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Autore: Lely1441    26/08/2012    1 recensioni
«Come sta?», domandi, fissando distrattamente sul monitor le linee irregolari che segnano l’unica prova che tuo fratello ancora respira, che il suo cuore ancora pompa sangue.
«Niente di nuovo», risponde tua madre dalla poltrona sistemata accanto al letto. Si sfrega gli occhi e tu noti, una volta di più, quanto siano profonde le sue occhiaie. Tutto in lei sembra inevitabilmente un po’ più spento, un po’ più
morto; ti domandi se, quando quella macchina si fermerà, qualcosa in lei morirà del tutto.
Il rapporto di una madre e di una figlia dopo che dell'uomo della loro vita non rimangono altro che un corpo inutile e troppi ricordi.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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E non ho più ombre da uccidere, e non ho più forza per restare qui; sa di lucidità e di insana fobia, come aria invisibile confondo tutto…(*)
 
25 marzo 2010
 
«Come sta?», domandi, fissando distrattamente sul monitor le linee irregolari che segnano l’unica prova che tuo fratello ancora respira, che il suo cuore ancora pompa sangue.
«Niente di nuovo», risponde tua madre dalla poltrona sistemata accanto al letto. Si sfrega gli occhi e tu noti, una volta di più, quanto siano profonde le sue occhiaie. Tutto in lei sembra inevitabilmente un po’ più spento, un po’ più morto; ti domandi se, quando quella macchina si fermerà, qualcosa in lei morirà del tutto.
«Ti do il cambio», le dici, posando la borsa sul ripiano davanti al letto, toccandole una spalla. Non sembra neanche accorgersi del tuo gesto, si limita ad annuire e ad alzarsi, prendendo il suo cappotto senza guardarti. Non è facile starle vicino. Non è facile starti vicino, quando ciò che senti è solo un muro impenetrabile tra lei e il tuo dolore.
«Torno stasera, avvisami se succede qualcosa».
Ti siedi sulla stessa poltroncina, trovando fastidioso che sia ancora tiepida del corpo di tua madre. La fissi andarsene via, pensando che quel ‘qualcosa’ che potrebbe succedere sarebbe solo che tuo fratello smettesse di respirare. Perché ha smesso di vivere già da un bel po’.
Il rumore dell’ospedale - i macchinari, le chiacchiere delle infermiere, i passi degli inservienti, le televisioni accese, qualcuno che si lamenta in lontananza - ti dà la nausea, e sai che entro mezz’ora sarai già vittima del solito mal di testa che non ti lascerà in pace finché non andrai a dormire.
Fissi la sagoma di tuo fratello, la mano lasciata inutilmente fuori dal lenzuolo - anche a stringergliela, lui non sentirà la differenza -, il petto che lentamente si alza e si abbassa. Senti il solito senso di oppressione gravarti sul petto e sullo stomaco, l’odore di sudore che si mescola a quello dei medicinali, del disinfettante, e quasi ti sembra di percepire quello del sangue, delle garze sporche che ricoprono il punto in cui l’ago della flebo non funzionava più, dove gli ematomi segnano le zone in cui quello stesso ago ha violato la sua pelle.
È di carnagione scura, tuo fratello - così diverso da te, che sei sempre stata così chiara, così simile a tuo padre -, ma ora quella stessa pelle ha un colore pallido, malsano; nei mesi ha pian piano perso la muscolatura, la forza, si è al contempo gonfiato e sgonfiato, come un palloncino riempito d’aria a metà.
Non è quello l’uomo che ricordi. Non è quello il ragazzino che ti portava sulle spalle quand’eri solamente una bambina, che si vantava della sua principessa, che ha picchiato il primo bambino che ti ha fatto piangere. “Cos’è rimasto, di lui?”, ti domandi, mentre sfiori con una mano la sua guancia e decidi che è meglio fargli la barba ora, prima che si indurisca troppo.
Ti alzi e cominci a trafficare tra le salviette, il rasoio e l’asciugamano, tra il letto, il comodino e il bagno. Mentre cominci a radere il suo viso, delicatamente, il profumo della schiuma da barba e quello della salvietta imbevuta ti fanno girare la testa, tanto che rischi di tagliarlo per sbaglio. Continui, cercando di recuperare la fermezza della tua mano, passando sopra il mento che non ha più traccia del suo amato pizzetto da molto tempo. Ti piace occuparti di lui: è una delle poche cose che non ti fanno sentire completamente inutile, inadatta. Sono piccoli gesti da nulla, ma il contatto con quel corpo ti ricorda perché tu sia bloccata lì, vicino a lui, perché non possa scappare.
“Sto soffocando, Lele, come faccio?” gli chiedi con il pensiero, mentre gli giri piano il capo. “Non riesco più a stare qui con te. Non riesco più a stare a casa senza te.”
Neppure tu sai come definirlo. Morto? In procinto di? Vivo? Ormai ti viene naturale raccontare vecchi aneddoti parlando di lui al passato, e ti sei detta che questo significa tutto. Eppure tuo fratello è lì, rimane lì, davanti ai tuoi occhi, stupidamente: troppo fragile per vivere, troppo forte per morire, in un limbo che vi ha imprigionati tra le sue sbarre d’alluminio, vetro e vecchi pavimenti.
“Ti sei addormentato, e noi ci siamo addormentati con te.”
A volte hai l’impressione che da un momento all’altro lui possa aprire gli occhi, risponderti. A volte hai l’impressione che quelle saranno le ultime ore passate insieme. Altre ancora, pensi che rimarrete bloccati in questo limbo per sempre.

“Se non c’è più speranza, che senso ha aspettare? Aspettare cosa?”
Ripulisci e asciughi il suo viso, ti lavi le mani e torni a sederti accanto a lui, fissando quella mano senza il coraggio di stringergliela.
Pensi che a ruoli invertiti lui farebbe di tutto perché tu stia meglio. Che rimarrebbe accanto a te tutto il tempo, che ti farebbe ascoltare le vostre canzoni preferite, che ti leggerebbe i libri di Tolstoj che hanno segnato la vostra adolescenza. A lui non peserebbe starti vicino.
A te, invece, pesa. Vorresti solo essere lontano, lontano da lì, lontano da tutti. Ogni giorno si fa più difficile combattere contro il senso di monotonia, di routine, che provi quando varchi la soglia dell’ospedale.
“Sono una sorella orribile. Non ti ho mai meritato” pensi con tristezza, chinando il capo verso di lui. “Ho paura, e sono stanca di vivere così.”
A volte hai l’impressione che lui sopravvivrà a tutti voi, che sia diventato immortale, bloccato in quel corpo ormai sfatto, la sua crisalide di carne.

Devi solo arrenderti all’evidenza: non tornerà più indietro. Cosa aspetta a morire?
La sua mano rimane lì, e tu piano, con delicatezza, gliela sfiori. È tiepida, e questo ti rincuora. Potresti prendergliela, ma una paura irrazionale si impadronisce di te e ti blocca. Siete soli, in quella stanza, ed hai come la sensazione che, se tu lo facessi, lui ti stringerebbe il polso fino a torcerlo, fino a spezzarlo. Ti guarderebbe con i suoi occhi scuri e non ti chiederebbe nulla, neanche il perché tu sia una persona così orribile. Ti ha dato tutto l’amore di cui era capace, tu te ne sei nutrita fino a svuotarlo, fino a che, di lui, non sono restati che pallore e gonfiore, un’opaca ombra di bellezza perduta sul volto.
Ti sistemi più comodamente sulla poltrona, e fissi la goccia della flebo scivolare dentro il tubicino.
E ti sembra che, ugualmente goccia dopo goccia, se ne siano andate anche la tua felicità, il tuo futuro. Il suo amore.
Chiudi gli occhi e fai finta di essere all’aperto, sotto un grande pruno fiorito. Ti concentri sull’odore dolciastro, fai passare le dita tra i corti ciuffi d’erba, accarezzi una radice sporgente. Li riapri e soffochi alla visione delle solite quattro mura che ti circondano.
Sei imprigionata da te stessa, e non potrai più uscirne.
Lui non te lo permetterà.
 
 
Hai sensi che confondono, solo rabbia da estinguere; senti che rompi tutto ciò che hai intorno, ma senza urto.
 
21 gennaio 2010
 
«Com’è andata oggi?», ti chiede il tuo migliore amico, quando ti butti sul suo divano e chiudi gli occhi con un gemito frustrato.
«Come vuoi che sia andata? Non cambia nulla, non cambia mai nulla», rispondi, guardandolo andare in cucina a prendersi una birra. La lattina si apre con un suono secco, improvviso, che sembra rimbombare contro le pareti.
«Tua madre?»
«Sempre uguale. Si addossa il peso del mondo, ti impedisce di aiutarla e poi ti accusa di non star facendo niente».
Fissi ipnotizzata i raggi delle ruote della sua carrozzina a rotelle, sentendo il peso che hai sullo stomaco e sul petto stringerti ritmicamente gli organi, tentando di strozzarti il respiro come un cane rabbioso.
«Avrei solo voglia di spaccare qualcosa, a volte. Ma poi la rabbia è talmente grande che mi soffoca e mi paralizza, e io fisso ciò che ho intorno desiderando di romperlo, ma senza mai agire».
Non annuisce, non replica, continua a bere con calma finché non ha finito. Sai bene quanto la sua vita gravi intorno ai concetti di odio e rabbia, di quanto siano stati difficili, per lui, i primi anni. Ricordi i suoi scatti, hai visto insieme a lui i suoi amici andarsene pian piano, uno dopo l’altro, svanire come fantasmi di una vita precedente.
«Tu come hai fatto a superarlo? A non farti divorare?»
Ti guarda, e ti rivolge un sorriso stranissimo, con quel misto di odio e dolore che ti ha sempre affascinato. Schiaccia con un unico gesto la lattina che ha in mano, incurante delle ultime gocce che gli bagnano le dita e cadono sul pavimento.
«Non ne sono mai uscito, Anna».
La lattina cade a terra, e lui se ne va, lasciandoti da sola a riflettere.
 
 
È solo rabbia che non ha più via di fuga, e all’improvviso poi mi accorgo che non ha più senso rifugiarsi dentro un’ombra che dà noia… E non ci provi più, tu non esisti più.
 
30 aprile 1986
 
«È tuo padre, Silvia», mormora tua madre, con voce triste. Ti guarda e sai che non riesce a riconoscerti dietro quella patina di sgradevole indifferenza che ti avvolge completamente.
«Poteva dimostrarmelo prima», rispondi, sentendo la rabbia serpeggiare dentro di te, riversarsi rovente e liquida nel tuo stomaco. La tua espressione non muta.
«Non sapeva come dimostrartelo, non ci è mai riuscito… Ti prego, dagli un’ultima possibilità…»
«No».
Ti accarezzi distrattamente la pancia, già inavvertitamente più tonda e piena. I bambini si nutrono delle emozioni delle madri, finché sono al sicuro in quella bolla di liquido amniotico e placenta, tu lo sai. Tuo figlio, o tua figlia, sta già scontando il tuo odio.
«Silvia, sta morendo».
Gli occhi azzurri di tua madre cercano di scavare in te, di capire quali sono i tuoi punti deboli per abbatterli. Ma tu non sei vulnerabile, non più, non per loro.
«Non mi importa».
Tua madre non ti riconosce più. Ma forse, semplicemente, non ti ha mai conosciuta davvero. Forse non ti sei mai conosciuta davvero neppure tu.
«Come fai a essere tanto fredda? Non eri così…»
La guardi e decidi di andartene, di uscire da quel bar dove ti ha invitata per parlarti faccia a faccia. Cammini lentamente sul marciapiede di quella grande città di provincia, i passi pesanti quanto il tuo cuore.
Non sei felice, ma nessuno ha mai capito quanto tu fossi triste. Dal di fuori, sembri solamente normale. Hai un lavoro stabile, un marito, un bambino da crescere e un altro in arrivo.

Normale.
Stringi la mano intorno alla tracolla della borsetta fino a perdere la sensibilità delle dita. Te ne sei andata da quella casa appena hai potuto, ma il suo spettro ha continuato a perseguitarti senza sosta, inseguendoti e avvelenando ogni cosa buona che hai provato a piantare, restituendoti indietro un raccolto marcio.
Quello di cui non ti rendi conto è che le cose ti feriscono finché permetti loro di colpirti, che non parlandone con tuo padre non riuscirai mai a chiudere del tutto la faccenda. Che finché tua madre non lo saprà, continuerai ad odiare anche lei.
Sei talmente piena di odio - di odio, e di rabbia - che provi l’istinto irrazionale di farti del male, a livello fisico, per tentare di farlo uscire in qualche modo. Il tuo respiro accelera, anche il solo deglutire ti costa fatica, la testa gira e ti fermi, immobile nel flusso della gente che ti passa accanto e non ti vede - sei sempre stata così invisibile, così insignificante, così normale
Vorresti urlare, scappare, vomitare. Prendi fiato e ricominci a camminare, invisibile, insignificante, normale.
Tuo padre morirà fra una settimana, e tu non andrai al suo funerale.
Nessuno noterà davvero la tua assenza, forse perché non sei mai stata presente.
 
 
Senza aspettare più di subire il tempo tra le mani (sogni risplendono); e non importa se tutto quanto è fermo intorno a te (sogni risplendono)… Io sono il tempo, sono lo spazio e i desideri sono i miei tentacoli;
e non aspetto più di bruciare il tempo tra le mani, sogni risplendono.
 
12 maggio 2010
 
Quando te ne sei andata a dormire, ieri sera, hai guardato il display del cellulare con una specie di presentimento. Sei sempre stata convinta che bisogna essere rintracciabili in ogni momento, anche e soprattutto di notte, perché “non si sa mai”. Non si sa mai cosa possa accadere, chi potrebbe avere la necessità di parlare con te… Però quella sera hai guardato il tuo ragazzo, steso a letto e mezzo addormentato, distrutto dalla fatica. Doveva alzarsi presto, e tu hai deciso di spegnere il telefonino per evitare di disturbarlo. Ti sei coricata al suo fianco, non osando toccarlo per non dargli fastidio, chiedendoti da quand’è che non fate l’amore assieme. Hai deciso che almeno questa muta cortesia potevi lasciargliela.
La mattina dopo ti svegli, sola nel vostro letto, e accendi il cellulare per controllare l’ora. Cinque chiamate perse.
Tuo fratello è morto.
 
Sali gli scalini per arrivare al quarto piano, evitando l’ascensore, e arrivi nella camera dove tua madre sta raccogliendo le ultime cose. Vi fissate senza dirvi nulla, e tu l’aiuti piegando la sdraio e incamminandoti accanto a lei.
«Devi accompagnarmi alle pompe funebri, me ne hanno consigliata una in corso Mazzini, non ce la faccio da sola».
«Va bene, mamma».
Senti che vuole dirti altro, che è arrabbiata con te per qualche motivo. Ma lei è fatta così: deve imbottigliare, imbottigliare fino ad esplodere, fino a quando non è sicura di fare a chi l’ha ferita altrettanto male.
«Dovevi rispondere, stanotte. Avevo bisogno di te, e non c’eri».
«Mi dispiace, è stata solo una coincidenza… Sono sempre rintracciabile, volevo lasciar tranquillo Francesco».
«E tua madre? Lei non volevi lasciarla tranquilla? Sai benissimo in che condizioni fossimo, dovevi lasciarlo acceso».
Quello che sai benissimo, invece, è che è impossibile frenare la sua ondata di rabbia. Lasci che ti investa in pieno, senza reagire; non ci sei mai riuscita, e non hai mai trovato la spiegazione del perché. Come se tu fossi imprigionata nel suo odio, nei suoi sentimenti…
«Sei sempre la solita irresponsabile».
Senti le lacrime salirti agli occhi, e pensi che non è colpa tua. Non è colpa tua se lui ha avuto l’incidente, non sono colpa tua i mesi di coma, la stanchezza, le notti insonni e le ore infinite in ospedale. L’apatia. La rabbia, l’odio.
Non è colpa tua se tua madre si è sempre odiata e non si è mai perdonata.
«Ti ho già chiesto scusa, mi sembra stupido litigare ora per questo. Non posso far tornare indietro il tempo, e ieri non potevo prevederlo. Ho sbagliato, scusa».
Lei continua a camminare rabbiosamente, a passo sostenuto, e ti rendi conto, una volta di più, che non ti ha minimamente ascoltata.
«Ho dovuto far tutto da sola. L’ho visto morire, e una madre non dovrebbe mai vedere morire un figlio».
Decidi di non rispondere più, perché sarebbe inutile.
Inghiotti l’odio di tua madre e lo fai tuo, ma non sei come lei, non sai come farlo uscire. Non sai usare gli altri come sfogo, quindi lo riversi su te stessa in un meccanismo di logica perversa da cui non credi di poter riuscire a scappare.
Dopo le pompe funebri tornate in ospedale, all’obitorio, dove hanno allestito una camera ardente, e tua madre decide di non entrare. Non sopporta di vederlo, non può sopportare altro dolore, dice. Entri da sola, e onestamente gliene sei grata, perché non saresti in grado di condividere quel momento con nessuno, men che meno con lei.
L’odore dei fiori è nauseabondo e ti avvicini cautamente alla figura di tuo fratello, steso su quello che dovrebbe essere una specie di altare. È di un pallore strano, la piega della bocca è dritta e non sofferente come l’hai vista negli ultimi tempi, sembra sereno. Non sai quello che provi finché non noti che intorno al collo c’è un supporto, un tubo di plastica trasparente, forse per evitare che la testa si pieghi da una parte. È solo in quel momento che realizzi quanto simile ad un oggetto sia, come di lui non sia rimasto più nulla. Non potrai più parlargli, non potrai più chiedergli se ti voleva bene. Più nulla, ti è rimasto solo un corpo composto in una posa innaturale e dei fiori.
Scoppi a piangere, per la prima volta dopo tanto tempo, accarezzandogli la fronte e sentendola fredda, ma non così ghiacciata come l’avevi immaginata.
Rimani lì dentro per un po’, investita dal senso di colpa, mentre tua madre siede fuori a labbra strette, fingendo di non sentire.
 
 
Sa di lucidità e di insana fobia, come aria invisibile confondo tutto…
 
13 maggio 2010
 
Guardi tua figlia salire verso l’ambone per eseguire le letture, ed è quasi con un moto di stizza che senti la sua voce tremare. L’hanno colta di sorpresa quando le hanno chiesto se volesse farle, e con sguardo smarrito ha detto di sì, preferendo occuparsene lei piuttosto che lasciarle ad altri. Magari a te.
Non è mai stata capace di dire di no, è una persona priva di qualsivoglia forza di volontà. Si è sempre lasciata scivolare la vita addosso, assorbendone i colpi senza un lamento, e questo atteggiamento ti fa impazzire. È un’inetta, e tale resterà per tutta la vita.
Spesso tu e tuo figlio avete litigato per lei - lui non sopportava vederla piangere, e tu non sopportavi che lui ti si mettesse contro -, ti ha ripetuto fino alla nausea che era colpa tua se stava così. Ma ormai che importanza ha? Gabriele è morto, e al suo posto ha lasciato una ragazza sola, incapace di badare a sé stessa, e una donna che non ha mai avuto nulla dalla vita, e che non l’avrà più.
Ti sei vista privata della felicità fin da giovane, e per quanto tu abbia lottato, combattuto, non sei mai riuscita a conquistarla. Tua figlia potrebbe averla, ma non ne è interessata. Tuo figlio l’aveva, ed è morto.
Dov’è la giustizia, in tutto questo?
Rigida sulla panca di legno, aspetti che la funzione abbia termine per ricevere le condoglianze di parenti che non ci sono stati nel momento del bisogno, di amici scomparsi nel nulla che ora piangono e di sconosciuti che fingono di essere addolorati per non stonare nel contesto.
La loro ipocrisia ti dà ai nervi, e vedere tua figlia singhiozzare sulla spalla del suo migliore amico, quel ragazzo con la sclerosi tanto pieno di astio, ti dà il voltastomaco.
Esci sulla piazza assolata, aspettando che il feretro passi e si diriga verso il cimitero.
Respiri l’aria calda di maggio, e ti chiedi da quant’è che non piangi più.
 
 
Vorrei sentire la tua voce gridare, tentare, sbagliare… Non sopporto più di vederti morire ogni giorno, innocuo e banale.
 
24 aprile 2010
 
Passi una mano nei capelli di tuo fratello, sentendo più forte che mai il bisogno che lui apra gli occhi, che ti guardi, che ti dica qualcosa.
Ma sai già che questo non accadrà più, che manca poco ormai. Un’amica che ha visto suo padre morire in due anni, colpito da leucemia, ti ha detto che poi sentirai un senso di sollievo, di liberazione.
Ti rendi improvvisamente conto che per te non sarà così, che tu preferisci questa apatia al nulla.
Anche tu guardi un uomo morire, e non capisci perché debba essere così. Così lento, così asettico, così monotono.
Tua madre arriva a darti il cambio, e te ne vai senza salutarla.
Manca poco, e ancora non sai come ti senti.
Manca poco alla sua morte, e tu non sai più dove sei, né come fare a trovarti. Probabilmente sei già morta quel giorno di ottobre, stesa sull’asfalto accanto a lui.
 
 
 
 
 
 
 
(*) Sogni risplendono - Linea77 feat. Tiziano Ferro
 
   
 
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