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Autore: Ayumi Zombie    19/08/2012    3 recensioni
Finnick, su di sopra, è seduto sul suo letto. È in posizione fetale. Dalla finestra aperta, una brezza di mare gelido gli carezza la pelle abbronzata. I singhiozzi della mamma spingono la sua fronte liscia contro le gambe piegate, gli stringono gli occhi chiari e gocciolano tra le ciglia bionde.
Finnick x Annie, la mia prima. Spero vi piaccia.
Genere: Malinconico, Slice of life, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Finnick Odair
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Consiglio di leggere ascoltando questa playlist. E' esattamente il tipo di melodia con cui l'ho scritta e credo sia l'unico che debba accompagnarla.
Vi prego di lasciarmi una recensione. E' la prima Finnick x Annie che scrivo, e non so se vada bene o meno. Nel secondo caso, mi impegnerò per migliorarmi. Grazie anche per la sola lettura.

In fondo, questa è solo una storiella.

 Il libro illustrato, aperto, arrugginisce,
si trasforma in sabbia, e scivola via.

Due ragazzini si inseguono sulla spiaggia. Il mare è grosso, il cielo è grigio, le onde sono scure e bianche, sbavanti, rabbiose. Non ci sono barche in acqua. I ragazzini, vestiti con abiti semplici e un po’ sporchi, corrono vicino alle onde, e scattano via quando la spuma minaccia di inzaccherarli per bene. Sfidano il nemico di oggi, composto da quell’insieme di acqua salata, alghe, bolle e pesci intontiti dall’ira irragionevole del mare.
Sono un ragazzino e una ragazzina, se li si guarda bene. Una testolina bionda e spettinata, con un sorriso che va da un lato all’altro del faccino perfetto. Da pubblicità di giocattoli: comprateli, e i vostri figli saranno belli e felici come questo qui! L’altra, invece, ha un faccino dolce e lentigginoso. Una base chiara e levigata, decorata da spruzzi di tempera, di quelli ottenuti raggruppando tutte le setole del pennello e lasciandole andare all’improvviso una dopo l’altra. Casualmente, formano una strampalata ma bella decorazione sotto ai grandi occhi verde scuro, profondi e curiosi.
Il bambino agita le braccia abbronzate, mentre corre. Non sono ancora braccia ben sviluppate, non sono ancora attaccate per mezzo di belle spalle forti, non c’è traccia di muscoli che diano loro una forma definita, né c’è ancora un soffice strato di peli biondi a ricoprirle. Sono ancora due fili stilizzati, che terminano con cinque rametti disegnati con una manina convinta ma un po’ tremolante. Quelle braccine fatte per giocare, perché al posto loro si immagini ci sia qualcos’altro. In questo momento, fanno finta di essere le ali di un aeroplanino.
La bambina gli corre dietro, senza scarpe. I ditini sono liberi di afferrare la sabbia umida per  ancorarsi meglio, per andare più veloce. Le gambe, sottili e diritte, sono nude. Piene di lividi e graffi fatti con un sorriso, botte prese da qualcuno che non era lei, ma una principessa o una guerriera o un super-robot invincibile. Sono ancora due stecchini approssimati, terminanti con una sottospecie di trattino, e decorati con crosticine staccate troppo presto, cerotti appiccicati solo per metà e macchie viola in cui si cerca di vedere un significato ancestrale per il destino del mondo.
All’improvviso, come se fossero coordinati da una forza invisibile, si fermano. Non sembra che importi loro del fatto che ora il nemico li ha in pugno, e riesce a raggiungere i loro piedi con la sua lava salata e incandescente. In un altro momento, si starebbero rotolando sulla sabbia, urlando doloranti, con strilli più forti di quelli dei gabbiani, riempiendosi di quei granelli che si infilano dappertutto, anche nelle mutande, e meritandosi una sculacciata una volta tornati a casa.
Il bambino biondo tende il piccolo pugno, da cui sbuca un mignolino decorato con un unghietta decisamente da tagliare. La ragazzina sfodera un sorriso che contagia anche i suoi occhi scuri, e tende il proprio dito a sua volta. È sporco di pennarelli. I due ditini si intrecciano. Gli occhi azzurri e quelli verdi si chiudono.
« Insieme per sempre! »
Due voci infantili si uniscono.

Nel cielo risuona il rumore dell'aria scricchiolante,
che scorre diagonalmente dalla finestra.

Annie Cresta ha sedici anni e si diverte a scherzare con il suo gruppo composto da zero amici. A dire la verità non ce l'ha nemmeno, un gruppo di amici, però ha un sacco di dipinti. Li ha fatti lei. Non ha una migliore amica a cui mostrarli, certo, ma tanti colori ad olio per farne altri. Non sa bene di cosa parlare con le persone appena conosciute, però sa bene che per avere quel tipo di grigio che le serve adesso, ha bisogno anche di un po’ di blu, insieme al bianco e al nero. Sa bene che le cose migliori sono quelle un po’ sporche. Quelle di cui non si riesce a capire bene l’origine, contaminate da tanti agenti esterni come il colore del vento e il profumo del mare misto a quello della lavanda e dei pini e delle soffitte chiuse piene di tesori. Quelle che sporcano un po’ anche te, e che rimangono lì anche dopo tanti anni che se ne sono andate, perché la loro ombra ormai era diventata solida, e il tuo naso era talmente tanto avvezzo a quell’odore che ormai continua a sentirlo, per abitudine.
Intinge il pennello in un bel giallo grano, e, in tutto quel grigiore azzurrastro, colora una macchia in alto, lontana. Dipinge il ricordo di un bel sole biondo.

« Ehi, ‘Nick! », urla un ragazzone dai capelli biondi.
Finnick si gira. Stava guardando il mare grigio. Non lo sapeva, ma stava cercando qualche sirena tra la spuma delle onde. Qualche missione speciale per cui chiamare il resto della squadra e andare a nuoto fino ad Atlantide.
Finnick si alza, senza usare le braccia. Si dà qualche pacca sul sedere, per scrollare via la sabbia che gli è rimasta appiccicata ai bermuda. Dà le spalle al mare borbottante, e cammina nella direzione del gruppo di persone che lo aspetta al di là della spiaggia. Se ne va, ma procede con lentezza.
« Odair, ma si può sapere per quale cazzo di ragione devi sempre farti desiderare, eh? », dice un altro ragazzo, sbattendogli il peso di un braccio muscoloso sulla spalla.
« Lo sai come è fatta sua signoria! – gli dice un’altra persona ancora. Un altro maschio, però questo è più smilzo ed ha il naso più affilato. – Deve sempre fare in modo che gli altri lo cerchino, mai che si scomodi lui! »
La risatina tintinnante delle due o tre ragazze del gruppetto si fa sentire. Qualche altro scambio di battute tra il ragazzo appuntito e quello grosso, condito con i commenti inutili delle voci scampanellanti del piccolo sotto-branco delle ragazze, e qualche aggiunta in automatico di Finnick.
Ma sembra che, oggi, nonostante quel gruppo di persone non se ne sia accorto, sia successo qualcosa. Finnick è un po’ scosso, ma nessuno di loro lo nota.
Suo nonno è morto. E lui non se ne è ancora pienamente reso conto.

La luce che proviene da lì proietta la tua ombra.

Una porta di legno, l’esterno un po’ intaccato dal vento marino, si apre. Mostra il signore e la signora Cresta, vestiti di scuro, con le mani congiunte in grembo. Salutano educatamente, poi aprono la bocca e sparano un proiettile che colpisce diritto al cuore della padrona di casa.
« Siamo venuti a fare le nostre condoglianze. »
La signora Odair, che già quando aveva aperto la porta sembrava un po’ instabile, cade tra le braccia della sua ospite, scoppiando in lacrime.

Finnick, su di sopra, è seduto sul suo letto. È in posizione fetale. Dalla finestra aperta, una brezza di mare gelido gli carezza la pelle abbronzata. Quando sente la porta aprirsi, scricchiolando – quante volte la mamma ha detto a papà di ungerne i cardini di grasso? – e la voce della signora Cresta, stringe forte le ginocchia contro il petto. I muscoli delle braccia si contraggono. I denti superiori ingaggiano una battaglia con quelli inferiori, gareggiando a chi si spezza prima.
I singhiozzi della mamma spingono la sua fronte liscia contro le gambe piegate, gli stringono gli occhi chiari e gocciolano tra le ciglia bionde.

"Non sembra quasi un film?"
Dico, con parole che mi escono dal cuore.

Le persone parlano del vecchio Odair, durante il banchetto dopo la cerimonia.
Sembra che nessuno abbia qualche pettegolezzo cattivo da proferire su di lui. Annie, infatti, non sente nemmeno un singolo però. Neanche le vecchiette del villaggio, che aspettano solamente il suono delle campane da morto, per avere qualcosa di cui spettegolare, non sembrano particolarmente contente di avere un argomento fresco di cui parlare. Il vecchio Odair era un uomo gentile, che, nonostante quella brutta tosse, aveva deciso di continuare a fumare quei sigari puzzolenti che gli riempivano i baffi di quello strano odore caratteristico. Diceva che il suo odore, ormai, era fatto da quello strano olezzo mischiato con quello del mare, e che sarebbe morto comunque, prima o poi. Era vecchio, e soddisfatto. Tanto valeva andarsene mantenendo la sua anima degli stessi colori con cui era sempre fatta, piuttosto che aggrapparsi ad una vita che non sarebbe stata la sua, no?
Annie prende una tartina. Un pezzo del classico pane alle alghe, tostato, su cui era stata spalmata una salsina rosa che sa di sale e delle lacrime versate, e, appoggiatovi sopra, c’è un gamberetto senza guscio. Una creature senza difese, morta, inerme. In realtà, Annie non ha tanta fame, ma le sembra maleducato ignorare gli sforzi che la signora Odair ha compiuto nonostante il dolore.
Tra le persone vestite di nero, ne spicca una, che, tra l’altro, nemmeno c’è. Non è stata presente durante la cerimonia, e non ha toccato una briciola del convivio che attira tanti sguardi tristi, commenti un po’ sforzati e assaggi masticati controvoglia. Annie la vede, quella persona, oltre la finestra, al di là delle tende bianche, svolazzanti a causa della brezza marina. È seduta sulla spiaggetta di fronte alla casa, è rivolta verso il mare triste, e, probabilmente, si lascia asciugare le gocce salate che le rigano il volto dallo stesso vento che ne ha abbracciato un mare intero.
Annie si toglie le scarpe, appoggia la tartina sul davanzale della finestra da cui spiava Finnick, ed esce dalla casa dei signori Odair, senza dire una parola. Dietro di lei, un mormorio. Dicono di lasciarla fare, che tanto è un po’ matta, è un po’ una cosa di famiglia, ma non fa male a nessuno.
Cammina nella sabbia fredda, ma continua a mettere un piede dopo l’altro, senza rallentare. Sembra fatta di polvere di ghiaccio. Impiega molto tempo ad arrivare da lui. Ci impiega sei trilioni di anni ed una notte, ma sembrano solo due minuti. O forse è il contrario. O forse quello è il tempo per cui non si solo più visti, il tempo che ci hanno impiegato a cambiare. Forse è il tempo in cui hanno iniziato a dire che Annie Cresta è una tipa un po’ strana, e che Finnick Odair è un gran figo, e, ti dispiace, Annie, se domani non vengo a casa tua a giocare ma vado al cinema con i miei amici?, e, no, Finn, ci vedremo la prossima volta. Forse è il tempo che Annie se ne rimane lì in piedi di fianco a Finn, e ci sono solo loro due e l’universo vuoto.

Il tetto si tinge di rosso,
ed aleggia nel vento gentile.

« Volevo dirti che mi dispiace molto », dice Annie, fissando il mare. Tiene in mano le scarpe, e sembra che parli al vento o al cielo coperto di nuvole grigie.
« Non è colpa tua.  - Finnick, seduto sul bagnasciuga, coi piedi accarezzati delicatamente dal mare giù di corda, alza le spalle. - Continuava a fumare quegli stupidi cosi, anche se sapeva che sarebbe finita in questa maniera ». La voce si incrinerebbe, se quello non fosse Finnick Odair, o se lui si ricordasse che sta parlando solo con la piccola Annie, che anche se è una femmina nuota più veloce di lui.
« Non è per quello -, specifica Annie. – Se ne sarebbe andato comunque, tanto valeva che lo facesse a modo suo. »
Finnick continua a guardare il mare. Uno stormo di gabbiani vola in lontananza, poi si dirige verso il porto.
« Mi dispiace perché sono un po’ matta e non mi vuole nessuno », si spiega meglio Annie.
« E cosa c’entra? », chiede Finnick. Muove le dita dei piedi, sulle quali si era incastrata un’alga. Riesce a liberarsene.
Annie si siede vicino a lui, mettendosi a gambe incrociate. « Se non fossi stata così, sarei piaciuta ai tuoi amici –. Inizia a fare dei ghirigori sulla sabbia bagnata. Disegna distrattamente un po’ di malinconia, usando il dito. – E così ci saremmo tenuti in contatto in maniera più decente. » Osserva il risultato. No, non va bene, manca qualcosa. Usa anche l’altra mano, ed aggiunge un po’ di rimpianto.
« Non sei tu, il problema, Annie », dice Finnick, un po’ esitante. Non sembra molto convinto. Non sembra nemmeno molto a suo agio. Verrebbe da chiedersi perché: quando erano piccoli, passavano serate intere in quel punto esatto della stessa spiaggetta in cui erano in quel momento, esattamente nella stessa posizione in cui sono adesso, a parlare di persone e vicende che non esistevano, a creare interi universi e popoli da salvare da minacce in via di sviluppo.
Annie sta meditando di aggiungere anche un po’ di ricordi, ma un sorriso le compare sul viso concentrato, distraendola. « Me lo dicevi anche alle medie. » Sì, decisamente, qualche linea delicata di ricordi servirebbe a rendere quel pasticcio un po’ più realistico.
Finnick ed Annie si zittiscono, ed inizia a parlare il mare. Racconta loro di qualcosa che avevano seppellito nelle loro soffitte, dentro ai disegni di quando erano piccoli. Qualcosa di nascosto tra la linea azzurra in alto, del cielo, e quella blu a metà foglio, del mare. Qualcosa di nascosto tra i raggi a zig zag del sole giallo e arancione, qualcosa che fa capolino da dietro alle nuvole bianche e trasportate sulle ali dei gabbiani disegnati come stormi di tante V sbilenche.

Il colore del tempo che si ferma,
è lo stesso di quello di una nuvola che inizia a muoversi.

Il mare continua a parlare, ma Finnick smette di prestargli attenzione. Volta il viso verso Annie, e gli occhi verdi di lei schizzano in un’altra direzione.
Appoggia la mano su quella di Annie, e sente il cuore che gli batte all’impazzata. Perché? Ha toccato le mani di tante ragazze. Ha guardato il viso di tante ragazze. Ha incrociato lo sguardo di tante ragazze. Poi, però, gli viene in mente che Annie non è tante ragazze, che la mano di Annie è colorata di tempera distratta, che il viso di Annie non è sporco sugli occhi e sulle labbra, che lo sguardo di Annie è sfuggevole e sognante come il fumo dei sigari del nonno.
Il nonno non c’è più, la sua infanzia non c’è più, la merenda alle quattro del pomeriggio deve prepararsela da solo, il suo tigrotto è diventato un gattone pigro con poca voglia di muovere la coda, ma Annie è seduta alla sua destra, e sta facendo quegli arabeschi sulla sabbia che disegnava quando era in imbarazzo o c’era qualcosa che voleva dire.
“C’era un’altra cosa che ti volevo dire, alle medie, Annie”, direbbe, se lei non si fosse girata a guardarlo negli occhi. Lui scappa via, le corre sul viso, alla ricerca di qualcosa che non sia la verità a cui aggrapparsi. Le labbra di Annie non sono truccate. Sono un po’ screpolate, a dire la verità, e i dentini bianchi che sono nascosti là dietro non sono disegnati con precisione millimetrica. Non profuma di odori artificiali, ma di focaccine appena sfornate, bambini, colori ad olio, ricordi e mare.
Annie sa di dolce, di cioccolato fondente, che si intreccia con il sapore salato di lacrime e pane di Finnick, che la guida, che la prende per mano e le insegna dolcemente come muoversi. Non la sforza, non la obbliga ad accettarlo. Bussa, chiede permesso, sbircia dietro di lei, la stringe e la porta via con sé. Le fa scoprire tante cose, le fa vedere mille mondi, le sussurra di tante possibilità e forse e ma e perché e magari, e ci mette solo sei trilioni di anni ed una notte. O forse, ben due minuti interi.

Solo le due persone,
in un mondo che inizia a sgretolarsi.

   
 
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