero sempre comportato durante tutti gli anni da quando avevo abbandonato per sempre la mia Roccia. Il mio tempio, mai la mia casa. Non avevo mai neanche contemplato l’idea di averne una e, comunque, ero restio alla contemplazione dell’alba. A svegliarmi erano stati dei fruscii leggeri, di tessuto appena smosso, ma abbastanza irritanti da allertare i miei sensi e risuonarmi nel cervello come un trillo; o forse no, forse ero solo abbastanza riposato. Forse avevo solo voglia di vederlo. Avevo aperto una palpebra con flemma, lasciando l’altra chiusa, mentre la luce artificiale di una fiammella nella lampada a olio presso la parete mi feriva gli occhi. Non era ancora neanche l’alba. Mi ero stropicciato un occhio con il dorso della mano destra, cercando con lo  sguardo quella figura che ormai mancava nel suo letto disordinatamente sfatto. «Ma non mi dire!» una voce, calda e pacata, eppure mai priva di quella punta di ironia che mi infastidiva tanto. Mi ero voltato lentamente verso sinistra, ancora intontito dal sonno e dal risveglio brusco. Mi sembrava di aver sputato la lingua chissà dove. Era lì, davanti a me; il suo corpo meccanico minuziosamente reso con legno e  chissà quale altro scricchiolante materiale. Si stava vestendo. E mi osservava. «Quand’è che sei diventato improvvisamente mattiniero?» aveva continuato, imperterrito, quasi divertito, probabilmente, dall’espressione ebete che avevo assunto, continuando a fissarlo come avessi intravisto uno spettro, nel pieno di un incubo. Avevo dischiuso appena le mie labbra fine per replicare, ma tutte le parole sembravano essermi morte in gola. Non riuscivo a dire nulla. Quegli occhi… quello sguardo; calmo, impassibile, impenetrabile. Un mistero che, in tutti quegli anni, non ero mai, mai, mai riuscito a decifrare. Quegli occhi stanchi,  che in battaglia rifulgevano di una luce vermiglia, del furore di un Dio. Senza poter replicare, mi ero morso il labbro inferiore, per poi lasciar evaporare tutta la mia irritazione in un soffio leggero. Mi ero portato il dorso della mano alla fronte, con aria sofferente. «Più o meno, quando hai acceso la luce, mh.» avevo sibilato, forse piuttosto seccato, non tanto dal fatto di essere stato disturbato durante il sonno, ma per il non sapergli rispondere come avrei voluto. Non ci riuscivo mai. Ogni volta che provavo a ribattere,  quel suo sguardo mi frenava. Era sempre stato così. Lui si voltò e prese ad abbottonarsi la tunica nera ornata da vivaci nuvole rosse, che contraddistingueva la nostra organizzazione. «Mi spiace,» aveva poi mormorato lui, con aria comunque pienamente consapevole di sé e per nulla desolata per quanto accaduto «devo provare alcune funzioni, per manutenzione.». Dopo qualche istante di interdizione avevo poi inarcato un sopracciglio, come se questo mi incuriosisse appena. Sasori impiegava sempre la massima cura nella costruzione e nell’utilizzo di ogni singolo pezzo delle sue creazioni; persino di sé stesso. Non c’era una sola parte in cui non l’avevo osservato applicare il suo ingegno al limite. Era incredibilmente presto, e lui era già pronto, vigile, attento, sapeva esattamente quello che si stava apprestando a fare nei minimi dettagli. Professionale, scrupoloso, convinto della propria idea perfino nell’anima. «Maestro Sasori…» avevo pronunciato il suo nome quasi senza pensarci. Poi, inspiegabilmente, mi ero fermato, ritirando tutto. Non mi era ancora chiaro cosa volessi dirgli veramente. Era come se fossi stato spinto con forza sott’acqua e stessi affogando in un mare rosso e nero. Lui si era voltato comunque, senza cambiare espressione. Aveva sbuffato, notando che semplicemente non avevo nulla da riferirgli, e si era avvicinato alla porta dopo aver recuperato alcuni rotoli di pergamene. Sembrava concentrato, mentre manteneva un passo sicuro e deciso. E io, beh, io ero ancora nel letto, il volto seminascosto dalla coperta, i capelli disordinatamente arruffati sul cuscino, sparsi intorno a me. Senza fiato. Mi sembrava di soffocare. «Vieni anche tu?» mi aveva chiesto, osservandomi con la coda dell’occhio, mentre portava la mano alla maniglia dell’uscita, ancora prima di esercitare una lieve pressione per aprirla. Io gli avevo rivolto lo sguardo, solo per qualche istante, quanto mi sarebbe bastare ad incrociare il suo, sottile, eppure  spesso come un muro che sentivo di non poter superare. Dopo qualche istante di piena interdizione, mi ero passato una mano sul viso, sospirando. «Stai scherzando, mh? Non è neanche giorno.» quindi mi ero calato di nuovo il lenzuolo sul viso, lasciandolo abbastanza scoperto affinché si potessero scorgere i miei occhi azzurri dalla linea rimarcata. Mi ero scordato di togliere quel trucco scenico nero che indossavo prima di ogni mio spettacolo, prima della creazione di ogni opera darte, ed il risultato era una gigantesca macchia scura sul cuscino bianco.
E poi l’avevo visto. Il suo sguardo. Ma, soprattutto, sì, il suo sorriso. D’improvviso, era come se non riuscissi più a respirare. Forse avevo pensato davvero di morire, in quell’istante. Non me ne ero mai accorto, fino a quel momento. Sasori era taciturno, attento, serio; non l’avevo mai visto con quell’espressione docile, quasi umana, dipinta sul suo volto di porcellana. Collegata a quell’espressione, il suo invito mi stava apparendo con una tonalità del tutto diversa. «Come ti pare.» aveva sibilato, dischiudendo appena quelle labbra fine ed incurvate, mentre apriva la porta con flemma e la varcava. Improvvisamente, non mi guardava più.
Spalancai la bocca. Volevo fermarlo. Volevo respirare. Non avevo detto nulla.
L’avevo osservato semplicemente sparire dietro quella porta, nella penombra del corridoio.
 
«Ce l’avete fatta, vero?» «Sì.»
Non appena avevo sentito quella vecchia mormorare a bassa voce quell’assenso, mi ero sentito raggelare il sangue nelle vene.  Non può essere.
Mi ripetei che non era possibile. Che stava mentendo. Che era fuggita come una codarda, perché questo era ciò che presentava la sua vera natura. Nessuno aveva mai battuto Sasori. Persino io, il suo compagno, temevo la sua potenza sopraffina, mentre lo osservavo muovere aggraziatamente i fili delle sue marionette, concentrato, attento. Preciso.
Ero corso via. Inseguito, forse più dalla paura dell’inevitabile che dagli shinobi della foglia. Ci avevo messo molto, sì, e alla fine ero sfuggito anche a loro. Ero riuscito a tornare al rifugio, quella rocca scavata nella pietra che da molto tempo era diventato il mio alloggio. Il cuore palpitava così forte per la fatica e per il terrore che mi sembrava di vedere il mio petto scoppiare. Mi guardai le mani, puntandovi le iridi azzurre contro. Tremavano. Non mi era mai successo prima. Anche nelle battaglie più impegnative, non avevo il tempo di spaventarmi; troppo impegnato a creare, a contemplare le mie opere e, spesso e volentieri, a prendermi gioco di Sasori, che mi osservava a debita distanza con un’espressione annoiata. Quel sorriso. Ripensarci mi faceva male. Mi bruciava, nella gola, come se vi fosse arsa una fiaccola accesa. Volevo urlare il suo nome, ma era il dolore ad impedirmelo.
Corsi dentro. Pensai che, se l’avessi chiamato, sarebbe sbucato dal retro di una delle rocce disposte qua e là e si sarebbe preso gioco della mia preoccupazione. Magari, mi avrebbe pure rimproverato per essere tornato a controllare. Dimmi che sei vivo. Avrebbe incrociato le braccia al petto e si sarebbe allontanato, scuotendo il capo e borbottando qualcosa sui miei modi troppo bruschi, sulla sua arte per sempre viva, sull’eterno volteggiare dei suoi capolavori. E io mi sarei infuriato. Come sempre.
E invece, quel che trovai fu del tutto diverso da quel che mi aspettavo. Sotto la luce pallida del Sole più triste che avessi mai visto, c’erano le macerie ed i resti di quello che avrebbe dovuto essere il suo grande capolavoro. Frammenti di legno ovunque, schizzi di sangue ancora grondanti e solchi di una battaglia terminata troppo in fretta. Presi un respiro pronfondo, cercando la calma dentro di me; una calma che non avevo mai posseduto. I polmoni mi si riempirono di quell’odore acre e pungente emanato dal fluido viscoso e vermiglio che impregnava la pietra. Strinsi i pugni. Dovevo andare avanti. Dovevo vedere cosa c’era dopo. Dovevo vedere se c’era lui.
Iniziai a percorrere i pochi metri che ormai mi separavano dalla parete di fondo di quell’arena naturale, trattenendo il respiro per la tensione. Procedevo così lentamente che mi sembrava di trascinare un immenso macigno con la sola forza delle braccia. Era pesante, pesantissimo. Portai lo sguardo innanzi a me e deglutii. Ormai ero quasi arrivato.
C’era qualcosa, disteso a terra; ammantato di nero e scomposto in tre parti, da cui sporgevano lame affilate, come aculei di un istrice. Sentii il sangue raggelare dentro le vene.  Non è lui. Avanzai, esitante; volevo chiudere gli occhi e fingere di potermi svegliare di nuovo. Di ritrovarmi nel letto, aprire gli occhi e vederlo lì, in piedi, mentre si vestiva e preparava le pergamene per allenarsi.  Mentre si voltava verso di me e mi rimproverava con il suo sguardo impenetrabile. Non può essere lui. Per un attimo, credetti che il cuore mi si fosse fermato nel petto, mentre osservavo la scena con sguardo ricolmo di preoccupazione e terrore. O forse, era solo riluttanza ad accettare quello che più mi si mostrava evidente. Ormai c’ero quasi. Tre figure riverse a terra. Due, ai lati, fin troppo grandi per attirare la mia attenzione. Ed una, al centro, minuta, in un lago di sangue che sgorgava lento dai punti in cui le lame erano state conficcate. I capelli rossi. Quei capelli…
Dischiusi appena le labbra tremanti, con la voglia di urlare con tutto il fiato che tenevo in corpo, eppure… non uscì nulla. Soltanto un gemito leggero, appena percettibile, forse neanche abbastanza forte per sovrastare il fischio del vento che s’insinuava nella cavità rocciosa. No. Sentivo il petto bruciare ed un’impellente voglia di vomitare. Quella verità mi risultava inaccettabile, impossibile. Avvertii le gambe cedere alla gravità e caddi in ginocchio, a un metro di distanza dal suo corpo inerte.
Premetti i palmi sul terriccio ancora umido del suo sangue.
Dolore; voglia di urlare, di distruggere quel luogo e tutto quello che fino a quel momento lui aveva significato per me. Non volevo soffrire, non volevo accettarlo.
Un singhiozzo sommesso e impertinente si insinuò tra me ed i miei pensieri confusi, mentre le lacrime cominciavano a solcarmi lentamente le guance livide in un pianto silenzioso. Mi sentivo scoppiare. Non riuscii a contenermi.
Spalancai la bocca e urlai con quanta più foga riuscissi a imprimere in quell’atto.
Sperai di sentirmi meglio.
Non successe nulla.
Quel grido non aveva cambiato niente, né dentro di me, né in ciò che mi circondava. Lui era ancora disteso a terra ed io ero ancora in balia della mia disperazione. Della mia personale tragedia, come un attore d’altri tempi.
E il sipario non si decideva a calare.
Dentro di me sentivo la sua voce risuonare lenta, come una melodia piacevole di cui quell’evento funesto era la nota di troppo. Stonava.
«Vieni anche tu?»; quell’invito che avevo rifiutato in maniera tanto blanda, pur volendolo accettare, ora mi riecheggiava nella mente; avrei voluto davvero andare con lui. Avrei voluto dirgli tante di quelle cose, riversargliele dentro con passione, ammirazione, vita. Ed ora… «Come ti pare.».
Crack. Ecco. Si era rotto.
Mi chinai su di lui, con gli occhi talmente ricolmi di lacrime da non riuscire a distinguere la sua sagoma come avrei voluto. Posai con delicatezza la mia fronte sulla sua chioma rossa e la accarezzai dolcemente. «Si.» sussurrai, appena percettibilmente, abbastanza perché lui potesse sentirmi. Pregai che potesse. Non ne fui certo. «Certo che voglio venire.» mi tremava la voce, non riuscivo più a contenere quel pianto. Mi sentivo un bambino inerme.
Gli sfiorai ancora le ciocche di rubino con una carezza. Strinsi le labbra in una morsa. Mi dispiace. Immaginai di prendergli la mano e di seguirlo fuori dalla nostra stanza. Di far esplodere i miei capolavori come fuochi d’artificio ad annunciare l’arte.
Un istante di effimero splendore. Giusto? Sei sempre stato irraggiungibile. Non ricordo se lo sussurrai o lo tenni per me. Non ero in grado di capire se il sangue per terra appartenesse a quel corpo metà umano e metà fantoccio, oppure al mio petto straziato. Mi sentivo osservato. Non mi importava. Completamente immerso nella tua concezione di arte. Non sapevo se essere arrabbiato, sconvolto o soltanto infinitamente triste. Lentamente riaprii gli occhi che avevo chiuso per sopportare meglio quel bruciore intenso.
Accostai le mie labbra tremanti al suo orecchio; esitai qualche istante. Comunque, hai vissuto fino all’ultimo come un vero artista.
Non ero mai riuscito ad ambientarmi in nessun posto. Né la mia città natale, né tantomeno il mio tempio. Tutto mi sembrava terribilmente vuoto od eccessivamente opprimente. Forse, per questo avrei voluto seguirlo. Lui. Lui era la mia casa. E me ne ero accorto infinitamente tardi.
«Ti amo.»
 

 

   
 
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