La
storia partecipa a Il giro dell'oca
Casella
10 (canzone + immagine)
Libera di...
Cerchi
riparo fraterno conforto
Tendi le braccia allo specchio
Ti
muovi a stento e con sguardo severo
Biascichi un malinconico
Modugno
Di quei violini suonati dal vento
L'ultimo bacio mia
dolce bambina
Brucia sul viso come gocce di limone
L'eroico
coraggio di un feroce addio
Ma sono lacrime mentre piove
[L'ultimo bacio, Carmen Consoli]
Cammino
a passo spedito lungo la strada battuta dalla pioggia.
Stringo
con forza il borsone che porto sulla spalla.
Non
mi volto indietro.
Aspetto
questo momento da anni.
Lo
aspetto dal giorno in cui mi sono resa conto che la vita, per me,
aveva in serbo un destino infelice.
L'ho
capito presto. Avevo 10 o 11 anni.
Sono
tornata a casa da scuola e ho trovato la mamma in lacrime. Era già
successo in passato, ma allora, per la prima volta, mi sono resa
conto che non erano lacrime naturali.
Non
piangeva per stanchezza o per nervosismo, mia madre. Piangeva di
dolore. Piangeva di impotenza.
Piangeva
perché quel mostro che per anni ho chiamato papà le aveva appena
spaccato un labbro. Lo aveva fatto per gelosia immotivata, lo aveva
fatto seguendo il suo istinto animale.
Era
già successo in passato, ma quella volta non alzai le spalle con la
noncuranza dei bambini. Quella volta guardai bene il volto segnato
della donna che mi aveva messo al mondo e arrivai alle mie
conclusioni.
Mio
padre era un mostro.
Lo
sapevo già? Forse. Ma solo allora lo ammisi a me stessa.
E
dopo quel giorno, non passò molto tempo prima che provassi la teoria
sulla mia stessa pelle.
Avevo
13 anni, la prima volta che lui mi fece del male.
Ero
stata tutto il pomeriggio fuori con le amichette della scuola. Faceva
caldo, in quell'inizio di estate. Rientrai a casa accaldata e
scarmigliata. Sorridente.
Lui
era lì che mi aspettava. Un gigante scuro contro la luce del
pomeriggio.
Non
sorrideva.
* * * * * * * * * *
All'inizio
non riuscivo a capire il perché della sua violenza, cosa di preciso
lo facesse scattare. Mi facevo mille domande a riguardo. Volevo
davvero capire cosa trasformasse quello che fino a poco tempo prima
era “il mio papà” in una
persona sconosciuta. Così avrei potuto cambiare atteggiamento e
tutto sarebbe tornato a posto...
Il
problema era che io non facevo niente di male – lo avrei
capito alcuni anni dopo.
Io
ero solo una ragazzina che iniziava a sbocciare. Una ragazzina come
tante, che attirava i primi sguardi dei coetanei. Che sapeva
sorridere e non si vergognava di farlo.
Tutto
qui. Ma questo era abbastanza per lui.
La
stessa gelosia malata che nutriva nei confronti di mia madre, quella
che lo aveva portato nel corso degli anni ad accusarla di cose
orribili – prive di fondamento, per quanto ne so – e a punirla
per i suoi “peccati”... adesso la riversava anche su di me.
Non
voleva che qualcuno mi guardasse, non voleva che qualcuno mi
toccasse.
Nei
miei sorrisi innocenti regalati a piene mani vedeva gesti di malizia
femminile.
Non
dovevo diventare una poco di buono, come lei – mia madre. Non
dovevo guastarmi fin da piccola.
Per
questo mi sgridava, per questo mi picchiava. Era per il mio bene.
Non
capivo.
Non
ho capito mai come l'amore potesse assumere quella forma. Come
l'amore si potesse realizzare nel suono sordo della sua mano contro
la mia pelle.
* * * * * * * * * *
Ho
perso il conto delle volte che mia madre ha dovuto rimettermi a
posto.
Un
labbro rotto, un sopracciglio che sanguina. Lividi, violacei,
bluastri sulla mia pelle chiara.
Lei
non ha mai fatto niente.
Si
limitava a medicarmi le ferite e a guardarmi con quegli occhi stanchi
e malinconici.
Qualche
volta ho pensato che fosse sul punto di parlare... ma non è
successo.
L'ho
odiata.
Ogni
giorno, l'ho odiata. Quasi allo stesso modo in cui odiavo lui.
Lui
era l'orco delle favole. Quello che un attimo prima sembrava solo un
uomo affettuoso e sereno, che sorrideva promettendo regali, e
l'attimo dopo, invece...
Ma
lei... lei ai miei occhi di ragazzina era la sua complice, la sua
alleata.
Quella
che vedeva, che sapeva, ma non faceva niente per fermarlo.
Soprattutto,
quella che avrebbe dovuto fare
qualcosa.
* * * * * * * *
Per
quanto ho sperato e pregato, non è mai cambiato niente.
Gli
anni si sono succeduti uno dopo l'altro.
Nessun
principe sul cavallo bianco è arrivato in mio soccorso, nessuno ha
sfidato a duello il mostro per la mia mano.
Ho
sognato invano, e col tempo ho perso ogni tipo di fede.
Non
c'era nessuna giustizia, non c'era nessun lieto fine. Molto
probabilmente non c'era nemmeno nessun Dio. Almeno, non per me.
Crescendo
mi sono anche resa conto che una sola persona avrebbe potuto salvarmi
dall'incubo. Quella persona ero io. Inutile e stupido aspettare un
intervento esterno.
Mi
sarei salvata da sola.
Allora
ho iniziato a contare i giorni. I giorni che mancavano al momento
dell'indipendenza sancita per legge, i giorni che mancavano alla
meta.
Fuggire,
senza che loro potessero portarmi indietro.
Fuggire,
per sempre.
* * * * * * * *
Oggi
posso.
Oggi
è il mio compleanno. 21 marzo, Serena compie 18 anni.
Oggi
sono libera.
Ho
raccolto in fretta le mie cose. Non possiedo molto e ancora meno era
quello che volevo portare con me. Ho messo tutto nel borsone e sono
uscita in punta di piedi.
Nessun
rumore veniva dalla camera accanto alla mia.
Mi
sono affacciata per controllare, forse per dire silenziosamente
addio.
Li
ho visti che dormivano, sereni.
Dormiranno
anche adesso, mentre mi allontano a spasso svelto sotto la pioggia
mattutina.
Il
cappuccio della felpa calcato in testa, gli occhiali di sole. Qui mi
conoscono tutti, ma spero di passare inosservata. E in ogni caso,
questa è gente che sa tenere la bocca chiusa.
So
che nessuno cercherà di fermarmi. So che nessuno farà la spia.
Non
così presto, almeno.
E
quando penseranno di farlo... sarà tardi.
Mi
fermo quando arrivo all'ingresso della superstrada. Poso il borsone,
ho la spalla intorpidita.
Alzo
il pollice e aspetto.
Aspetto
e prego. Prego
che qualcuno si fermi. Prego che qualcuno mi porti via. Prego che il
mio piano non si risolva con un buco nell'acqua. Non ho denaro per
pagarmi un biglietto del treno. L'auto-stop è la mia unica
possibilità.
Dopo
qualche minuto di attesa, un furgoncino bianco accosta a pochi passi
da me.
Il
finestrino si abbassa.
Metto
dentro la testa, per trovarmi davanti un uomo sulla trentina, mai
visto prima.
"Dove
sei diretta, bambolina?" sorride impercettibilmente.
"Lei dove
va?" ribatto dopo un attimo.
"Milano."
Risponde, senza esitazione.
Non
sembra pericoloso.
Di
certo non può essere peggio di quello che ho lasciato in quella
stanza da letto.
"Milano
va benissimo", gli dico mentre apro lo sportello e prendo posto
accanto a lui.
Senza
aggiungere altro, l'uomo sulla trentina riparte.
Cerco
di rilassarmi e di non pensare a tutto quello che potrebbe andare
storto.
Sistemo
meglio il borsone tra i miei piedi.
Mi
appoggio allo schienale del seggiolino.
Non
mi guardo indietro.
7'°7'°7'°7'°7'°7'°7'°7'°7'°7'°7'°7'7'°7'°7'°7'°7'°7'°7'°7'°7'°7'°7'°7'
NdA
Il personaggio di Serena è originale, così come la sua storia. Devo dire, però, che il tutto è stato ispirato, in buona parte, dalla lettura del libro della Avallone, Acciaio. Lì finisce che una delle protagoniste, Francesca, ha ancora 15/16 anni e non va da nessuna parte. Io ho voluto che la mia ragazzina maltrattata dal padre se la desse, finalmente, a gambe.
L'ambientazione è di nuovo vaga. Io ho pensato agli anni '50/60 e a una qualche cittadina di provincia del centro-sud.