Libri > Harry Potter
Ricorda la storia  |      
Autore: Katekat    26/08/2012    4 recensioni
Chi è Merope Gaunt?
E' la madre del demonio, dell'assassino, del Mago più Oscuro di tutti. Ma è anche colei che è stata sacrificata più di tutti.
Il mio misero tributo a una ragazza sfortunata che avrebbe meritato di meglio. Perchè è da qui che è iniziato tutto.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Merope Gaunt
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
La storia di Merope Gaunt: perchè metà amore non basta
 
 
 


Lo vedeva sempre passare sotto la finestra, in groppa al suo cavallo.
Appena udiva l’acciottolio degli zoccoli all’imbocco della strada sterrata, correva alla finestra, quando suo padre o suo fratello non erano in giro, e lo spiava stando ben attenta a non farsi vedere. Si accontentava di gettargli qualche occhiata, anche di sfuggita, in quei brevi istanti in cui passava talmente vicino alla casa che, sporgendosi dalla finestra, avrebbe potuto accarezzargli quei bei capelli scuri. Dovevano essere lisci e freddi come seta sotto le mani.
Aveva un portamento che non aveva mai visto in nessun’altro. Cavalcava eretto e fiero come un principe. E invece era solo un Babbano dalle vene sporche, come le ripeteva in continuazione Orfin. Non sapeva come, ma si era accorto della sua predilezione per quel ragazzo.
Tom, si chiamava. Tom Riddle. Era impossibile non conoscere il suo nome: apparteneva alla famiglia più ricca e in vista di Little Hangleton.
Era decisamente bello. Ai suoi occhi era perfetto. Decisamente al di fuori della sua portata. La sua purezza di sangue e la discendenza dal nobile Salazar non erano attrattive sufficienti a far innamorare di lei un tipo del genere.
 
Ma io non mi arrendevo. Non potevo rinunciare a lui.
L’unica cosa che desse senso alle mie giornate era quando riuscivo a intravederlo, al ritorno da una delle sue cavalcate. L’unica luce a rischiarare il buio della quotidianità, fatta di umiliazione e sopraffazioni da parte di mio padre e mio fratello, di lavori domestici, di fatica, di disperazione.
Ero quasi sempre in lacrime.
Mio padre mi urlava contro, diceva che ero una stupida, una Maganò, che si vergognava di me, che ero un abominio per la famiglia, indegna del sangue che portavo nelle vene.
Orfin quasi sempre contemplava la scena ridacchiando e sibilando alla sua vipera, che si portava appresso ovunque. Non prendeva mai le mie difese. Mi derideva e mi trattava come uno straccio anche lui.
Non c’era nessuno in quella casa su cui potessi far conto.
Perciò non potevo lasciarmi scappare l’unica persona che mi rendesse così felice con la sua sola vista. Dovevo sbrigarmi, però: le ultime volte l’avevo visto in compagnia di una ragazza sconosciuta, una certa Cecilia, e subito il cuore mi si era rattrappito nel petto.
Dovevo agire prima che fosse troppo tardi.
Tom doveva essere mio.


 
***


 
Aveva preparato quel Filtro con le sue mani. Aveva scoperto che, senza più fratello e padre tra i piedi, riusciva a compiere magie molto più disinvoltamente.
Aveva atteso due mesi per mettere in atto il suo piano. Attendeva e sperava, in silenzio.
Cercava di non illudersi- tantissime erano le cose che potevano andare storte- ma al tempo stesso non riusciva a impedire al suo cuore di volare alto con la fantasia.
Sapeva che ci sarebbe riuscita, che i suoi desideri si sarebbero esauditi. Doveva solo avere l’occasione giusta.
 
E l’occasione arrivò.
 
Era un pomeriggio di luglio. Il sole splendeva alto nel cielo, incendiando qualsiasi cosa con il suo calore fiammeggiante. Non c’erano nuvole nell’azzurro intenso del cielo, né un alito di vento a muovere le foglie. Tutto era immobile a crogiolarsi sotto la vampa bruciante.
Sentì il clop clop ormai familiare e il cuore le balzò in petto.
Si asciugò il sudore dalla fronte, si riavviò i capelli neri dietro le orecchie e attese, con le orecchie ben aperte, mentre lo scalpitio si avvicinava, torcendosi le mani nel brutto vecchio grembiule che indossava. Quando il rumore fu a una distanza ragionevole, si tolse il grembiule tutto macchiato e si accostò alla porta, socchiudendola per sbirciare fuori lungo la strada che scendeva al villaggio.
Quando lo vide, le si seccò la bocca. Le parve ancora più bello del solito, circondato dalla luce del pomeriggio estivo.
Teneva il cavallo al passo e anche lui sembrava stanco, affaticato, sicuramente stremato dall’afa.
Era su quello che contava.
Raccolse tutto il coraggio e afferrò la coppa che aveva preparato e fatto raffreddare in precedenza con mani tremanti. Il liquido era trasparente e inodore come acqua, ma acqua non era. Pregò silenziosamente Salazar che tutto andasse per il verso giusto.
Sfrecciò fuori dall’uscio proprio mentre passava, prima che il coraggio le venisse meno, e quasi rischiò di finire sotto gli zoccoli del suo cavallo, che lui riuscì a frenare appena in tempo.
 
“Ma sei impazzita?” esclamò. “Potevi farti male!”
“Scusami…” mormorò con un filo di voce. Già era tanto che riuscisse a spiccicare parola di fronte al suo viso, che aveva una bellezza da far invidia ai Purosangue.
Era di carnagione pallida, leggermente soffusa di rosa sulle guance, in splendido contrasto con i capelli neri e lisci che gli ricadevano un po’ lunghi sulla nuca e intorno alle orecchie. Aveva occhi chiari e una bocca disegnata.
Non si rese conto di fissarlo spudoratamente finchè lui non le gettò un’occhiata sospettosa e sarcastica: “Che c’è? Non hai mai visto un ragazzo?”
Avvampò alle sue parole e si affrettò ad abbassare il capo. In quel momento lo sguardo le cadde sulla coppa che ancora stringeva tra le mani. Si era completamente dimenticata del Filtro e del piano, persa com’era nella contemplazione di quei suoi occhi incredibilmente grigi.
“Io…io ho pensato che tu avessi sete…” Gli tese la coppa senza osare guardarlo negli occhi, pregando dentro di sè che la prendesse senza fare storie.
Lui esitò, guardandola stupito e diffidente.
Il cavallo emise uno sbuffo, agitando la criniera. Tom gli diede una pacca sul lato del collo, per tranquillizzarlo, senza smettere di guardare la ragazza.
Lo sapevo che non avrebbe funzionato. Lo sapevo. Lo sapevo.
Era disperata. Sentiva le guance andarle a fuoco e le lacrime pungerle gli occhi. Stava quasi per girare sui tacchi e correre a rintanarsi in casa, da dove probabilmente non sarebbe più uscita, quando lui prese la coppa dalle sue mani.
Fu talmente stupefatta che alzò la testa e lo fissò intontita, incontrando i suoi occhi che la fissavano socchiusi, soppesandola.
“Tu sei la figlia di quel vecchio pazzo vagabondo che risponde al nome di Gaunt?”
Annuì freneticamente. Aveva appena insultato suo padre, senza curarsi di poterla offendere. Di certo, non brillava per sensibilità e tatto, quel ragazzo. Ma aveva ragione: odiava suo padre ed era più che contenta che fosse ad Azkaban. Non averlo tra i piedi era un sollievo indicibile.
“Come ti chiami?”
“Merope” rispose senza fiato, perché non si aspettava proprio quella domanda.
Lui continuava a guardarla intento, come a decidere se potesse o no fidarsi di lei. Aveva ancora la coppa tra le mani.
Mentre la sollevava e la avvicinava lentamente alle labbra, il suo cuore smise di battere. Trattenne il fiato, gli occhi sgranati, mentre inclinava la testa all’indietro e la vuotava avidamente.
Salazar, allora ci era riuscita… Aveva bevuto…
Quando abbassò la coppa, teneva gli occhi chiusi e la fronte corrugata, come se si stesse concentrando profondamente su qualcosa.
Per un attimo, temette che avesse sbagliato la formula- per quanto fosse stata attenta, maniacale quasi, nel prepararla- e che lo avesse avvelenato.
Ma poi lui aprì gli occhi e la fissò con un’espressione vacua e sognante che le fece capire subito che aveva avuto successo. Un sorriso gli distese pigramente le labbra piene.
Le sorrideva. La guardava. Le tese una mano.
“Verresti a fare una passeggiata con me, Merope?”
 
***
 
Ci sposammo. Furono i quattro mesi e sedici giorni più felici della mia vita- tanto durò il matrimonio.
Non mi ero mai sentita così amata, così coccolata, così piena di attenzioni e premure come mi fece sentire lui in quel periodo.
Gli somministravo il Filtro di nascosto, mescolandolo alle bevande. Così lo tenevo legato a me. Ma sapevo che non poteva durare per sempre.
Il mio cuore si ribellava al pensiero di tenerlo incatenato a me con quell’ignobile sotterfugio. Era davvero l’unico mezzo per averlo? Ormai eravamo sposati. Ero sua moglie. Non significava niente per lui? Negli ultimi giorni mi ero addirittura accorta che aspettavo un bambino.
Inutile dire che quella notizia mi fece quasi scoppiare il cuore di gioia.
Un bambino. Un figlio mio e suo. Ci avrebbe uniti per sempre.
Fu questo il motivo per cui decisi di smettere con quell’inganno e non gli somministrai più il Filtro. Ero convinta che non mi avrebbe lasciata, se avesse saputo che stavamo per diventare una famiglia, che una parte di lui era dentro di me. Che stupida.
Gli effetti sparirono all’improvviso. Tanto rapidamente si era innamorato, altrettanto in fretta si disamorò.
Accadde che mi guardò con un’espressione nuova, diversa, con un cipiglio che gli disegnava una profonda ruga verticale tra gli occhi. E quegli occhi…non erano più ridenti e adoranti come ero abituata a vederli. Erano freddi e scrutatori, mentre mi fissava come se mi vedesse per la prima volta. Si svegliò di colpo da quello che non era stato altro che un sogno ad occhi aperti per me e un incubo per lui.
Forse capì la verità. Mi accusò di averlo stregato.
Mi urlò “Strega!” come se fosse un insulto. Ma era precisamente quello che ero.
Lo implorai di non lasciarmi, di farlo per il bambino. Mi aggrappai alla sua veste, caddi ai suoi piedi abbracciandogli le ginocchia, singhiozzando disperatamente. Gli urlai che mi dispiaceva, che non avevo intenzione di ingannarlo, fino a perdere la voce.
Lo pregai, cercai di blandirlo con promesse prima e minacce poi, gli giurai che avrei fatto tutto quello che desiderava se fosse rimasto.
Feci di tutto, davvero.
Ma lui mi allontanò da sé di scatto come se fossi stata un cane rognoso, gettandomi sul pavimento e mi guardò dall’alto, con rabbia e disprezzo incisi su ogni tratto del suo volto.
“Mi hai mentito. Mi hai imbrogliato. Ti sei presa gioco di me per avere quello che volevi. Sei un’egoista. Ora sconta le conseguenze delle tue azioni.”
Uscì dalla porta e non lo rividi mai più.
 
***
 
Rimase a vivere a Londra, dove si erano trasferiti dopo le nozze. Seppe invece che lui era tornato a Little Hangleton e si chiese come lo avessero riaccolto i suoi genitori, come avesse giustificato in paese la sua fuga con lei.
Il tempo passava. La sua pancia cresceva sempre più.
Si chiedeva se lui la pensasse, se gli importasse di suo figlio. Si diceva che non era giusto che lo odiasse: lui non c’entrava nulla, la colpa era solo sua. Suo figlio aveva bisogno di un padre. Non era questo il destino che aveva sognato per lui. Non l’aveva concepito per vederlo diventare un reietto come lei, ripudiato dal padre, segnato a dito come il figlio di un’impostora, di una poco di buono.
In quei mesi, cercò di arrangiarsi come poteva. Si arrabattava a fare i lavori più umili e malpagati, purchè potesse avere, a fine giornata, un po’ di pane e un posto appena più riparato della nuda strada gelata dove dormire. Aveva i piedi sempre gonfi e aveva continuamente freddo, perché stracci consunti e troppo leggeri erano l’unico abbigliamento che potesse permettersi.
Tom se n’era andato senza lasciarle denaro, e lei si era ritrovata sola e sperduta nella Londra Babbana. Lei, ultima discendente di Salazar Serpeverde. Ah, cosa avrebbe detto suo padre vedendola in quelle condizioni? Probabilmente le sarebbe saltato alla gola e l’avrebbe strozzata con le sue mani per la vergogna e il disonore che gli aveva cagionato. Ma tornando indietro, l’avrebbe rifatto? Sicuramente sì.
Nonostante tutto, amava ancora Tom. Sperava ancora che tornasse da lei, dicendo che si era pentito e che aveva capito che lei e il bambino erano più importanti del giusto o sbagliato delle sue azioni.
Futili sogni. Non si avverarono mai.
Il suo ventre lievitava come una mongolfiera e di Tom non c’era nessuna traccia. Avrebbe fatto molto meglio a mettersi il cuore in pace e accantonare una volta per tutte le sue speranze.
Ma la situazione diventava sempre più difficile. I soldi non bastavano mai. La sua ansia cresceva giorno per giorno.
Non era preoccupata per se stessa, quanto per il bambino. La ossessionava il pensiero del suo futuro. Come avrebbe potuto mantenerlo decentemente?
Non si riferiva solo al suo stato economico. Non si sentiva portata per fare la madre. Non sapeva come fare.
Per la prima volta si chiese se non si fosse comportata da pazza incosciente.
Sapeva a cosa andava incontro quando aveva propinato il Filtro d’Amore a Tom? Immaginava che si sarebbe ritrovata nove mesi dopo sola e incinta e senza un soldo, senza nessuna idea di come fare a sopravvivere?
No, non aveva messo in conto questa possibilità. Vedeva solo un abito bianco e un futuro tutto rose e fiori. Ma era solo una visione. Era solo fantasia, basata sull’inganno e sulla menzogna. Non poteva durare, su basi così fragili.
L’ultima cosa che le restava era il Medaglione che le aveva dato suo padre, quello appartenuto a Serpeverde in persona. Fino a quel momento aveva evitato di separarmene, non perché ci fosse affezionata né perché le importasse del suo valore, ma semplicemente per abitudine.
Nel corso degli anni, le grida e le botte di suo padre le avevano ficcato in testa che non doveva assolutamente separarsi da quell’oggetto preziosissimo, che doveva conservarlo a costo della vita.
Ma ora suo padre non c’era e lei aveva bisogno di soldi. Aveva fame, aveva freddo, era scalza. E quel medaglione non l’avrebbe sicuramente aiutata a sopravvivere, a meno che non lo cambiasse con un mucchio di galeoni d’oro.
Perciò lo vendette, senza rimpianti. I soldi le bastarono appena per un mese. L’ultimo mese della gravidanza.

Una sera, stava camminando senza meta per le strade. Era già buio e aveva iniziato a nevicare.
Batteva i denti, stringendosi addosso i soliti stracci, più inconsistenti di una foglia, e teneva la testa bassa contro il vento. I capelli le sferzavano la faccia.
Sentì un dolore violento come una coltellata al basso ventre. Fu come se le si fosse strappato qualcosa dentro. Si fermò di colpo, afferrandosi alla ringhiera a lato del marciapiede per sostenersi. Un velo di sudore freddo le imperlò la fronte.
No, non era possibile. Non poteva già esserci. Era troppo presto. Secondo i suoi calcoli, il bambino sarebbe dovuto nascere a metà gennaio.
E invece era solo il 30 dicembre.
Un’altra fitta, più forte della prima, la piegò in due per il dolore. Aprì la bocca per urlare e un rantolo sonoro le sfuggì dalla gola, come quello di un animale ferito. Riprese fiato e mosse qualche passo, sempre tenendosi incollata alla ringhiera con una mano, sostenendosi il ventre con l’altra.
Alla terza fitta, sentì qualcosa di bagnato colarle all’interno delle ginocchia. Abbassò lo sguardo e vide una pozza di liquido trasparente allargarsi tra le sue caviglie.
Oh Salazar. Oh Salazar. Ti prego, assistimi.
Stava per partorire in mezzo a una strada Babbana. La neve si sarebbe tinta del suo sangue e lì sarebbe morta, dopo aver dato alla luce il suo bambino Mezzosangue. Anche lui probabilmente sarebbe morto.
Continuò a trascinarsi avanti, un passetto dopo l’altro, fermandosi sempre più spesso per il dolore delle contrazioni che le toglieva il fiato e le strappava gemiti ferini. Non aveva mai sentito tanto male prima, nemmeno quando il padre la riempiva di lividi e cicatrici, col sottofondo della risata di Orfin nelle orecchie. Si sentiva spaccata in due e quasi non riusciva più a camminare.
All’improvviso sentì venire meno l’appiglio sotto la mano e si rese conto che la ringhiera era finita. Ora davanti a lei c’era un grande cancello di ferro, spalancato sul cortile spoglio di un grande edificio dalla tetra facciata di brutta pietra scura e rovinata. Decifrò a stento, tra le lacrime e il dolore, l’insegna all’ingresso. Le pareva di capire che fosse un orfanotrofio, ma non ne era sicura: non aveva mai imparato a leggere tanto bene.
Si trascinò barcollando, quasi carponi, fino alla porta. Cercò di bussare, ma non aveva più forza. Lanciò un roco grido d’aiuto e crollò sullo zerbino, sopraffatta dal dolore lancinante che le squassava il ventre.
Quando la porta si aprì, la testa del bambino era già venuta fuori. C’era una donna davanti a lei. Non la vedeva bene, per via delle lacrime e del sudore che le colavano negli occhi, ma sapeva per certo che la aiutò a spingere e a espellere ciò che restava del corpicino.
Ma perché non sentiva i vagiti?
La donna la guardò in faccia e forse si rese conto che stava per morire perché udì la sua voce ovattata, che suonava così terribilmente lontana e debole: “E’ un bel maschietto. Come vuole chiamarlo?”
Non aveva bisogno di pensarci. Era già tutto chiaro, dentro di lei. Ma perché il suo bambino non piangeva?
“Si chiamerà Tom, come suo padre… E Orvoloson, come suo nonno.”
“E il cognome?”
“R-Riddle…"
Ma perché non lo sentiva piangere?
 
Spero che lui sia più fortunato di me; spero che abbia una vita migliore di quella che ho avuto io.
Spero che nessuno lo maltratti o gli dica che è un buono a nulla.
Spero che somigli a suo padre, che sia bello come lui.
Spero che suo padre voglia conoscerlo e prendersene cura.
Spero che non mi odi per non aver avuto la forza di tenermi in vita e restargli accanto.
Spero che sia felice e che incontri l’amore della sua vita, anche se è stato concepito senza amore….
Beh, non è del tutto vero. È stato concepito con metà amore. Quella metà ce l’ho messa io.
Varrà pure a qualcosa, vero?
Vero?
Ma perché non lo sento piangere? Perché…perché…
 
Il campanile più vicino battè l’una. Tom Orvoloson Riddle nacque, dunque, una notte nevosa del 31 dicembre del 1926, sul tappetino davanti alla porta di uno squallido orfanotrofio Babbano, alla periferia di Londra, da una donna scalza e vestita di stracci, orribilmente brutta, stando alla testimonianza della direttrice, la signora Cole, che era morta poco dopo il parto.
Il neonato appariva un po’ sottopeso, ma c’era da stupirsi che fosse nato vivo, considerando lo stato della madre. Aveva folti capelli neri e occhi neri.
Era nato con gli occhi aperti e in silenzio, Tom Riddle. Non pianse, non emise un lamento, mentre si affacciava alla vita.
La signora Cole diceva che quel bambino era inquietante: aveva solo poche ore di vita e già nel suo sguardo c’era la profondità e l’indifferenza di un adulto. Forse era solo impressione… O forse no.
 
Cara Merope, ti sbagliavi. Non sei sopravvissuta abbastanza per vedere cosa è diventato tuo figlio, altrimenti lo avresti saputo… Metà amore non basta.
 
 
 
Fine
 
  
Leggi le 4 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Harry Potter / Vai alla pagina dell'autore: Katekat