Storie originali > Drammatico
Ricorda la storia  |      
Autore: Leverie    22/08/2012    2 recensioni
Un personaggio misterioso, un talento innaturale, un miracolo sonoro che si ripete ogni giorno. Ma chi è realmente l'inquietante violinista che scalda i cuori degli abitanti della città? Un vecchio racconto a cui sono tanto affezionata, riproposto, corretto e mai perfetto!
Genere: Dark, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Nessuno sapeva chi fosse o da dove venisse. Nessuno l’aveva visto arrivare.

Si era semplicemente materializzato e da tre giorni occupava un piccolo spazio tra il muro della chiesa e la via che portava a scuola, accasciato sotto a un’edicola di mattonelle smaltate e ghisa annerita, sormontata da una sbiadita Madonnina dallo sguardo malinconico, eternamente fisso sui patetici mazzetti di fiori di campo che qualche pia donna ancora deponeva tra le grate, con atteggiamento tra il supplice e il virtuoso.

“Ma con quel tizio, quella specie di accattone accampato lì, chi glieli porta più i fiori alla Madonna?”

Borbottavano le anziane comari, tirando fuori dalla tasca del cappotto la corona per il rosario del pomeriggio, da sgranare in una devota richiesta di aiuto per i poveri e i bisognosi del mondo; cosa che, su questo non c'erano dubbi, avrebbe assicurato loro un posto d’onore accanto all’Onnipotente, se anche non un pasto caldo e un giaciglio dignitoso alle sfortunate anime per cui pregavano.

“Ma non si vergogna? Venire qui, in un quartiere di gente perbene, mettersi a bivaccare vicino a un luogo sacro…”

“E i bambini?! Lì infondo c’è la scuola. Cosa ne sappiamo noi di quello che un tipo del genere potrebbe fare ai nostri figli, ai nostri nipoti? Io dico che dovremmo chiamare le guardie e farlo sloggiare, prima che accada qualcosa.”

E su questo non si poteva che convenire: uno così non poteva che essere pericoloso per la loro discendenza. Dopo la messa si sarebbero occupate dell'oltraggiosa situazione.

Che cosa c’era, dunque, di tanto inquietante da risultare molesto in quella macilenta presenza che sembrava avere all’attivo la sola colpa di essere un povero mentecatto abbandonato contro il muro di una chiesa?

Tanto per cominciare le egregie signore sbagliavano a definirlo “accattone”, perché di fatto non chiedeva nulla. Nei suoi gesti, negli atteggiamenti, nelle parole, non c’era la minima richiesta di elemosina.

Anzi, quanto a parole non pareva ne fosse prodigo: nessuno aveva mai sentito la sua voce.

Le vesti che indossava dovevano essere state eleganti e formali, ma l’effetto complessivo era quello di un mucchio di stracci grigiastri e lisi appesi su rami spogli di un albero scheletrico.

Seduto, quasi accartocciato, teneva il capo chino e stringeva qualcosa tra le braccia, ma visto che le povere, pavide anime che erano solite passare di lì evitavano quella visione sgradevole distogliendo lo sguardo, non si sapeva né che aspetto avesse il suo viso, né cosa custodisse con tanto apparente amore.

Entrambi gli arcani, tuttavia, sarebbero stati presto svelati: bisognava solo attendere un sabato pomeriggio uggioso e freddo, in cui quattro donne di fede avessero deciso di denunciare alle autorità la presenza di un singolare individuo dalla parvenza di uno spettro accampato all’angolo della strada. Se fosse stato necessario avrebbero inventato particolari di molestie e sguardi lascivi, insulti e ubriachezza.

Sarebbe stato a fin di bene, non si faceva peccato. E poi chi poteva dire che non fosse vero?

Eccole, le quattro attempate signore, nei loro cappotti di lana scura, i capelli arricciati da poco, le mani adorne di anelli, la mente vivace così come le lingue, entrambe - e questo mi duole dirlo! - affilate sul filo della maldicenza .

E non avevano dimenticato i loro propositi, tutt'altro!

Nell’atmosfera raccolta della navata, una semplice richiesta di allontanamento dello sconosciuto si era ingigantita e arricchita di inflessioni bellicose tali da far pensare ad una crociata contro un nemico dell’umanità.

A testa alta, con sguardo deciso, labbra serrate, uscirono dalla chiesa; sapevano già cosa dire: si erano messe d’accordo perché nessuno potesse dubitare delle loro parole a causa di discrepanze nelle varie versioni.

Ma si trovavano ancora sul sagrato quando giunse alle loro orecchie un suono meraviglioso.

Era una musica che nessuno mai, prima di allora, doveva o poteva aver udito, per il semplice fatto che nessuno fra tutti i grandi musicisti che avessero mai avuto la fortuna di ascoltare, avrebbe mai potuto suonare così.

Era qualcosa che andava al di là di ogni possibile descrizione.

Qualcosa per cui lo stesso termine “Musica” sembrava riduttivo, tanto ciò che sentivano era diverso da ciò che con questa parola si è soliti designare!

Un’estasi di note che danzavano nell’aria e si innalzavano, poi si abbassavano, che accarezzavano i timpani e riempivano la testa, il cuore, ogni singola fibra di qualcosa di ineffabile e incomprensibile per la limitata mente umana.

Incapaci di commentare ciò che commentare non si poteva, le quattro anziane donne cercarono di risalire alla sorgente da cui sgorgava quella musica meravigliosa.

Accerchiato da una folla estasiata ed esterrefatta l’ex-accattone, oramai ammantato dall’aura dorata degli artisti, suonava un vecchio violino: era lui dunque, l’artefice di tale meraviglia!

In piedi, le palpebre abbassate, la pelle livida tirata sulle ossa al punto da non riuscire neppure a coprire i denti, pochi, radi, ciuffi di capelli giallastri appiattiti sul cranio…era un autentico mostro e se qualcuno si fosse avveduto del suo aspetto solo pochi minuti prima, ben difficilmente sarebbe riuscito a trattenere un urlo, o almeno un’esclamazione di orrore.

Ma l’apparenza, pur così atroce, cosa può contro la capacità di creare l’incanto di una Bellezza assoluta, tale da superare la finita concezione umana per ascendere alle sfere del divino?

E difatti nessuno in quel frangente pensò di fuggire o di distogliere lo sguardo; il vento portava l’eco di quella melodia sovrannaturale ai passanti e questi si avvicinavano, avvinti dalla magia di un suono che colmava l’animo e deliziava i sensi e desideravano che non finisse mai, mai!

Continuò, forse per ore, forse per pochi minuti.

E quando anche l’ultima, limpida nota si dissolse nell’aria, a tutti parve di aver perso qualcosa di incredibilmente caro e in molti chiesero a gran voce che suonasse ancora.

Ma lui, il violinista, con atteggiamento distaccato, senza mai aprire gli occhi, si limitò a rimettersi a sedere, il prezioso strumento sempre stretto tra le braccia, impermeabile alle lodi, alle richieste, alle lacrime di autentica, traboccante emozione. In silenzio.

Quella sera, nelle case come nei bar, non si parlò d’altro e il giorno dopo c’era tutto un quartiere assiepato intorno al geniale musicista.

Di nuovo la magia sublime di quel meraviglioso intrecciarsi di note li vinse, infiammando i cuori degli innamorati, addolcendo l’indole dura di una madre troppo severa, inducendo il pentimento nell’animo del dissoluto scommettitore...

E alla fine ognuno se ne andò, con la sensazione di aver appena preso parte al compiersi di un miracolo: perché solo nella categoria del miracoloso poteva rientrare una tale capacità di rendere uno strumento di legno e corde la chiave per un paradiso di emozioni.

Lo stesso accadde per tutti i giorni a seguire: anime desiderose di trovare redenzione nella musica, si radunavano frementi, per poter godere di quegli splendidi istanti in cui il misterioso artista suonava e poi andarsene con rinnovata fede, perché a quel punto risultava ovvio a tutti che esisteva qualcosa che andava oltre l’ umanamente comprensibile e quell’uomo, se di uomo si trattava, ne era la prova.

Lui restava in silenzio, gli occhi chiusi, lontano dalla folla che lo attorniava.

Le voci si susseguivano, nascevano leggende fantastiche su quella strana figura: si diceva che il suo violino fosse stato fatto con il legno degli alberi dell’Eden, che Dio stesso l’avesse mandato per premiarli, per il fatto che erano tutti così buoni cristiani da quelle parti, o forse per ispirare in loro pensieri alti e nobili, da tempo persi, dissolti nella nebbia del pragmatismo, della fretta.

Ben presto si cominciò a sussurrare che l’uomo seduto all’angolo della strada fosse un angelo.

“L’Angelo della Musica, costui è l’Angelo della Musica!” Ripetevano, soffiando forte il naso lacrimoso, le stesse quattro vecchie signore le quali avrebbero voluto far sparire lo scellerato che aveva osato accamparsi sotto all’edicola della Madonna. Ora nessun luogo sembrava loro più adatto a ospitarlo.

C’era dunque chi lo chiamava così, “l’Angelo della Musica”; qualcuno lo nominava rispettosamente “il Maestro”; dal momento che non aveva mai sollevato le palpebre e che a ben guardare le sue orbite erano davvero troppo incavate per poter supporre che ospitassero i bulbi oculari, c’era anche chi lo chiamava “il Violinista Cieco”.

Ma la maggior parte ne parlava come del “Violinista Pallido”, il geniale Violinista Pallido che ogni giorno faceva vibrare le corde del suo strumento e quelle dei cuori dei suoi sempre più numerosi ascoltatori.

La fama di quei ripetuti miracoli sonori si spargeva a macchia d’olio: ormai in città non c’era alcuno che non avesse ancora sentito parlare del Violinista Pallido; pochi erano quelli che non l’avevano sentito suonare.

Un’avventurosa, briosa, giornalista tentò perfino di intervistarlo, ma senza successo; nessuno tuttavia si dispiacque del suo silenzio se non la giornalista stessa: trovavano, anzi, quasi sacrilega l’idea di trattare quell’essere trascendentale come una comune curiosità di quartiere da cui ricavare un articoletto di giornale. Per questo non gradirono il fin troppo spiritoso trafiletto apparso sul quotidiano locale: perché non si poteva scrivere con tanta leggerezza di un genio.

Le voci si levavano, ogni giorno più numerose, ogni giorno più alte, tanto da arrivare alle orecchie che più stavano alte nella città: quelle del Sindaco, l’imponente figura dalle guance rubizze e i piccoli occhi inquisitori, dai modi ponderati e i cerimoniali esagerati.

Può una così importante personalità restare impassibile di fronte alla notizia che, nella propria città, un angelo si accampa per la strada come un comune senzatetto, riscaldato dal solo calore umano dato dai suoi ascoltatori?

E difatti il giorno dopo era lì, più rosso e lustro che mai, quasi accecato dai flash di quanti volevano immortalare quell’incontro, con un sorriso che offriva una panoramica pressoché completa della sua dentatura.

Parlò con il Violinista a lungo, sfruttando tutte le sue capacità oratorie, declamando letteralmente le lodi per un talento che faceva onore a lui, alla città, a tutte le divinità della Musica e che non era giusto confinare in un piccolo angolo di quartiere.

Gli si chiedeva, dunque, di esibirsi al Teatro Grande, il prestigioso, celeberrimo Teatro Grande, gloria e vanto di tutta la cittadinanza, l’unico degno di ospitare cotanto artista quale egli era, in modo da spalancargli le porte di un successo che non sarebbe mancato di arridergli. Il tutto, naturalmente, dietro lauto compenso.

“Volete farci questo grande onore di illuminare il nostro Teatro con la stella di prima grandezza che siete, Voi e il Vostro quasi leggendario strumento, per deliziarci con quella musica che mi dicono essere indescrivibile?” Concluse il Sindaco con fare accattivante, tirando indietro la pancia e cercando di mostrare il profilo migliore ai fotografi.

Il pubblico tratteneva il fiato: per nessuno la risposta sarebbe stata scontata; per di più durante tutto il brillante discorsetto, il Violinista non aveva dato il minimo segno di ascoltare quanto gli veniva chiesto: remoto e assente come sempre era rimasto seduto a terra, con il capo chino.

Erano tutti in attesa.

E lui annuì, bruscamente, due volte.

L’applauso scrosciante, entusiasta, coprì le parole del Sindaco, ma la notizia rimbalzò comunque da un parte all’altra della città: i cartelloni rosso cupo campeggiavano ovunque e riportavano in chiare lettere dorate “Teatro Grande: Concerto solista per violino, di artista anonimo. Unica data: Venerdì, 31 Ottobre, ore ventuno.”

Il giorno del grande debutto si avvicinava, ma il Violinista Pallido continuava ad incantare le folle all’angolo della strada.

 

* * *

 

Il Teatro era gremito di gente; gente di un certo tipo, si intende.

Le più alte personalità nel campo dell’Arte e della Musica erano state invitate ad assistere all’evento.

Numerosi esponenti di quell’antica nobiltà che aveva dato il nome alle più belle ville e ai palazzi più maestosi della città parlottavano educatamente, sottovoce, esprimendo una pacata curiosità nei confronti del misterioso artista.

“Io non l’ho mai sentito, ma me ne hanno raccontato meraviglie. È pur vero che alla gente basta poco, per entusiasmarsi… ma perché rischiare di perdersi un nuovo Paganini? Spero solo che l’esibizione sia all’altezza del prezzo del biglietto, che mi è parso realmente esoso.” Commentava la grassa moglie di un banchiere, facendo storcere il naso a quanti non apprezzavano che si parlasse di argomenti tanto grossolani come il denaro nel tempio delle Muse.

Anziani senatori già sonnecchiavano accanto alle proprie consorti.

Il Sindaco era strizzato sulla pur ampia poltrona, circondato dall’altrettanto ben pasciuta famiglia.

E sul loggione d’onore un noto Capo di Stato, sedeva come un re sul trono.

Tutti fissavano le pesanti cortine di velluto del sipario, ansiosi di sentire quel prodigio di cui tanto si era parlato.

L’ entrata in scena del Violinista fu accolta da un applauso incoraggiante, caloroso.

Lui, per l’occasione, era meno cencioso: gli abiti che indossava erano evidentemente nuovi e puliti, ma il colorito era livido come al solito e la sua magrezza tanto grande che la consueta impressione che ogni cosa gli pendesse orrendamente e grottescamente addosso era addirittura ingigantita.

Non si inchinò, non pronunciò parola; si piazzò semplicemente al centro del palcoscenico e cominciò a suonare.

Posso solo cercare di narrare quanto avvenne in quei frangenti, perché esprimerlo a parole sarebbe non solo riduttivo, ma addirittura impossibile!

Ma voi cercate di immedesimarvi negli astanti, fate questo sforzo, per quanto difficile.

Avvinti da raggi di una luce che era tanto solida quanto può essere il più avvolgente degli abbracci, tanto liquida quanto il più limpido e profondo dei mari, calda e impalpabile, come il respiro di un innamorato, delicata eppure forte, sentivano trasportare le loro anime verso l’alto, in direzione del nucleo, del chiarissimo Mistero a cui tutto torna e che tutto crea.

Un canto di sovrannaturale purezza e bellezza accarezzava le loro orecchie, profumo di fiori sconosciuti penetrava nelle loro narici. Guardavano in basso e vedevano il verde di alberi rigogliosi e il blu di laghetti montani e i colori erano così vividi da ferire gli occhi; non si poteva dubitare che quello fosse altro se non il Paradiso.

La musica, continuava, impregnandosi di un nuovo carattere drammatico, dolente.

Avanzavano con fatica lungo tortuose salite di aspra roccia; un pesante fardello gravava loro sul petto; oberati da mille debiti nei confronti del prossimo, di Dio e della loro stessa anima, potevano appena intravedere la cima della montagna, tenera e invitante, come lo era stata poco prima, mentre venivano cullati dalla Luce come infanti dalle loro madri. Si sarebbero liberati, avrebbero espiati i loro peccati, con la fatica, con il dolore, nel fuoco, se necessario!

Nel fuoco, si, un fuoco che ruggiva in un lugubre controcanto con la splendida furia sonora del violino. Una devastante danza di demoni di fiamma, il dolore atroce, la distruzione totale, il caos, il venir meno di ogni certezza se non quella di voler fuggire.

“Basta!” Gridavano alla figura ritta sul palco. “Basta, fai cessare tutto questo, abbi pietà!”

Ma lui seguitava a suonare, in un’orgia orrenda di grida strazianti, velluto bruciato, legna arsa e metalli accartocciati, di fumo, di uscite bloccate.

Il fragore di un’esplosione spense gli ultimi gemiti.

Imperturbabile nella devastazione, le palpebre sollevate sulle orbite vuote, il violino stretto tra le mani scheletriche, l’Angelo della Musica, il Maestro, il Violinista Pallido, la Morte, contemplò il proprio capolavoro: l’immenso arazzo dell’Inferno arricchito di nuove anime dannate.

E la sua musica si levò ancora.

  
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Drammatico / Vai alla pagina dell'autore: Leverie