“Certo.”
“Se scopri i segreti di qualcuno e devi mantenerli, sei costretto a dirne anche tu.
Don't look away
Keep your eyes on her horizon.
Tori Amos
C’era solo una cosa di cui
Astoria Greengrass
aveva la certezza: sua sorella faceva sempre la cosa giusta. Si
trattava un
assunto universalmente ammesso sul quale lei mai aveva avuto da ridire
– del
resto era così evidente! Era Daphne la più
carina, Daphne a compiere ogni gesto
con più grazia, Daphne quella che prendeva i complimenti,
Daphne la preferita
della mamma.
Lei, invece, era solo la piccola
Astoria.
La povera piccola Astoria che deve ancora imparare come si fa. Come si
facesse cosa
esattamente, poi, Astoria non riusciva proprio a capirlo.
“Segui l’esempio
di Daphne,” le diceva la
mamma. “Lei sì che sa come ci si
comporta.”
Ma la cosa più irritante
era che tutto
ciò corrispondeva alla semplice verità. Daphne
riusciva sempre a stare al
centro dell’attenzione senza dare troppo
nell’occhio. Non le si smagliavano le
calze, non sudava mai troppo e i suoi capelli erano sempre
perfettamente in
ordine.
Come se non bastasse, in qualche
modo
riusciva sempre ad avere ragione.
Quando Astoria litigava con la
sorella,
finiva sempre per sentirsi una stupida mocciosa: Daphne conosceva i
suoi punti
deboli e regolarmente infieriva su quelli. L’accusava di
essere un peso per
lei, di minacciare di rovinare tutto il suo successo per essere
così patetica.
Astoria ogni volta avrebbe voluto
rispondere per le rime, ma non c’era verso che le parole le
uscissero di bocca:
il mento iniziava a tremarle furiosamente e tutti gli insulti le
restavano
incastrati in gola, mentre lacrime pungenti premevano per uscire. E
allora
Daphne rideva.
Sì, perché
Daphne era anche una perfida
egoista, viziata e maligna, solo che non ci credeva mai nessuno.
Astoria sospettava che Daphne avesse
tanti segreti, perché era una ragazza all’ultima
moda – e tutte le ragazze
all’ultima moda avevano tanti segreti. Doveva essere questo
alone di mistero
che circondava lei e le sue amiche a renderle così cool,
supponeva. Lei
non aveva mai provato a scoprire i segreti della sorella – un
po’ perché non le
interessavano, un po’ perché Daphne
l’avrebbe uccisa.
Non aveva mai provato a scoprire i
segreti
di Daphne perché lei non aveva mai accennato a
raccontargliene qualcuno, e
semplicemente Astoria era una che si faceva i fatti suoi... E proprio
per
questo era una sfigata, proprio per questo Daphne la considerava solo
una
patetica palla al piede.
Ma Astoria non ci poteva fare nulla
se
era fatta così.
A volte credeva di odiare Daphne, e
allora piangeva amare lacrime di rabbia. Poi però la sorella
le si avvicinava
con il più dolce dei sorrisi e l’abbracciava,
dicendole che la perdonava
per averla fatta tanto arrabbiare. E allora Astoria
si sentiva in colpa,
perché nessuno poteva odiare Daphne.
Mamma avrebbe detto che era
sbagliato se
mai fosse venuta a scoprirlo.
Essere odiati era per Astoria un
difetto,
e per universale assunto Daphne di difetti non ne aveva.
****
21:30
Astoria aveva mal di stomaco e
desiderava
essere ovunque tranne che a quella festa.
Neanche due ore prima aveva cercato
di
piantare una grana adolescenziale in piena regola – come
quelle che faceva
Daphne le rare volte in cui i genitori le proibivano di uscire
– ma la mamma
era riuscita chissà come a liquidare il tutto come un
capriccio infantile,
facendola sentire una mocciosa.
Lei detestava quelle occasioni
formali:
le mettevano addosso una tensione spaventosa. Aveva il terrore di dire
o fare
qualcosa di sbagliato o imbarazzante.
Di certo, avere addosso gli occhi
critici
di sua madre o quelli prettamente inquisitori di Daphne non aiutava.
Non aveva il coraggio di parlare di
queste cose con nessuno – o meglio, nessuno con cui sfogarsi.
Astoria abbassò lo
sguardo sul vestito
che indossava e poi posò gli occhi su quello di Daphne,
sentendosi prendere
dallo sconforto. Quando un paio di settimane prima l’aveva
scelto per sé le era
parso davvero un abito stupendo – di pizzo rosa chiaro,
così fine ed elegante!
Ma Daphne per quella sera aveva scelto un vestito nero davvero da
grande
e prevedibilmente Astoria aveva finito per sentirsi ancora
più stupida.
Nel salutarli – loro due,
la mamma e il
papà – gli altri ospiti avevano parlato a Daphne
come si fa fra adulti,
stringendole la mano e baciandole le guance, mentre ad Astoria avevano
riservato un buffetto sulla guancia e un’occhiata di tiepida
condiscendenza.
Era tutto così patetico che–
“La vuoi smettere di
vittimizzarti?”
Daphne sibilò improvvisamente al suo orecchio, facendola
sobbalzare.
Astoria deglutì
nervosamente. “I-io,
ecco...”
“Piantala di fare quella
faccia e pensare
che vada tutto male. Fai un bel sorriso, okay?”
Lei respirò bruscamente
prima di provare
a emettere una protesta. “Non sto facendo nessuna
fa–”
Daphne roteò gli occhi.
“Non mettermi in
imbarazzo, chiaro?” la mise in guardia fra i denti.
Astoria non aveva ancora fatto in
tempo a
comprendere appieno il significato della frase, quando una voce fin
troppo
familiare risuonò da qualche parte alla destra del gruppetto.
“Althea, mia cara! Che immenso
piacere vederti!”
Chi aveva salutato sua madre
rispondeva
al nome Elnora Parkinson, moglie di un noto impresario, finanziato
dalla banca
a capo della quale c’era il signor Greengrass,
papà di Astoria e Daphne. La
signora Parkinson era una florida donna sui quarantacinque anni dalla
voce
tonante, nei confronti della quale Astoria non provava simpatia, ma
neanche
astio. Se la sua voce era suonata spiacevole alle sue orecchie non era
tanto a
causa di Elnora, quanto piuttosto perché con lei ci sarebbe
stata–
“Pansy!”
Pur senza guardare la sorella,
Astoria
sapeva che il volto di Daphne doveva essersi aperto in un sorriso
gioioso e
sincero mentre si precipitava ad abbracciare l’amica.
Pansy Parkinson era
l’amica del cuore di
Daphne, quanto di più diverso dalla madre si potesse
immaginare. Mentre Elnora
era massiccia e imponente, Pansy era più minuta e
proporzionata. La sua voce
era stridula, il suo naso estremamente all’insù
ricordava vagamente il muso di
un carlino. Aveva uno sguardo sveglio e la lingua tagliente, e lei e
Daphne
sembravano quasi vivere in simbiosi fin da quando erano bambine. Da
piccola,
Astoria aveva paura di Pansy Parkinson e delle sue brucianti prese in
giro, e
strascichi di quella fobia infantile se li portava appresso anche ora:
non
poteva fare a meno di provare un poco d’inquietudine quando
Pansy era nei
paraggi. Sentiva di scattare sull’attenti, quasi in allerta
di una potenziale
minaccia.
Il che era molto stupido e patetico,
esattamente come tutto il resto.
Pansy salutò cortesemente
i genitori di
Daphne e Astoria, e solo infine si voltò verso
quest’ultima, sistemandosi una
ciocca dei capelli neri e lisci che portava tagliati
all’altezza del mento.
“Ciao, Astoria,”
le si rivolse in un tono
paziente e condiscendente che le fece bruciare le mani di rabbia.
“Ciao, Pansy.”
Astoria avrebbe voluto essere in
grado di
ignorare il modo in cui Pansy le aveva parlato, magari accostandosi a
lei con
naturalezza e salutandola come si salutano gli adulti.
Ma non ne era in grado, e guardando
l’audace abitino rosso della Parkinson si sentì
ancor più bambina. La cosa
dovette far capolino dalla sua espressione, poiché
– come Daphne non mancò di
sottolineare – “forse la prossima volta avrebbero
dovuto portarla con loro a
fare shopping”.
Astoria serrò gli occhi
per un istante, costringendosi a ignorarla.
22:10
Alla fine era uscita nel giardino.
Non ne
poteva più di stare in quella stanza piena di persone che
non conosceva o che
comunque parlavano di cose che non le interessavano affatto. Daphne si
era
defilata con grazia chissà dove – presumibilmente
a fumare o bere o qualunque
altra cosa fosse cool fare al solo scopo di
nasconderla agli adulti.
Le scarpe le facevano male ai piedi.
Astoria non era abituata a indossare i tacchi e neanche ci sapeva
camminare
tanto bene, cosa che le aveva fatto guadagnare parecchie occhiate di
biasimo da
parte di Daphne. In un impeto di ribellione, decise di togliersele,
incurante
del fatto che poi rimetterle sarebbe stato ancor più
doloroso.
Poteva anche non rimetterle, no?
Poteva
anche stare in quel giardino per sempre.
In equilibrio su un piede solo,
piegò la
gamba sinistra verso l’altro, e dopo qualche istante di stasi
in quella
posizione molto scomoda riuscì a slacciare la cinghietta del
sandalo. Se lo
sfilò in fretta e poggiò il piede a terra.
Inizialmente avvertì un dolore
lancinante al centro esatto della pianta del piede, che durò
alcuni istanti
prima di scomparire. A quel punto piegò la gamba destra e
liberò anche l’altro
piede da quegli arnesi infernali. Cautamente – le scarpe in
mano – mosse
qualche passo sull’erba umida, godendosi il senso di frescura
sotto i poveri
piedi martoriati.
Di umore migliore, prese a
passeggiare
per il parco di quella villa immensa, godendosi l’aria fresca
della notte e il
profumo dei fiori estivi. Era piacevole – tutto diventava
più piacevole per
Astoria quando si allontanava sufficientemente da Daphne o dalla mamma.
Decise che quel giardino era davvero
un
bel posto. Ai prati all’inglese si succedevano siepi ordinate
e aiuole di fiori
ben curati. Qua e là grossi alberi dalla larga chioma davano
rifugio con le
loro fronde a graziose panchine di pietra, mentre un viottolo chiaro
serpeggiava curioso per i prati bui.
Astoria si accorse improvvisamente
di
star cercando un nascondiglio. Voleva trovare un posto tranquillo e
sicuro nel
quale passare il tempo in attesa che la festa finisse.
Perché lei in quella
dannata sala non ci sarebbe tornata, né tantomeno avrebbe
sottoposto nuovamente
i propri piedi alla tortura di quelle scarpe infernali.
Forte di tale proposito, si decise a
esplorare accuratamente il giardino, alla ricerca di un luogo adatto.
Bocciò
all’istante le panchine sotto agli alberi – presto
sarebbero divenute il
rifugio di qualche giovane coppia, se la sua pur scarsa esperienza non
la
ingannava – e scelse di escludere a priori anche
l’acciambellarsi in mezzo alle
siepi, poiché dopotutto il suo vestito le piaceva e non
intendeva assolutamente
rovinarlo. Tanto più che sua madre si sarebbe arrabbiata
moltissimo vedendola
tornare con foglie o altre schifezze in mezzo ai capelli. Astoria
detestava i
propri capelli come detestava tutto di sé: erano troppo
sottili e di un colore
scialbo, e oltretutto tendevano a incresparsi sgradevolmente al primo
accenno
di umidità.
Pensò che non le
importava nulla. Pensò
che odiava tutti – forse era sbagliato, però,
forse era se stessa che doveva
odiare. Non lo sapeva.
Giunse nei pressi di una sorta di
padiglione di pietra, inondato dalla luce della luna. Ne descrisse il
perimetro
a piccoli passi, per scoprire che sul retro di esso il viottolo creava
un’ansa
nella quale sorgeva una piccola costruzione, che doveva probabilmente
costituire una sorta di rimessa per gli attrezzi di giardinaggio. A
giudicare
da quanto Astoria aveva visto, fra il padiglione e il magazzino
c’era uno
spazio di qualche metro, sufficientemente coperto dagli alberi. Sorrise
fra sé
e sé, certa di aver trovato il proprio nascondiglio.
Abbandonato il viottolo, si fece
strada
cautamente entro la cerchia di piante. Si stava ancora guardando
intorno quando
udì un sospiro che la fece sobbalzare. Deve
esserci una coppia che ha scelto
il mio stesso nascondiglio – pensò,
sentendosi arrossire e pregando Dio che
non l’avessero udita trattenere bruscamente il fiato.
Si accinse ad andarsene in gran
fretta,
ma poi qualcuno parlò.
“Dai, non ci
può vedere nessuno...”
Nel riconoscere la voce di Daphne,
Astoria si sentì gelare. Cogliere in flagrante sua sorella
con il rampollo di
qualche ricca famiglia era davvero l’ultima cosa che mai
avrebbe desiderato. Il
cuore le rimbalzava furiosamente contro la gabbia toracica, sentiva il
respiro
mozzarsi in gola.
Eppure, non riusciva ad andare via
di lì.
Una forza misteriosa teneva inchiodati i suoi piedi scalzi al suolo, e
fu la
medesima forza a spingerla a sollevare la testa e posare gli occhi
sulla
direzione dalla quale era giunta la voce di Daphne.
Sulle prime non notò
nulla di strano.
Erano solo due sagome abbracciate e carezzate dalla luna, erano solo
sospiri ed
echi di baci concreti – Astoria sentì per la prima
volta qualcosa di simile a
un sottile fuoco che le correva sotto la pelle, brividi prolungati che
le
percorsero la spina dorsale.
Poi si accorse che qualcosa non
andava.
Si accorse che entrambe le figure abbracciate portavano scarpe col
tacco e che
le gambe intrecciate a quelle di Daphne erano snelle e sottili come
quelle di
quest’ultima e che le braccia che circondavano la schiena di
sua sorella erano
troppo esili per appartenere a un ragazzo – e
infine che erano Daphne e
Pansy a toccarsi a vicenda in quel modo e a cercare continuamente le
labbra
l’una dell’altra.
Ancora una volta desiderò
andarsene e
ancora una volta scoprì di avere i piedi inchiodati al
suolo. Non riusciva a
distogliere lo sguardo da quelle carezze e quei sospiri, non riusciva a
non
ascoltare le voci di Pansy e Daphne che si sovrapponevano in un
sussurrare
sommesso.
Era come immobilizzata: la morsa che
le
stringeva la gola si era fatta ancora più serrata e la testa
le girava e tutto
andava al rovescio e tutto era sbagliato e tutto era
fottutamente
inaccettabile.
Vide le mani di Pansy scivolare
oltre le
spalle di sua sorella, vide le sue dita dalle corte unghie laccate
cercare la
zip del vestito e abbassarla lentamente e infine la schiena nuda di
Daphne
risplendere bianca alla luce della luna. I polpastrelli di Pansy
corsero ad
accarezzare il profilo della sua spina dorsale e la lieve curva che
conduceva
ai fianchi, mentre Daphne le si stringeva addosso ancor di
più e a propria volta
armeggiavano per liberarla di quel vestito rosso. Poi le mani di
quest’ultima
erano affondate nei capelli corti di Pansy, e Astoria la udì
sospirare
distintamente in
mezzo a tutti quei baci
quando l’altra le fece scivolare il vestito ancora
più giù – finché non furono
liberati anche i fianchi di Daphne ed esso cadde al suolo con un lieve
tonfo,
un mucchietto di stoffa nera ai piedi della ragazza, che se ne
liberò
scavalcandolo. Così facendo, però, si era
avvicinata a Pansy ulteriormente.
Quest’ultima ormai aveva la schiena poggiata contro il muro
della rimessa e non
esitò a stringere le dita attorno alla gamba di Daphne,
tirandola ancora di più
contro di sé, e poi–
Poi, fu come se Astoria avesse preso
improvvisamente consapevolezza della scena che si stava svolgendo
davanti ai
suoi occhi. Quella lì era sua sorella, e stava baciando
Pansy Parkinson come si
baciava un uomo. Stava baciando un’altra ragazza
come si baciava un
uomo.
Era lo spettacolo più
sensuale al quale
Astoria avesse mai assistito – non che avesse assistito poi a
molti spettacoli
sensuali nei suoi quindici anni di vita – ed era anche il
più doloroso, in
qualche modo desueto. Fu come se qualcosa dentro di lei
d’improvviso si fosse
spezzato, come se ogni sua consapevolezza fosse crollata e lei
cresciuta di
colpo.
Chiuse gli occhi con forza e li
spalancò
di nuovo, prima di defilarsi senza far rumore.
****
12:30
“Quindi uscirò
con Theodore, stasera.”
“Il figlio dei Nott, vero,
tesoro?”
“Sì, mamma. Lui
e Draco ci portano a cena da Gavroche e poi–”
“Ah, quindi ci
sarà anche Pansy!”
Daphne emise un sorriso zuccheroso.
“Naturalmente, mamma. Dovresti
vedere lei e Draco quanto sono carini assieme.”
“Una bella fortuna per i
Parkinson,” commentò Althea con un sospiro.
“I Malfoy sono una famiglia molto ricca.”
“Anche i Nott,
mamma!” scherzò Daphne, con un’allegria
che alle
orecchie di Astoria suonò vagamente forzata.
La mamma fece un risolino. Fecero
risolini assieme per almeno un paio
di minuti. Poi, finalmente, Althea parve accorgersi che anche la figlia
minore
era seduta in tavola con loro.
“Non mangi,
Astoria?” le domandò in tono premuroso.
“Non ho molta
fame,” mormorò lei, allontanando il piatto appena
toccato.
Erano giorni che non aveva appetito.
Inizialmente Daphne si era
complimentata con lei per l’evidentemente necessaria
“decisione di mettersi a
dieta”, ma poi quella presa in giro le era andata a noia e
non aveva più
espresso commenti in merito.
“Non ti senti
bene?” la incalzò la mamma.
Astoria si schiarì la
voce. “No. Cioè, sì. Sto bene. Solo...
non ho tanta
fame.”
“Si direbbe che tu non ne
abbia per niente,” buttò lì Daphne
nella sua
voce limpida.
Per una volta, sostenne il suo
sguardo. “Infatti,” disse. “È
così.
Posso alzarmi da tavola, mamma?”
“No, Astoria. Non
è buona educazione.”
Neanche Althea mangiò
molto, mentre Daphne spazzolò tutto senza
lasciarsi cadere addosso neanche una briciola. Questa era
un’altra delle
ingiuste fortune toccate in sorte a Daphne: le era stato destinato un
metabolismo sufficientemente veloce da permetterle di mangiare
qualsiasi cosa
volesse. Aveva preso dal loro papà, in quel senso.
Naturalmente, Astoria aveva preso
dalla mamma. Era una finta magra: i
polsi e le caviglie sottili riuscivano a dissimulare quel poco di
pancetta che
aveva e le cosce non proprio snellissime, ma doveva comunque stare
sempre un
po’ attenta a ciò che mangiava.
Quando Daphne ebbe finalmente
concluso il proprio pasto, Astoria fu
libera di alzarsi da tavola. Mentre percorreva il corridoio dalle
pareti verde
mela – ultima novità della stagione in fatto di
arredi alla moda – che
conduceva alla sua camera da letto, udì i passi della
sorella fare eco ai
propri. In pochi secondi, Daphne la raggiunse, diretta con ogni
probabilità
nella propria stanza. Sentendosi braccata, Astoria si voltò
di scatto.
“Ehi, che ti
prende?” le chiese la maggiore, stupita da un gesto tanto
repentino.
Astoria avrebbe voluto rispondere
che non le prendeva niente, che ogni
cosa era nella norma. Ma non riuscì a mentire –
non ne era in grado.
“Theodore Nott,
Daphne?” si ritrovò invece a mormorare, sbirciando
la
sorella di sottecchi.
L’altra inarcò
le sopracciglia, il volto dipinto di genuino stupore.
“Perché, cos’ha Theodore che non
va?”
Astoria sollevò la testa,
fissando per una volta Daphne dritto negli
occhi. Era serissima, e l’altra parve accorgersene,
poiché aggrottò le
sopracciglia con espressione sempre più perplessa
– le sopracciglia di Daphne parlavano,
a volte. La minore deglutì.
“Non so,”
respirò bruscamente. “È un maschio,
forse?”
Il cambio di espressione sul volto
dell’altra fu lampante. Daphne
parve dapprima sbalordita, poi atterrita. Boccheggiò per
alcuni istanti.
Astoria la guardò con
rimprovero ancora una volta, prima di voltarsi,
decisa a raggiungere la propria stanza. Tuttavia, prima che potesse
muovere anche
solo un passo, sentì una mano artigliarle con forza la
spalla, costringendola a
voltarsi e quasi facendola cadere.
“Ahia, Daphne!”
protestò. “Mi hai fatto male!”
“Che cosa sai?”
ringhiò Daphne, afferrando la sorella minore per le
spalle e scuotendola forte.
“Lasciami!”
“Che cosa sai?!”
insisté l’altra quasi gridando, fuori di
sé.
“So tutto!”
ribatté Astoria, divincolandosi. “So di te e
Pansy, so che
voi... che voi...”
Lentamente, Daphne la
lasciò andare, ma non accennò ad allontanarsi.
“Che noi?” la
sfidò. “Continua.” Non le
lasciò il tempo di rispondere,
prima di afferrarla per il colletto e sibilare irata a pochi centimetri
dal suo
volto. “Come l’hai saputo,
Astoria?”
La minore boccheggiò, e
Daphne artigliò con più violenza il bavero
della sua camicetta, sgualcendolo.
“Astoria, ho detto come
l’hai saputo?”
“Vi ho viste!”
sbottò Astoria. “Vi ho viste alla festa dei
Warrington,
mentre–”
Gli occhi di Daphne si
assottigliarono pericolosamente. “Ci hai
spiate?” la aggredì, scuotendo la sorella minore
al punto di farle sbattere
dolorosamente la schiena contro la parete. “Dimmelo, ci hai
spiate?!”
“Non vi ho
spiate,” tentò di giustificarsi lei, quasi
impaurita.
“Stavo solo–”
“Tu non puoi
capire!” il volto di Daphne era una maschera d’ira.
“Come
ti sei permessa di–”
“È una cosa
malata!” sibilò Astoria, interrompendo la sorella
forse
per la prima volta in tutta la sua vita e per nulla convinta di quanto
stava
dicendo. “Quello che fate è sbagliato! N-non
è così che dovrebbe andare. È
disgustoso.”
L’espressione di Daphne
vacillò. La fissò per alcuni istanti, mentre
un’aria sorprendentemente ferita andava
dipingendosi nei suoi occhi
chiari.
Lentamente, la lasciò
andare.
“Molto bene,”
sibilò, evitando di guardarla. “Se è
questo che
pensi...”
Si voltò quasi con
circospezione, prima di scomparire rapidamente
oltre la porta della sua stanza, che si chiuse sbattendo dietro di lei.
Astoria rimase per qualche minuto
immobile lì dove si trovava,
ammaccata e dolorante.
C’era qualcosa di
sbagliato, davvero. Era del tutto inaccettabile che
Daphne fosse di una perfezione tanto bugiarda.
Si rese conto di non credere
minimamente a quanto detto alla sorella.
Il problema non era tanto che Pansy fosse una ragazza.
Il problema era che Daphne fosse
costretta a tenerlo nascosto.
01:45
Astoria non riusciva a dormire. Ci
provava da ore, rivoltandosi in
continuazione del suo letto, alla disperata ricerca di un punto comodo
del
materasso. Aveva gettato via le coperte, ma il solo lenzuolo le
sembrava
comunque bollente e ingombrante nella notte estiva. Tuttavia, non aveva
affatto
voglia di liberarsene: l’idea di dormire senza niente che la
coprisse oltre al
pigiama la faceva sentire in qualche modo debole, esposta.
In realtà sapeva
perfettamente cosa le stesse impedendo di
prender sonno, solo che non trovava la forza di ammetterlo.
Non sarebbe riuscita ad
addormentarsi finché non avrebbe sentito
Daphne rientrare – ne era tristemente consapevole.
Si rigirò sul fianco
destro, immaginando come si fosse potuta svolgere
la serata della sorella maggiore. Si figurò lei e Pansy
sedute da Gavroche a
farsi offrire la cena da Theodore Nott e Draco Malfoy. L’una
accanto all’altra,
a fingere di provare interesse per la barbina conversazione dei due
ragazzi,
magari segretamente intente a sfiorarsi i piedi con circospezione sotto
al
piano del tavolo, agli occhi inconsapevoli del mondo che le circondava.
Forse
si tenevano per mano di nascosto.
Da che Astoria ricordasse, Daphne e
Pansy avevano sempre avuto un loro
modo speciale di isolarsi, chiudersi in un bozzolo privato che nessuno
poteva
assediare. Erano in grado di creare un piccolo mondo tutto per loro,
una bolla
di felicità nella quale non esisteva null’altro
che loro due.
Adesso, tuttavia, Astoria
comprendeva che quel rifugio sicuro celava
ben altro che una semplice amicizia. Questo le faceva paura. Le
sembrava un
imbroglio bello e buono, una colossale beffa con la quale Daphne e
Pansy erano
riuscite a prendersi gioco di tutti.
Non avrebbero migliorato le cose,
con tutte quelle bugie. Di questo
era certa.
Aveva sempre saputo che Daphne
doveva con ogni probabilità avere tanti
segreti. Se c’era qualcosa che aveva imparato, era che le
verità nascoste non
passavano mai davvero di moda. Solo che non si sarebbe mai aspettata
uno
scheletro nell’armadio di tale portata, insomma. Chi mai
l’avrebbe potuto
prevedere?
Si soffermò ancora sul
ricordo di Daphne e Pansy che si toccavano e
cercavano le labbra l’una dell’altra. Rivide la
schiena bianca della sorella,
mentre riluceva candida al chiarore lunare, il profilo di essa
tracciato dalle
mani di Pansy, le cui unghie corte scintillavano come piccole gocce di
sangue
sopra un manto di neve.
Al pensiero, lo stomaco di Astoria
si strinse dolorosamente. Le parve
di sentire i loro sospiri, e di nuovo quel misterioso brivido
sottopelle le
percorse la schiena. Si voltò supina, tentando di scacciarlo
via.
Era come se l’immagine di
Daphne e Pansy che si toccavano le desse
ripulsione ma al tempo stesso in qualche modo la attraesse... e
quest’ultima
era chiaramente una cosa sbagliata, una cosa da pulire via. Ma come
poteva
Daphne avere qualcosa di sbagliato, dacché per universale
assunto di difetti
non ne aveva?
A quel punto erano solo due le
soluzioni possibili. La prima era che
la faccenda non fosse poi così sbagliata,
ma Astoria se ne sentiva
calamitata in una maniera troppo torbida e sconvolgente per riuscire a
liquidare la questione come innocua. La seconda, tuttavia, riusciva in
un certo
senso a scombussolarla ancora di più. Prendere in
considerazione l’idea che
alla fine Daphne non fosse così perfetta equivaleva in un
certo senso a
capovolgere il suo mondo, strappando una delle colonne sulle quali era
sempre
stato costruito.
Una colonna era la perfezione di
Daphne, l’altra la garanzia materna
di un giudizio severo.
Tuttavia – più
Astoria ci rifletteva più ne era convinta – la sua
doppia conclusione faceva acqua da tutte le parti, poiché
Daphne non poteva
essere perfetta in nessun modo: nel primo negava una parte di se
stessa, nel
secondo faceva qualcosa di sbagliato a priori.
Però anche il modo in cui
girava il mondo aveva qualcosa di sbagliato,
ne era certa.
Astoria adesso sentiva di odiare
più di ogni altra cosa quel che di
sbagliato e tutte quelle bugie, anche se sua sorella veniva subito dopo.
Si era appena rigirata sulla pancia
quando il lieve scatto della porta
d’ingresso catturò la sua attenzione, quasi
immediatamente seguito dai passi
furtivi di qualcuno che percorreva il corridoio.
Si sono tolte i tacchi, pensò Astoria,
perché le persone che si muovevano fra le stanze buie
erano senza dubbio due.
Quando sentì la porta
della stanza di Daphne chiudersi piano, respirò
bruscamente, rendendosi conto di aver trattenuto il fiato fino a quel
momento,
quasi temendo che Pansy e sua sorella si accorgessero del fatto che
ancora non
dormiva.
Qualche volta le aveva invidiate, in
passato. Avrebbe voluto avere
anche lei un’amica del cuore con cui dormire. Avrebbe voluto
tante cose che
Daphne possedeva e che lei invece poteva solo sognare.
Adesso non capiva più se
invidiare o meno la sorella: lei non sarebbe
stata capace di vivere in un mondo fitto di bugie come quello di
Daphne. Lei
era solo Astoria, quella senza segreti. E se non avesse saputo che
Daphne era
perfetta per universale assunto, beh... avrebbe detto che era meglio
così.
Ma Daphne era a
conti fatti perfetta per universale assunto. O
meglio, lo era la sua apparenza, la facciata che mostrava al mondo. E
la cosa
che ad Astoria faceva più rabbia era quanto fosse diversa la
Daphne privata –
in parte segreta persino a lei che era sua sorella! –
rispetto alla Daphne
apparente.
La Daphne apparente usciva con
Theodore Nott ed era la giovane stella
dell’alta società. La Daphne privata era piena di
segreti e se la faceva con la
sua migliore amica.
Astoria non avrebbe saputo dire
quale fosse meglio fra le due. Ma il
problema della seconda Daphne non era certo che se la facesse con la
sua
migliore amica.
Forse la confusione derivava dal
fatto che lei e la sorella erano di
indole profondamente diversa, per questo non riusciva a mettersi nei
suoi
panni. Riusciva solo a pensare che se un segreto così grosso
l’avesse
riguardata in prima persona, beh... non sarebbe mai stata in grado di
tenerlo
nascosto a lungo, né di mettere su tutti quei sotterfugi.
Si voltò sul fianco e
udì una risatina sommessa provenire dalla stanza
di Daphne.
Quasi senza rendersene conto, si
alzò in piedi accanto al letto,
circondata dalle strane angolazioni scure dei mobili, nella penombra
dei suoi
occhi ormai abituati alla notte. Silenziosamente uscì in
corridoio, per poi percorrerlo
a passi felpati fino alla porta della camera da letto della sorella
maggiore.
Non ebbe il coraggio di guardare dal
buco della serratura, anche
perché a dire il vero era sicura che la chiave fosse nella
toppa. Si limitò a
lasciarsi scivolare raggomitolata in terra, spiando dalla fessura alla
base
della porta.
La luce era accesa, e sul pavimento
si potevano intravedere le ombre
allungate di Daphne e Pansy. Erano vicinissime, e nella penombra
parevano fatte
di un corpo solo.
Astoria osservò il
movimento delle sagome scure ancora per qualche
istante, come ipnotizzata. Poi si costrinse a serrare le palpebre e si
alzò
cautamente in piedi, avanzando a tentoni fino a tornare in fretta alla
propria
stanza, senza aprire gli occhi.
Quando si stese di nuovo nel proprio
letto, una lacrima le stava
percorrendo placida la guancia sinistra, quasi intimidita dal dolore
lancinante
che le stava incidendo il petto.
****
11:30
Si svegliò di
soprassalto, avvolta da sudori freddi. Non aprì gli
occhi, lasciando che le immagini del sogno terminato tanto bruscamente
scolorissero lentamente dietro le sue palpebre, fino a scomparire. Dovevano
scomparire.
Aveva sognato quel nascondiglio
perfetto nel parco di Villa
Warrington. Si avvicinava di soppiatto al luogo riparato, quasi vivendo
nuovamente il momento in cui, settimane prima, aveva colto in flagrante
Daphne
e Pansy. Tuttavia, una volta raggiunto il posto giusto, era stato come
se il
mondo si fosse capovolto una volta ancora: improvvisamente era lei che
sussurrava all’orecchio di Pansy, era lei che la baciava e
insinuava le mani
sotto il suo vestito. Poi però aveva guardato in basso e si
era accorta di
essere in un corpo diverso dal proprio. I capelli che le piovevano
sulle spalle
erano biondi, non castani, ed era più alta, più
snella, più matura.
Lei era Daphne.
A quel punto si era svegliata di
soprassalto, il cuore che le batteva
a mille.
Cercando di soffocare le immagini
del sogno – doveva farle scomparire
prima di avere il tempo di soffermarcisi troppo – finalmente
aprì gli occhi. Le
lenzuola erano rigate dalla luce del sole che si insinuava nelle
fessure delle
tapparelle: si chiese che ore fossero. Con quello che le parve un
immenso
sforzo, allungò un braccio oltre la sponda del letto e
afferrò il suo orologio
di lusso, abbandonato sul comodino la sera precedente. Segnava le
undici e
trenta: aveva dormito parecchio.
Si chiese perché Althea
non l’avesse svegliata. Sua madre non era il
tipo da permettere alle figlie di poltrire troppo a lungo sotto le
coperte,
quando la giornata si poteva impiegare in mille modi per acquistare
notorietà
nella società inglese. Era una cosa che Astoria
malsopportava: ultimamente si
stava rendendo conto con una certa costernazione di quante cose
riuscissero a farla imbestialire. Andavano a formare una lista
spaventosamente
lunga.
Quel sogno, ad esempio, era
davvero–
No, Astoria. Non pensarci. Non sta
bene.
Non sta bene non sta bene non sta
bene.
Si ripeté in testa le
parole tanto spesso pronunciate da sua madre
come un mantra, finché i suoi pensieri non si confusero in
una litania
indistinta. A quel punto, tentò di costringere la propria
mente a tacere, e
quella le mostrò in risposta un’immagine del
sogno, come il fotogramma di un
film.
Ma era lei quella che baciava Pansy?
Oppure era Daphne?
Presumibilmente,
rifletté, il fatto che avesse sognato di essere al
posto di Daphne era dovuto semplicemente all’invidia che
aveva sempre provato
nei suoi confronti. Tutti invidiavano Daphne, ma nessuno poteva
odiarla: era un
dato di fatto come la sua presunta perfezione.
Ma anche io? Anche io invidio Daphne?
Aveva creduto di non invidiarla
più. Aveva creduto che vivere in un
mondo intessuto di bugie sarebbe per lei equivalso a una condanna. Ma
per
Daphne? Quella situazione le era ostica quanto si sarebbe di certo
rivelata per
Astoria?
Ancora una volta, si
ripeté che, si fosse trattato di lei, non avrebbe
tenuto nascosta la propria relazione. Era un pensiero che le faceva
paura –
quasi quanto le faceva paura l’idea di poter provare le
stesse cose – ma sentiva
in qualche punto dalle parti del proprio stomaco che quella era la
verità.
Sarebbe dovuto essere
così anche per Daphne: la sorella non avrebbe
dovuto scegliere la strada più comoda. Improvvisamente,
capì perché faticava a
mentire: detestava le bugie e gli imbrogli.
Non aveva segreti perché
li odiava. E odiava Daphne perché adesso la
costringeva ad averne.
Era lecito odiare Daphne, adesso che
non era più perfetta. Se solo non
avesse fatto così male.
****
12:35
Non riusciva neanche a guardarla in
faccia. Non sopportava il sedersi
accanto a lei a tavola e ascoltare tutte le sue bugie. Aveva scoperto
quanto
tacere la verità fosse più facile di mentire, ma
sapeva che prima o poi Daphne
l’avrebbe costretta anche a pronunciare bugie. Temeva quel
momento perché aveva
paura che si sarebbe rivelato anche troppo facile.
“Tori,” disse la
maggiore improvvisamente. “Più tardi usciamo. A
fare
shopping.”
Sbattè un paio di volte
le palpebre, incredula. “Io e te?!”
se
ne uscì prima di riuscire a trattenersi.
Daphne inarcò le
sopracciglia in modo significativo.
“Sì,” annuì,
placida, giocherellando con il tovagliolo e tenendo le palpebre
abbassate. Gli
zigomi erano orlati dalle ombre zigrinate delle sue ciglia e il volto
disteso,
apparentemente rilassato. “Io e te.”
Sollevò gli occhi su Astoria,
trafiggendola con un’occhiata penetrante.
Lei respirò bruscamente.
“Va bene,” acconsentì, sostenendo lo
sguardo
della sorella.
Althea batté le mani,
entusiasta. “Oh, è così carino che
facciate
qualcosa assieme, una volta tanto! Hai avuto proprio una splendida
idea, tesoro
di mamma.” Accarezzò la testa bionda di Daphne,
che accennò un sorrisetto
distratto.
Astoria notò che aveva
appena piluccato dal proprio piatto.
Probabilmente qualcosa la rendeva nervosa.
Sono io, realizzò. Io
la rendo nervosa.
Solo in quel momento si accorse che
essere a conoscenza della
relazione fra Daphne e Pansy le conferiva un non trascurabile potere
sulla
sorella maggiore. Sapeva che non sarebbe mai stata in grado di
sfruttare
appieno quel vantaggio, ma scoprì con vago stupore di non
esserne poi così
dispiaciuta.
Si preparò per l'uscita
con Daphne con un più tranquillità di quanto
non si sarebbe aspettata.
Vagamente in trepidazione, si
vestì a casaccio, con la consapevolezza
che a Daphne avrebbe dato fastidio. La sorella infatti
studiò la sua mise con
un sopracciglio inarcato, ma non fece commenti.
L'autista di famiglia le condusse in
automobile fino al centro
commerciale, dove sarebbe tornato a recuperarle tre ore più
tardi.
Il pomeriggio trascorse fin troppo
lentamente, goccia a goccia:
Astoria non acquistò nulla per sé, mentre Daphne
dopo neanche un'ora aveva già
tre buste di grandi marche appese al braccio, tutte stracolme di
vestiti che
neanche le servivano davvero. Nel frattempo Astoria la studiava con
circospezione, in smaniosa attesa del momento in cui la maggiore si
sarebbe
decisa a pronunciare il suo discorso, poiché di certo ne
aveva in serbo uno.
Il momento giunse mentre si
trovavano nei camerini dell'ennesimo
negozio. La tenda dietro la quale Daphne si stava cambiando si
scostò di colpo,
e apparve lei in un abitino di cotone stretto in vita, con un'ampia
scollatura
a cuore. Era a strisce. Bianche e rosse. Quando Astoria vide tutta
quella pelle
scoperta, come prima cosa si chiese quanta Pansy ne
avesse toccata.
Sentì di arrossire e
distolse in fretta lo sguardo, mentre le immagini
del suo sogno si facevano strada prepotentemente nella sua testa
– le immagini
in cui era lei ad essere toccata da Pansy al posto
della sorella.
Non che le piacesse Pansy. Lei detestava
Pansy.
Ma poi, a lei neanche piacevano le
ragazze. Insomma, non si era mai
sentita attratta da nessuna ragazza, tranne per–
"So a cosa stai pensando."
Immersa com'era nei propri pensieri,
Astoria sobbalzò. "Ah,
sì?" ribatté, tentando di soffocare il tremolio
della sua voce. Doveva
esservi riuscita, per una volta, perché Daphne non parve
accorgersene. Si
limitò a guardarla fisso, stringendo appena le labbra, su
quel volto che privo
dell'usuale espressione beffarda sembrava tremendamente fragile.
Astoria notò
che era dimagrita, perché gli occhi sembravano
più grandi e persi e le guance
erano un poco scavate. Il correttore non riusciva a nascondere
completamente le
sue occhiaie.
Daphne si pose davanti allo
specchio, scrutando il proprio riflesso
indosso quel vestito. Si aggiustò la gonna,
regolò una spallina. Ma sembrava
distratta, come se non stesse prestando particolare attenzione a
ciò che stava
facendo. Anche Astoria guardava il riflesso della sorella, e i loro
occhi si
incrociarono nello specchio. Avevano occhi identici: stesso taglio,
stesso
colore – un azzurro pallido e slavato – e anche la
forma delle sopracciglia era
la stessa, sebbene quelle di Daphne fossero più chiare. Le
due sorelle avevano
anche la stessa forma del viso e un naso simile, ma la loro somiglianza
finiva
lì.
“È per quello
che hai detto l’altra volta,” buttò
lì Daphne.
“A cosa ti
riferisci?” Astoria si stupì di quanto suonasse
dura la
propria voce. “Di cose ne ho dette parecchie, mi
sembra.”
“Hai detto che
è una cosa malata. Hai detto che è disgustoso,
che è
sbagliato, che non dovrebbe andare così.”
Si sentì improvvisamente
in colpa per aver detto tutte quelle cose.
Era stata spinta dalla rabbia, dalla confusione, ma si rendeva conto di
quanto
le sue parole fossero stata ingiuste e, soprattutto, ingiustificabili.
“Mi dispiace molto di aver
detto quelle cose, Daphne,” mormorò,
colpevole. “È stato davvero... imperdonabile da
parte mia. Non... non credo di
pensarle davvero.”
La sorella la guardò
freddamente. “Beh, almeno te ne rendi conto,”
commentò in tono sprezzante, e Astoria improvvisamente
comprese il perché
del modo in cui le si era rivolta.
“Io non ti ho
giudicata,” si affrettò a dire. “E
neanche ho giudicato
le tue azioni o quelle di Pansy.”
“Lasciala
fuori,” disse Daphne fra i denti.
“Come?”
“Lascia fuori Pansy da
questa storia.”
Dopo qualche istante di silenzio,
Astoria annuì. “Va bene,” disse.
“La
lascerò fuori. E comunque non ti ho giudicata.”
“A me sembra che tu abbia fatto proprio questo,”
replicò Daphne amaramente.
Astoria ci pensò su per
qualche secondo. “In effetti ti ho giudicata,”
concluse infine. “Ma non per quello che credi... non per
quello che credevo
io.”
Daphne aggrottò le
sopracciglia bionde. “Di cosa stai parlando?” le
chiese, voltando le spalle allo specchio per guardarla in faccia.
Astoria sostenne il suo sguardo.
“Perché lo tieni nascosto?”
Dopo alcuni istanti in cui sui volto di Daphne si dipinse una certa
perplessità, la ragazza scoppiò in una risata
amara. “Perché lo tengo
nascosto?” ripeté in tono di scherno.
“Perché lo tengo nascosto?”
Astoria non abbassò gli
occhi. Improvvisamente, seppe che quel tono di
scherno era solo l’ennesima maschera. Probabilmente–
“Secondo te
perché lo tengo nascosto, Astoria?”
Probabilmente si esprimeva in quel
tono per evitare di far trasparire
anche solo una scheggia di ciò che provava realmente.
“Perché sei
terrorizzata, Daphne,” mormorò.
“Perché hai una paura
folle di uscire allo scoperto e di essere giudicata. Hai paura di
leggere negli
occhi delle persone cose brutte quando solo un giorno prima leggevi
cose belle.
E ti... ti vergogni, anche. Un po’. Perché hai
anche paura che sia sbagliato
davvero, insomma. E una parte di te continua a dirti che non dovrebbe
andare
così.”
Daphne strinse le labbra. “Complimenti per la psicoanalisi,
sorellina,”
replicò, beffarda.
“Ma se tu stessa non
riesci ad accettarti, come puoi–”
“Non
c’è niente da
accettare.”
“Ma–”
“Non ne parleremo
più. Non ne parlare con nessuno. Dimentica, okay?
Dimentica tutto.”
Ma Astoria non poteva dimenticare.
Astoria odiava dire bugie, ma
Daphne l’avrebbe nuovamente costretta a dirne.
“Ti odio,”
sbottò.
Daphne la fissò.
“Finalmente l’hai ammesso,” disse
freddamente.
“Questo vestito mi fa schifo,” aggiunse, prima di
voltarsi con un movimento
brusco e scomparire di nuovo oltre la tenda.
“A me fa schifo questa
situazione!” esplose Astoria a voce
sufficientemente alta affinché la sorella la udisse anche da
dietro quella
tenda. “Non sopporto che tu mi costringa a dire bugie! Ti fai
del male se
continui a negare te stessa, capito?”
“Non fingere che il tuo
sia altruismo, Tori! La verità è che pensi
solo a te stessa e a quanto la tua vita sia miserabile e noiosa. Sai
solo
compiangerti.”
Improvvisamente, Astoria
sentì le lacrime premere contro gli occhi.
“Ti odio,” ripeté tra i denti.
“Solo perché ti
sto dicendo la verità,” la rimbeccò
Daphne emergendo
dal camerino, di nuovo indosso i suoi jeans attillati e le ballerine di
Prada.
“Sei capace di dire la
verità solo sugli altri,” mugugnò
Astoria di
rimando.
Daphne parve accigliata, ma poi
distese i lineamenti e incurvò le
labbra in un sorrisino che non sfiorò gli occhi.
“Andiamo, Tori,” le disse in
tono indifferente, troppo indifferente. “Ci aspetta ancora
un’ora di shopping.”
“Ti odio,” disse Astoria per la terza volta, in un
sussurro appena udibile.
Daphne non diede segno di aver
sentito le sue parole.
****
19:25
Astoria si fermò di
colpo, poggiando le mani sulle ginocchia. Aveva il
fiatone per la corsa, i capelli che le sfioravano la fronte erano
madidi di sudore.
Si accorse di avere una gran sete, quindi si tirò su e si
guardò attorno, senza
avere la minima idea di dove si trovasse e, d’altra parte,
con un’idea fin
troppo chiara di come ci fosse arrivata.
La bomba era scoppiata due ore
prima. Erano in salotto a vedere la
televisione – lei, la mamma e Daphne – e Althea
aveva iniziato a parlare di una
grande festa cui avrebbero dovuto presenziare un paio di settimane
più tardi.
“Ci sarà anche
vostro padre,” aveva annunciato in tono trepidante.
“Tornerà prima del previsto dal suo viaggio in
Cina proprio per questo.”
“Che grande
onore,” aveva commentato Astoria in tono sarcastico, prima
di riuscire a trattenersi.
Althea aveva fissato lo sguardo su
di lei. “Che cosa hai detto,
Astoria?” l’aveva interpellata in tono severo.
Nulla, aveva pensato
lei, ma chissà perché quella parola si era
rifiutata di uscirle di bocca. “Ho
detto che è un grande onore,” aveva ripetuto con
voce piatta.
Gli occhi di sua madre si erano
assottigliati. “Insomma, Astoria!”
l’aveva sgridata. “Tuo padre fa quello che fa solo
ed esclusivamente per noi.”
“Come se non fossimo
già ricchi abbastanza,” aveva mugugnato lei di
rimando. Poi aveva sollevato lo sguardo su Althea, e in un impeto di
sfida
aveva detto: “Io a quel party non ci vengo.”
“Oh, tu ci vieni
eccome!” aveva ribattuto la madre, sostenendo il suo
sguardo.
Gli occhi di Daphne si spostavano
dall’una all’altra, ma lei non
diceva nulla.
“Non puoi
costringermi,” era stata la replica di Astoria.
“Tori...” aveva
iniziato Daphne, ma si era interrotta quando Astoria
si era voltata di scatto verso di lei, impressa sul volto
un’espressione
inviperita.
“Non venire proprio tu
a dirmi quello che devo fare, Daphne,”
aveva sibilato.
Althea aveva colto la palla al
balzo, ergendosi in difesa della maggiore
delle proprie figlie. “Non rivolgerti così a tua
sorella!” le aveva intimato.
“Daphne fa sempre molto per la nostra famiglia. È
grazie a lei che i Nott...”
“Che cosa?!”
Astoria aveva boccheggiato, esterrefatta.
“Per chi credi che io esca con Theodore Nott?”
aveva detto Daphne con voce
atona, e alle orecchie di Astoria era suonato simile a una confessione.
Improvvisamente, aveva compreso
quale fosse il vero fulcro dei terrori
della sorella: aveva paura di deludere Althea. Era terrificata anche
solo al
pensiero di vedere riflesso nei suoi occhi un qualunque segno di
biasimo.
Non doveva essere stato facile per
lei avere così tante aspettative
sopra la testa. Se Althea le suggeriva – probabilmente
buttandola sul vago, era
una maestra in questo – di uscire con Theodore Nott, lei ci
usciva. E la cosa
peggiore era la convinzione della mamma che tutto ciò fosse
per il bene di
Daphne.
Quasi prima di rendersene conto,
Astoria era scattata in piedi. “Che
cosa le hai fatto?! Che cosa hai fatto a Daphne?!”
Althea aveva sgranato gli occhi, con
aria quasi spaventata. “Astoria,
io...”
“Non chiamarmi Astoria!
Odio questo stupido nome!”
“D’accordo,
ma–”
“Non puoi manipolare la
sua vita! Credi di fare il suo bene, ma la
rovini! La costringi a–”
“Tori...”
“Così non
potrà mai–”
“Tori, basta!”
“Tu...” ma il
grido di Daphne aveva raggiunto il suo cervello e la
voce le si era spenta in gola. Si era voltata verso la sorella e aveva
scoperto
che i suoi occhi erano colmi di lacrime. Anche i propri occhi lo erano.
Nel
silenzio grave che si era creato, aveva dunque posato lo sguardo su
Althea, per
scoprirla impallidita e tremolante.
Sembra un vecchio budino, si era ritrovata a pensare
stupidamente.
Senza dire altre parole, si era
voltata ed era scappata via di corsa,
spingendo via i domestici che avevano tentato di trattenerla e
ignorando le
urla di Daphne e di sua madre. Aveva corso finché le era
rimasto il fiato, a
casaccio per le vie di Londra, le lacrime che le scorrevano sul viso.
Quando la sua resistenza era giunta
al limite, si era lasciata cadere
su una panchina ed era scoppiata in un pianto disperato, ignorando i
passanti
che le scoccavano occhiate incuriosite. Quindi si era alzata e aveva
ripreso a
correre.
Si sentiva così stupida,
così maledettamente stupida... e così
arrabbiata.
Fu questo che pensò
quando si ritrovò in quel luogo che non le era
affatto familiare, circondato da gente sconosciuta.
Probabilmente, il suo aspetto doveva
essere stravolto. La coda alta in
cui erano raccolti i suoi capelli quando era uscita di casa adesso
doveva
essere tutta arruffata, e le ciocche che vi erano sfuggite dovevano
essere
scarmigliate e madide di sudore. Senza dubbio le sue guance erano
arrossate,
gli occhi gonfi di pianto. Come se non fosse bastato, si sentiva
fisicamente
stremata, con i muscoli tutti indolenziti. Le facevano male i piedi,
nonostante
fossero rinchiusi in costose scarpe da ginnastica.
Ah, già. Le scarpe.
Dovevano essere distrutte.
Abbassò lo sguardo per
appurare la faccenda e scoprì di non essersi
sbagliata riguardo allo stato delle sue calzature.
Althea si sarebbe infuriata,
probabilmente. Scoprì che non le
importava nulla, anzi: la cosa le procurava un fremito di esaltazione.
Si guardò ancora una
volta intorno. La gente sconosciuta che le
passava di fianco la guardava con aria strana, e la cosa
chissà per quale
motivo le procurò una certa ilarità.
Scoppiò a ridere come una perfetta idiota,
lì in mezzo al marciapiede, mentre scioglieva i capelli,
tentava di riordinarli
con le dita a pettine e rifaceva la coda da capo. Quindi chiuse la zip
della
grossa felpa che indossava, visto che cominciava ad avere la pelle
d’oca
all’altezza dello sterno – e anche sulla porzione
di caviglia scoperta fra i
fuseaux e i calzini; fatto ciò, fletté la gamba
destra e poi la sinistra, ed
entrambe le volte udì scrocchiare l’articolazione
del ginocchio.
Si sentiva addosso una gran fame.
Ormai doveva essere l’ora di cena.
Rifletté per un istante sul da farsi, quindi decise di
cercare un locale – i
negozi dovevano ormai essere chiusi – e chiedere qualche
indicazione per sapere
dove si trovava. E magari – al pensiero le si strinse il
cuore – di usare il
telefono per chiamare l’autista di famiglia e farsi venire a
prendere.
Forte di questa risoluzione, si
incamminò lungo la strada alla ricerca
di un bar o di un locale in cui chiedere indicazioni riguardo a dove si
trovasse.
Entrò nel primo pub che
incontrò sulla propria strada, all’angolo
della via che stava percorrendo. Si fece strada tranquillamente nel
locale,
dirigendosi senza esitare verso il bancone e ignorando i clienti seduti
ai
piccoli tavoli scuri, che la guardavano straniti.
Scoprì che non le
importava affatto. Si sentiva forte, spavalda.
Pronta a tutto. Viva.
“Buonasera,”
disse. “Potrei sapere dove mi trovo di preciso?”
La ragazza dietro al bancone fece un
sorrisetto. “Al Fiddle Inn.”
Aveva capelli di un rosso fiammante,
raccolti in cima alla testa in un
nodo sommario. Era di corporatura minuta e anche tutto il suo volto
coperto di
lentiggini era piccino e grazioso, con una piccola bocca incurvata in
quel
sorriso e gli occhi castani e vispi.
Astoria emise un piccolo sbuffo.
“Non intendevo il nome del pub.”
“Ah.” La giovane barista parve divertita. Neanche
si sforzava di non darlo a
vedere. “A Soho¹.”
Astoria spalancò gli
occhi, sbigottita. Davvero aveva corso fino a
Soho, a due quartieri di distanza?
La barista smise di sorridere e le
scoccò un’occhiata indagatrice.
“Perché, dove vivi?”
“A South
Kensington,” le uscì in un soffio.
L’altra sollevò
le sopracciglia. “South Kensington?”
ripeté. “Allora
sei una di lusso.”
“Non sono una di
lusso,” ribatté Astoria quasi distrattamente.
“E hai corso fin
qui?” proseguì la barista, imperterrita.
“Come
hai–”
“Hai l’aria
stravolta.” La ragazza sorrise di nuovo, ma con
più
dolcezza. “Che hai fatto, sei scappata di casa?”
Astoria sospirò.
“Una specie. Posso usare il telefono?”
“Da quanto sei
via?”
Gettò
un’occhiata all’orologio da polso. “Un
paio d’ore.”
“Se vuoi ti accompagno
alla fermata dell’autobus, quando finisco il
turno.”
Astoria considerò
l’offerta per qualche istante. Forse sarebbe stato
sciocco fidarsi a quella maniera di una persona che praticamente non
conosceva,
ma quella ragazza dai capelli rossi e il volto lentigginoso
chissà per quale
motivo le ispirava fiducia.
Oltretutto, una cosa simile avrebbe
fatto infuriare sua madre, se mai
l’avesse saputo. Questo le provocò un brivido di
vaga trepidazione.
“D’accordo.”
La barista annuì.
“Siediti pure al bancone. Vuoi qualcosa?”
Astoria si sentiva addosso una gran
sete. Tuffò la mano in tasca, alla
ricerca di qualche spicciolo, ed estrasse qualche moneta.
“Per ora una
bottiglietta d’acqua. Liscia.”
La ragazza si chinò e armeggiò con un frigo posto
sotto il bancone. “Ottanta
pences.” Porgendogliela, aggiunse: “A proposito, io
sono Ginny.”
“Tori.”
Non sapeva cosa di preciso
l’avesse spinta a presentarsi con il
diminutivo utilizzato da Daphne piuttosto che con il suo nome per
intero.
Probabilmente perché Astoria sarebbe
parso strano... Stonato con Ginny,
che era un nome abbastanza semplice. Anche se, in effetti, era molto
probabile
che anche quello fosse solo un diminutivo. Ma il suono le piaceva.
Seduta su quell’alto
sgabello, aprì la bottiglietta da mezzo litro
mentre Ginny era impegnata con altri clienti. Si sentiva rintronata da
tutto il
chiacchiericcio del pub, dove parecchi giovani londinesi sedevano ai
tavoli a
ridere e a brindare. In un’altra occasione, si sarebbe
sentita in qualche modo
fuori posto, con quella tenuta da ginnastica e per giunta in disordine,
in
mezzo a tutta quella gente più o meno ben vestita. Tuttavia,
si sentiva
abbastanza a proprio agio – forse anche in virtù
della sua testa frastornata e
sconvolta.
Avvicinò la bottiglietta
alle labbra.
Bevi a piccoli sorsi, Astoria, o
rischierai la congestione.
Ma l’acqua non era gelida.
Era perfettamente fresca, e Astoria finì
per scolarla tutta in pochi sorsi.
“Accidenti, dovevi avere
una gran sete.”
Ginny la stava guardando, vagamente
pensosa.
Astoria aggrottò le
sopracciglia. “Vorrei vedere te!”
protestò. “Ho
corso per ore.”
“Immagino.”
Non riusciva a capire se l’altra la stesse prendendo in giro
o meno.
Stranamente, la cosa non la disturbava più di tanto.
L’acqua fresca
lavò via parte della stanchezza e della confusione.
Improvvisamente, fu come se qualcuno avesse sollevato bruscamente un
velo che
Astoria, correndo, era riuscita a stendere sopra le sue sofferenze.
Aveva
cercato di affogarle, opprimerle, cancellarle, schiacciarle con ogni
passo dei
suoi piedi.
Evidentemente, non aveva funzionato,
e le sembrò che il peso di quanto
successo prima le piombasse addosso tutto insieme. Realizzò
cosa aveva scoperto
a casa. Realizzò che casino avesse combinato fuggendo
di casa a quella
maniera. Probabilmente, sua madre aveva già chiamato la
polizia.
Daphne potrebbe averglielo impedito,
però.
Lei l’avrà
capito subito, che sarei ritornata.
Chissà per quale motivo,
si sentiva in qualche modo più lucida di
quanto non fosse stata nelle ultime settimane, ma allo stesso tempo
confusa. I
pensieri si succedevano e si riallacciavano nella sua mente senza un
senso preciso.
“Allora? Come mai sei
scappata?”
“Non sono proprio
scappata,” ribatté Astoria quasi automaticamente.
“Non volevo scappare. Volevo solo... solo...”
“Correre per
chilometri?” Ginny le imboccò la frase con un
certo
sarcasmo, ma Astoria scoprì che l’altra aveva
ragione.
“Sì,”
rispose. “Credo proprio di sì.”
Ginny la fissò.
“Sei una tipa strana,” commentò.
Lei fece spallucce. Nessuno
l’aveva mai definita strana.
Scoprì
che non le dispiaceva.
“Mi toccherà
riformulare la domanda.” La barista sospirò
teatralmente.
“Come mai ti è venuto un bisogno improvviso di
correre per chilometri?”
“Suppongo di aver avuto
bisogno di sfogarmi.”
“Capisco.” Un
cameriere posò un foglietto sul bancone, Ginny lo lesse
accigliata e si accinse a preparare una serie di drink. Astoria
osservò
affascinata i suoi movimenti veloci e sicuri, quasi ipnotici.
Ci vollero solo pochi minuti
perché il vassoio fosse pieno. Il
cameriere lo prese e poi gettò un’occhiata ad
Astoria.
“È una tua
amica, Ginny?”
“Sì,”
rispose lei distrattamente. “Non preoccuparti.”
Astoria la guardò e solo
in quel momento realizzò che non doveva
essere molto più grande di lei.
“Come mai lavori
qui?” le chiese.
Ginny scrollò le spalle.
“Per aiutare i miei a pagarmi
l’università.
Solo che loro non lo sanno, non l’accetterebbero
mai.”
“Ah.” Era una
realtà così distante dalla propria che ad Astoria
quasi
fece impressione. “Come fai a tenerglielo
nascosto?” chiese.
Altra scrollata di spalle.
“Dico loro che frequento un corso serale
per crediti aggiuntivi. Visto che scuola è abbastanza
lontana da casa mia anche
se torno tardi è credibile.”
Astoria annuì.
“Dov’è casa tua?”
“East End.”
Dall’altra parte della
città.
“Quanti anni
hai?” la domanda sorse spontanea.
“Sedici. Diciassette a
ottobre. Tu?”
“Ne faccio sedici il mese
prossimo. Come hai fatto per il permesso
firmato dai tuoi?”
Ginny roteò gli occhi.
“L’ho falsificato, no? Niente di più
semplice.”
“Capito.”
Astoria tacque.
L’altra emise un
sorrisetto storto. “Non mi hai ancora detto perché
avessi bisogno di sfogarti,” le fece notare.
Lei abbassò gli occhi.
“Ho dei problemi a casa,” confessò.
Ginny la guardò con
serietà. Sembrava partecipe, ma senza compatirla.
“Ne vuoi parlare?” domandò
tranquillamente.
Sì.
Astoria si rilassò contro
il bancone, il capo fra le mani.
“Mia sorella ha un sacco
di segreti, sai?” Le parole le uscirono di
bocca quasi autonomamente. “E chi ha segreti dice bugie,
no?”
“Certo.” La
barista annuì.
“Se scopri i segreti di
qualcuno e devi mantenerli, sei costretto a
dirne anche tu.”
Ginny aggrottò le
sopracciglia. “Ti è successo questo.”
Astoria fissò il vuoto
per alcuni istanti, poi abbassò gli occhi sul
bancone. “Io odio dire bugie,” disse flebilmente.
Il suo campo visivo – al
momento circoscritto al legno scuro del
bancone – fu invaso da una mano, che andò a
posarsi sulla sua. Aveva le unghie
corte e rosee, perfettamente pulite, simili a piccole conchiglie. Non
era
fredda ma neanche troppo calda. La sua pelle era perfettamente fresca,
come
l’acqua della bottiglietta.
“Ne hai parlato con tua
sorella?”
“Ci ho provato,”
sospirò. Non sapeva perché stesse confessando
quelle
cose a una perfetta sconosciuta... o forse gliele stava confessando
proprio
perché era una perfetta sconosciuta. “Ma
è un segreto troppo grosso.”
“Ha fatto qualcosa di
grave?”
“No. Cioè,
dipende dai punti di vista, credo. Anche a me sembrava
grave all’inizio, poi però...” la sua
voce si spense.
“Ho capito,”
Ginny annuì. Gettò un’occhiata
all’orologio, poi emise un
sorrisetto e si sfilò in fretta il grembiule nero. Da sotto
il bancone estrasse
una borsa a tracolla e una giacca di pelle. “Il mio turno
è finito.” Fece il
giro del bancone e la raggiunse, sedendosi accanto a lei.
“Beviamo qualcosa?
Offro io.”
In circostanze normali, ad Astoria
sarebbe parso ingiusto farsi
offrire da bere da qualcuno che sta risparmiando per poter andare
all’università, ma non riuscì a
rifiutare. Non riuscì a pensare che a casa di
certo tutti erano mortalmente preoccupati.
Non lo faceva apposta, davvero.
Semplicemente, non le riuscì.
“Grazie,”
mormorò.
“Bene.”
Inaspettatamente, il sorriso di Ginny si allargò.
“Joe!”
chiamò a gran voce il barista che l’aveva appena
sostituita. “Mi fai un
Margarita? E un Bloody Mary per Tori.” Quindi si
voltò verso di lei: “Il Bloody
Mary contiene anche succo di pomodoro e salsa Worcester.
Sarà come se mangiassi
qualcosa, no?”
Astoria annuì, distratta.
Fino a quel momento, aveva conosciuto solo
Martini, champagne e svariati tipi di vino, quindi non poté
fare altro che
affidarsi completamente a Ginny. Certo, bere a stomaco vuoto
– anche se con
succo di pomodoro e salsa Worcester – era abbastanza
imprudente. Ma aveva già
mandato al diavolo la prudenza, no?
Un paio di minuti più
tardi, due bicchieri erano stati schiaffati sul
bancone. Ginny le allungò quello dal contenuto rosso sangue.
“Alla sincerità,”
si limitò a dichiarare a bassa voce.
Astoria abbassò lo
sguardo sul proprio bicchiere, quindi si azzardò a
bere un sorso. Il succo di pomodoro e la salsa Worcester avevano un
sapore
forte, ma non abbastanza da coprire quello di... di....
“Vodka,” fece
Ginny, quasi le avesse letto nel pensiero. “Non ne hai
mai bevuta, vero?”
Astoria scosse la testa.
“Se ti gira la testa non
finirlo, okay?”
Lei annuì, e bevve un
altro sorso. Questa volta il sapore le parve più
gradevole. Gettò un’occhiata a Ginny e
scoprì che la stava guardando con un
sorrisetto impresso sulle labbra. Le parve che i suoi denti bianchi
stessero
scintillando leggermente.
“Allora?”
domandò la barista. “Ti senti meglio?”
“Un
po’,” concesse lei. “Non avevo mai bevuto
prima questa roba.”
“Già, scommetto
che hai bevuto sempre e solo champagne.” Le parole di
Ginny sarebbero potute sembrare amare, ma chissà
perché lei non ebbe questa
impressione. Forse era dovuto al modo in cui la barista le aveva
pronunciate,
chissà.
Le piaceva Ginny. Così
schietta, così diversa e lontana dal mondo al
quale era abituata.
Chissà, forse se Daphne
si fosse innamorata di una come lei non
l’avrebbe tenuto nascosto.
Non appena le ebbe pensate, queste
parole le sembrarono stupide.
Pareva inverosimile, assurdo che Daphne potesse amare qualcuno di
diverso da
Pansy... si chiese come avesse fatto a non accorgersene prima. Si
chiese da
quanto tutto ciò le sembrasse così normale.
Forse la vodka nel suo Bloody Mary
aiutava.
Guardò di nuovo Ginny.
Una ciocca era sfuggita alla sua crocchia
disordinata, e adesso le accarezzava il collo. Astoria sentì
un inspiegabile
istinto di allungare il braccio e spostare quella ciocca.
Doveva essere la vodka.
“Beh?” la voce
di Ginny suonò in qualche modo lontana. “Che tipo
di
segreto è tanto grave e terribile da costringere una persona
che odia dire
bugie a mentire? Se non sono indiscreta.”
Era indiscreta. Forse. Qualcosa
nella sua testa, dalla voce simile a
quella di sua madre, le suggeriva che fosse così. Ma se
c’era un momento in cui
poteva ignorare sua madre, quel momento era arrivato, no?
Si ritrovò a sorridere.
Così, senza motivo. “Il tipo di segreto che
cambia quello che leggi negli occhi degli altri, capito?”
Ginny sollevò leggermente
le sopracciglia. “Intendi quel tipo di segreto
che cambia l’opinione altrui?”
“Ecco,
sì,” Astoria annuì. “Proprio
quello che volevo dire.”
La barista annuì,
pensosa. Un’altra ciocca era sfuggita al nodo.
“Perché
è un segreto grosso, capisci?” proseguì
lei. “Insospettabile.
Cioè, in realtà sospettabile. Solo che nessuno se
lo aspetterebbe.”
“Ti stai
contraddicendo,” mormorò Ginny.
“Probabile,”
Astoria scrollò le spalle. “Questo è un
segreto
contraddittorio.”
Vodka, doveva essere la vodka. Di
solito non parlava mai così tanto.
Era come se le parole si fossero
accumulate nella sua mente per tanti,
lunghi anni. Adesso pretendevano di uscire fuori tutte assieme.
“Io non sono arrabbiata
con Daphne.” Sospirò. “Cioè,
lo sono, ma non
proprio. Non ce l’ho con lei per questo segreto. Ce
l’ho con lei per come mi
tratta, ecco.”
“Come ti tratta?”
“Male. Malissimo. Mi fa
sempre sentire patetica.”
“Non credo che tu sia
patetica.”
“Davvero?”
“Una tanto pazza da
correre a perdifiato per metà Londra non può
essere patetica.”
Astoria scoppiò a ridere
di cuore. Da quanto non rideva?
Aveva voglia di ridere ancora.
“La mia opinione su Daphne
non è cambiata,” si ritrovò a dire
mentre
rideva. “La mia opinione è sempre pessima. Solo
che ora mi dispiace perché so
il perché. E sono arrabbiata con il mondo e con mia
mamma.”
“Con tua mamma?”
Ginny aggrottò le sopracciglia.
Astoria annuì. La
percezione di ciò che la circondava era sempre meno
chiara. Come se il resto del locale fosse un brusio indistinto di luci
e
rumori, e l’unico punto nitido fosse quello dove lei e Ginny
erano sedute. Si
chiese se fosse questo quello che provavano Daphne e Pansy quando si
rinchiudevano nel loro bozzolo.
“Daphne ha paura di
deludere mamma. Per questo ha i suoi segreti. Come
che il bozzolo di pace in realtà fosse diverso da quello che
pensano tutti.”
“Cosa intendi
dire?”
“Che lei e Pansy si amano.
Ma nessuno capirebbe.”
“Ah.” Un lampo
di comprensione aveva attraversato gli occhi di Ginny.
“Tua sorella nasconde la propria omosessualità,
Tori?”
Lei annuì.
“Beh, è un suo
diritto tenerlo nascosto, no? Finché non si
sentirà
pronta a dichiararsi.”
Astoria tacque per qualche istante.
“Suppongo di sì,” disse poi,
esitante. “Ma non riesco a capirla. Io non lo terrei mai
nascosto.”
“Tori, è
normale avere paura.”
“Però
è sbagliato doverne avere.”
Ginny abbassò gli occhi.
“Su questo non ci piove,” convenne.
“Io vorrei poterla
aiutare, davvero.” Astoria si sentì
improvvisamente
triste. “Perché è mia sorella, capisci?
Le voglio bene anche se mi tratta da
cani.”
“Allora puoi fare solo una
cosa,” mormorò Ginny. “Torna a
casa.”
22:03
Si era vergognata a morte a dare di
stomaco appena scesa dall’autobus,
ma almeno adesso si sentiva meglio.
Accidenti a Ginny.
Probabilmente, rifletté,
al Fiddle Inn vendevano solo alcolici e acqua
minerale: Ginny sembrava troppo assennata per darle da bere a stomaco
vuoto.
Ginny e le sue ciocche di capelli.
Scosse la testa per allontanare
quei pensieri: adesso doveva pensare al bene di sua sorella, non alla
sua nuova
– pensò con un brivido di trepidazione –
cotta.
Premette il dito sul pulsante dorato
accanto al suo cognome.
“Sì?”
la voce di sua madre – da quando in qua rispondeva al
citofono?
– suonò stranamente rotta.
“Sono io,”
gracchiò in risposta, e immediatamente il portone si
aprì.
Si infilò nell’ascensore, osservando il proprio
riflesso nello specchio appeso
al suo interno. Era pallidisima, con il volto tirato e gli occhi gonfi.
I suoi
capelli erano impolverati e in disordine, per non parlare dei suoi
vestiti.
L’ascensore
arrivò in fretta al piano giusto e Astoria scese.
Trovò la
porta di casa spalancata, e non appena ne ebbe varcato la soglia fu
soffocata
in un abbraccio stritolante dalla loro governante.
“Signorina Tori, non
faccia più una cosa simile!” disse
l’anziana
donna tirando su col naso. “Capito? Mai
più.”
Quindi
l’afferrò per un braccio e la portò con
sé in salotto. Astoria
si fece trascinare, leggermente stordita.
In salotto fu raggiunta da un altro
abbraccio. Sua madre singhiozzava
senza ritegno, tastandola da tutte le parti per verificare che stesse
bene. “Mi
hai fatto spaventare da morire,” disse. “Non farlo
più, okay? Mai più.”
“Mai più,
mamma.” Astoria promise, e si accorse di star piangendo a
propria volta.
Poi Althea si tirò
indietro, lasciando spazio a Daphne. “Vado a
prepararti un bagno,” sussurrò. Lei fu colpita da
una così insolita
dimostrazione di tatto.
Daphne si avvicinò a
lunghi passi, una strana espressione contratta
sul volto. Non appena giunse a un metro di distanza da lei, le
tirò uno
schiaffo.
Astoria fu così sorpresa
da rimanere come pietrificata.
“Non ti azzardare
più a fare una cosa del genere,” parlò
l’altra con
voce tremula, asciugandosi gli occhi. “Ero così
terrorizzata che–”
Ma Astoria non le permise di
proseguire. Fece a propria volta un
passo avanti e l’abbracciò stretta.
Piansero abbracciate per un po’.
“Io non ti
odio,” mormorò poi. “Io odio il fatto
che tu non possa
essere te stessa.”
Daphne annuì.
“Lo so. Ho capito. Ti sta facendo diventare matta.”
“Non preoccuparti per
me.”
“Invece dovrei. Mi sono
sempre preoccupata troppo poco per te.”
Astoria sospirò.
“Mamma non ti odierebbe. Forse faticherebbe ad
accettarlo, all’inizio, ma poi... poi capirà che
non c’è nulla da perdonare.”
Per una volta, la maggiore era
rimasta senza parole.
Solo allora Astoria si rese conto
della presenza di qualcun altro
nella stanza. Pansy Parkinson era in piedi accanto allo stipite della
porta,
discretamente in disparte. Chissà perché, la cosa
la commosse.
Si avvicinò a lei.
“Ami mia sorella?” le chiese.
Pansy annuì, sostenendo
il suo sguardo.
“Lo diresti a
tutti?”
L’altra
assottigliò gli occhi, indagatrice. “Anche
subito.”
“Bene.” Astoria
sorrise a entrambe con calore. “Adesso vado a farmi un
bagno, che puzzo come un cane randagio.”
Daphne inarcò le sopracciglia, ma sembrava divertita.
Con uno curioso calore nel petto e
una strana serenità nella mente,
Astoria abbandonò il salotto. Una volta in bagno si
liberò dei vestiti e si
immerse nell’acqua calda e schiumosa, crogiolandosi in mezzo
a quel tepore. Le
parve che i suoi muscoli irrigiditi e doloranti si distendessero un
poco. Da
quanto tempo Althea non la coccolava a quella maniera? Si sentiva
incredibilmente al sicuro.
Dal salotto, la voce di Daphne
giunse chiara e limpida dalla porta
socchiusa: “Mamma? Ti devo parlare.”
Astoria sorrise.
****
Epilogo
Astoria si arrestò,
ansante, le mani premute sulle ginocchia.
“Ottimo tempo,
Greengrass.” La sua allenatrice, Mrs Bumb,
l’affiancò
segnando qualcosa sul suo taccuino. “Migliori di giorno in
giorno.”
Lei si tirò su, ancora
con il fiatone. “Grazie,” disse sorridendo, la
gola secca.
Mrs Bumb alzò gli occhi
al cielo scherzosamente. “Non c’è nulla
da
ringraziare, Greengrass. Io dico solo la verità.”
“Beh, grazie di dire la
verità.”
L’allenatrice sorrise con
indulgenza, quindi le assestò una pacca
sulla spalla e si allontanò. Astoria si diresse a lunghi
passi all’angolo della
pista. Recuperò il suo asciugamano e se lo sfregò
sul viso per asciugare il
sudore.
Dopotutto, tutti quei disastri di
alcuni mesi prima erano serviti a
qualcosa. Il coming out di Daphne non era stato preso subito bene dalla
mamma,
che di certo non se l’aspettava affatto. Poi,
però, una volta metabolizzata la
notizia, Althea aveva rivalutato la propria posizione. Era andata da
Daphne,
aveva esclamato “Chi se ne importa!” e poi
l’aveva stretta fra le braccia.
Per Astoria, d’altro
canto, la fuga disperata per le vie di Londra
aveva sortito la scoperta di un talento nuovo. A settembre si era
iscritta al
club di atletica leggera della loro scuola, ed era arrivata fra i primi
posti a
tutte le gare cui aveva partecipato fino a quel momento. La sua
specialità
erano i cinquecento, a sentire Mrs Bumb, ma se la cavava alla grande
anche con
i centodieci e ostacoli.
Anche i rapporti con Daphne erano
nettamente migliorati.
Tutto sembrava procedere per il
meglio.
Si ritrovò a sorridere da
sola, stupidamente, molleggiandosi da una
gamba all’altra, mentre raccoglieva la borsa e si apprestava
ad attraversare la
pista per raggiungere gli spogliatoi.
“Ciao, pazza.”
Riconobbe all’istante la
voce che aveva parlato, e il cuore le balzò
in gola.
Si voltò, incredula, per
scoprire di non essersi sbagliata. Ginny era
lì, con i suoi capelli rossi raccolti in un nodo disordinato
e la faccia sempre
piena di lentiggini. Astoria fu colta dall’inspiegabile
desiderio di baciarle
una per una. Ginny indossava l’uniforme della sua scuola:
gonna nera e giacca
grigia, una cravatta a bande rosse e oro e un grosso stemma sul lato
sinistro
del petto, sul quale capeggiava una grande H.
“Come…”
“Come ho fatto a
trovarti?” Ginny rise. “Ti ho vista
correre.”
“Ah.” Astoria la
guardò, tentando di contenere la contentezza che
pareva uscirle da ogni poro. Per nascondere il sorriso che insisteva a
volerle
germogliare sulle labbra, si chinò a estrarre la felpa dalla
borsa. Quello era
un autunno sorprendentemente caldo, ma la divisa del club di atletica
–
composta da calzoncini e canottiera dalle spalline larghe, il tutto
recante i
colori dell’istituto – era decisamente troppo
leggera per la stagione.
Ginny la squadrava, con un sorrisino
impresso sulle labbra. “Ti trovo
in forma,” commentò.
Astoria sapeva che era la
verità. Tutta quell’attività fisica
stava
facendo decisamente bene al suo corpo. A volte sentiva i muscoli delle
gambe fremere
quando andava a dormire, quasi la stessero ringraziando.
Ma sentirlo dire da Ginny era
tutt’altra cosa. Ginny… Quante volte
l’aveva
cercata in quei mesi? Era andata al Fiddle Inn almeno un milione di
volte,
senza successo, finché Joe – impietosito
– non le aveva comunicato che la
ragazza non lavorava più lì.
“Sei
la sua ragazza?” le
aveva poi domandato il barista.
Magari, aveva pensato lei.
Aveva anche provato a cercarla dove
abitava, solo per scoprire che East End
costituiva un’indicazione
piuttosto vaga per un’abitazione.
Ma si rese conto che tutto
ciò non aveva importanza. Ginny le era
entrata sottopelle quella sera, e adesso era lì, di fronte a
lei.
“Anche tu sei in
forma,” disse con naturalezza.
L’altra fece una smorfia.
“Non farti mai scappare una frase del genere
davanti a uno dei miei fratelli,” la mise
sull’avviso.
Astoria si sarebbe messa a
saltellare.
Triplo
salto.
Aveva provato anche quello, ma correre
le piaceva molto di più.
“Vuoi dire che avremo
occasione di rivederci?” domandò, cercando di
nascondere la trepidazione nel suo tono di voce.
“Spero
che avremo molte
occasioni di rivederci, Tori.”
Lei non rispose. Si
limitò a sorridere.
“Comunque ti trovo bene,
davvero,” riprese Ginny. “Poi come si è
risolta quella faccenda?”
Astoria la guardò dritto
negli occhi. “Per il meglio.”
L’altra sorrise.
“Bene! Mi fa piacere, davvero.”
“Lo so.”
Deglutì, grata.
“E la tua pazzia? Ti stai
curando?”
Astoria alzò gli occhi al
cielo. “Siamo nel mio ospedale, no?”
Ginny si guardò intorno,
nel campo di atletica. Scrollò le spalle.
“Potrebbe
essere vero.”
Fece un mezzo sorriso, e a quel
punto Astoria non riuscì più a
resistere. L’occhio le era caduto su una delle ciocche
sfuggite alla crocchia
di Ginny: allungò la mano e la spostò indietro,
quindi afferrò l’altra per il
bavero della giacca e se la tirò contro. Quasi senza
pensarci, premette le
labbra sulle sue.
La sentì sorridere contro
la propria bocca. “Che cosa fai?” le
sussurrò Ginny sui denti, ridacchiando.
“Potrebbero vederci tutti.
Qui c’è metà del tuo club di
atletica.”
“Non mi importa niente.” La baciò di
nuovo.
Ginny le strinse le braccia attorno
al collo. “Sono felice di averti
ritrovata.”
“Anche io,”
mormorò Astoria. “Ma stai zitta, okay? Stai zitta
e
baciami e basta.”
L’altra rise ancora.
Rimasero a baciarsi per un bel
pezzo, in mezzo al campo di atletica. Qualcuno
fece caso a loro, ma poi scrollò le spalle e riprese a
correre o saltare o
lanciare qualcosa.
Le nubi autunnali si diradarono e il
sole fece capolino.
Astoria neanche se ne accorse.
¹ Mio malgrado, non sono
mai stata a Londra. Per dare una qualche
indicazione riguardo ai luoghi in cui è ambientata la
vicenda, mi sono basata
su una blanda mappetta per turisti che potete trovare qui. Ho immaginato che Astoria vivesse
a
South Kensington (un quartiere di lusso) e che fosse corsa fino a Soho
(che
invece è il quartiere della gioventù londinese...
locali, pub e via dicendo).
Ginny, invece, abita a East End (zona più povera,
praticamente dall’altra parte
della città).
Note
dell’Autrice
Ci ho messo l’anima, accidenti.
Non sarà perfetta, sarà troppo lunga, ma non aveva senso continuare a leggerla e rileggerla in eterno.
Spero che vi sia piaciuta! Qualunque commento e parere è gradito.
Bisous,
Daphne