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Autore: Columbrina    27/08/2012    2 recensioni
Un’Odaiba patetica e sconclusionata, relegata ai cantoni delle strade dove si consuma la trasgressione giovanile, vista tra le pagine scottanti di un quaderno che diventerà un vero e proprio confessionale delle inibizioni. Spire vorticanti di un filo rosso che intrecceranno le vite di otto ragazzi che non sanno ancora distinguere la vita e la morte e conducono un’esistenza votata all’autodistruzione, che considerano la mediatrice ideale. Perché l’adolescenza non è altro che il ponte transitorio tra la vita e una progressiva morte di vera linfa.
Genere: Angst, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Per delucidare le membra stanche, si consiglia vivamente la lettura delle note in fondo subito dopo la lettura del capitolo.
 
Vagamente OOC
Con “vagamente” intendo “mostruosamente”.
Con OOC intendo Orribile Obbrobrio Casuale.
Presenza anche di un linguaggio colorito, giusto per attenermi all'attualità delle situazioni.



  
Ringraziamenti
Vivissimi ringraziamenti a Tony Stonem e la sua allegra brigata bristoliana per avermi condotto in un viaggio di stupefacente euforia, senza precedenti.
 
E grazie alle mie due migliori amiche, che mi sostengono da dietro l’angolo e non penso metteranno mai piede nel fandom. Però ci sono sempre per qualche betareading d’eccezione. L&A
 
Grazie ai lettori occasionali e a coloro che trafugano sopravvivenza da parole di carta.

 
Odaiba Revolution
 
#01. The Chosen.

 

 
Strani forte i tipi seduti al tavolo tre di un caffè del centro città, alle pendici di un’emarginazione che non lascia scampo a nessuna pena sociale, la stessa che patisce qualsiasi osservatore distratto relegato in una piaga altrettanto latente, meglio nota come conformismo. La sua limitata visione dello spazio lo induce a considerare quell’accozzaglia recessiva come una pestilenza da cui stare alla larga, come se quel tavolo accanto alla finestra fosse un vespaio di lebbrosi; solo perché facevano parte di un’idea rivoluzionaria che aveva ben poco a che fare con i rispettivi progetti vitalizi.
L’ultimo arrivato si sedette proprio accanto alla finestra e dal suo sguardo si deduceva un grande spirito d’iniziativa e osservazione, tradito forse dal suo sguardo trasognante.
“Ehi Koushiro! Sei tra noi?” tuonò uno di loro, che troneggiava la tavolata con la sua cespugliosa capigliatura. Ordinò un cappuccino.
Il biondo accanto a lui qualcosa di più forte; non perché volesse davvero smaltire i sensi trangugiando da una tazza, dato che alla fine non l’avrebbe toccata, poiché lo faceva solo per dare l’impressione di essere più disinteressato degli altri.
Era incredibile quanto fosse precario l’equilibrio d’osservazione, sebbene fosse instillato tra loro un alone, un filo conduttore o forse anche un piacere represso che li rendeva così in armonia.
C’era anche il figlio di uno stimato medico, relegato nell’imbottitura claustrofobica della sua piccola nicchia onnisciente, che taceva e osservava, e con la testa che affondava sempre più nel profondo del bavero del suo cappotto. La matrice che lo vedeva mischiato a quella piscina integrata era sconosciuta perfino a lui e i suoi occhi non assorbivano niente, nemmeno il laconico disagio che gli portava stare lì, essendo timoroso di natura. A sfaldare quella nicchia onnisciente ci fu l’unica persona che davvero aveva intuito quest’alone che pareva frustrarlo nella paranoia di essere un menefreghista dell’inconcludenza; la sua mano lambì uno spicchio di guancia pallida e lui represse la coscienza in un singulto improvviso e piantò i suoi occhi terrorizzati sul suo volto intriso di casuale malizia, incorniciato a una cascata ondulata color della sabbia cinerea.
Era come una corda di violino: un refolo di vento sarebbe bastato per farlo sprofondare in una spira vorticante senza uscita; fortunatamente gli occhi sinceri della ragazza, intrisi della stessa casuale malizia, bastarono per salvarlo a un passo dal baratro.
“Tutto bene? Sembri teso.”
In risposta, annuì a capo chino e continuò a crogiolarsi nella sua placenta, giusto per isolarsi formalmente.
“Si vede che non è abituato a trasgredire gli ordini di papà” tuonò nuovamente colui che deteneva la leadership solo effettiva, poiché formalmente Taichi Yagami era abituato a far prevalere la sua parola senza alcuna intestazione legale.
Jyou Kido, il figlio del famoso medico, strinse le mani in due poderosi pugni che, però, non diedero una lezione né alle sue parole né a sé stesso e alla sua patologia di dare tutto per scontato.
“Non sono obbligato a stare qui”
“Allora perché ci stai?”
“Perché mi va”
Una voce femminea s’interpose tra di loro, come un fendente vellutato.
“Basta Taichi, lo sai che fa sempre così”
“Gesù, per una carezza ci resta secco” Taichi si portò le mani dietro la nuca, come per sorreggere il peso della cespugliosa chioma come un soppalco “Se gli rivolgi la parola, come minimo avrà sporcato le mutande”
“Ma non dire così …” fece Mimi, dal suo pulpito spassionato e sempre chiassoso “Avrà problemi d’incontinenza”
Detto ciò, destò le risa generali.
“Touché”
A quel punto, Jyou riuscì ad alzare gli occhi, per farsi abbracciare dallo sguardo caloroso di Taichi che tornò nei suoi ranghi, pur puntualmente ammonito dagli occhi inquisitori di Yamato Ishida, vestito di pelle e sbagli e che continuava a bearsi dei centri concentrici del suo bicchiere, piuttosto che attaccar briga come al solito. Ogni tanto i suoi occhi indugiavano sulla figura spassionata e snella di Sora Takenouchi, i cui occhi fermi denotavano una grande volontà e la cui divisa dal taglio sistematico non smentivano una certa attinenza alle regole. Era una brava osservatrice, dicevano, e proprio per questo sapeva prendere di petto qualsiasi cosa, situazioni e persone: per questo Taichi covava un profondo rispetto per lei, non solo perché l’aveva vista crescere simbioticamente ai suoi occhi.
Ora tutti trangugiavano qualcosa, per sopperire a bisogni ancor più impellenti: Yamato aveva la bocca asciutta dalla nicotina; Mimi, l’estrosa bambolina con i capelli cenere, ne aveva abbastanza di medicine e lecca – lecca, ma avrebbe ucciso anche solo per qualche infimo dolciume; Sora non ne poteva più del retrogusto di terra salata che si alzava ogni qualvolta che si nascondeva dalla verità e da sua madre;  Jyou cercava di sopprimere il sapore di legno dei bastoncini sanitari, di quelli che suo padre gli gettava sulla lingua quando ancora non sapeva distinguere i gusti; Koushirou era stanco di fare indigestione di speculazioni che si rivelavano senz’arte né parte; infine Taichi era semplicemente stanco tanto che non sapeva neanche come fronteggiare le lacune di tentativi persi in partenza.
Il ticchettio delle diciassette in punto morì nel tramestio generale, senza dare più segni di vita proprio come le persone: per quanto siano impegnativi i loro sforzi, i loro messaggi non saranno mai ascoltati.
Così la pensavano più o meno tutti.
Per questo avevano preso l’abitudine di ritrovarsi, alle diciassette, allo stesso tavolo dello stesso infimo caffè di centro città alle pendici dell’emarginazione, perché solo stando crogiolati nel reciproco menefreghismo avrebbero imparato ad ascoltarsi e avere fiducia nell’estraneo.
Il tintinnio delle tazze e dei bicchieri lasciò il posto a laconiche cose mai dette e che si perdevano nell’incoerenza, finendo per essere prive di senso, accalorate soltanto dal tramestio della gente frettolosa e delle loro mani sfrigolanti che copriva tutti pensieri con le sue ondate.
“Allora, è tutto pronto per stasera?” esordì Taichi, dal suo solito pulpito troneggiante.
Gli altri, di conseguenza e senza nemmeno rendersi conto che Taichi aveva sfaldato la quiescenza avvilente, si voltarono tutti verso di lui, con lo sguardo interrogativo e inquisitore: era tipico di Taichi prendere malsane iniziative.
“Togliti quel ghigno da stronzetto che non sei convincente”
“Fanculo Yamato. Tutti i vostri culi mi seguiranno stasera per una festa all’Air”
Non se la presero più di tanto. Il fare gradasso e il sorriso smargiasso erano solo alcune delle tante velleità manageriali di Taichi, che faceva del suo malsano spirito d’iniziativa un marchio di fabbrica che non perdeva mai, nonostante fosse ormai datato.
“Non dire cazzate” fece Jyou, dal suo pulpito annichilito “Domani ho i test per il corso di formazione”
“Le tue sono cazzate. Dobbiamo trovare un porto per far attraccare il tuo piroscafo, altrimenti resterai un fottuto rompicoglione”
Mimi stava per alzare la mano in segno di offerta, ma Jyou diede una manata a palmo aperto al tavolo, senza essere plagiato dalle inibizioni, sebbene tutto di lui reprimeva in un brivido ogni spirito di sopportazione, che lo portava a essere così inevitabilmente accondiscendente al ghigno sghembo e tronfio di Taichi, che guardò altrove per ricevere il consenso degli altri. Mimi e Koushiro annuirono da loro pulpito, per poi tornare a trafugare profezie inconcludenti.
Dello stesso avviso non era certamente Yamato, poiché ogni pretesto era buono per far valere la voce di chi, come Jyou o lui stesso, prendeva le iniziative di Taichi come un rigetto, una protesta per non far prevalere voci fuori dal coro e che la reciproca comprensione non divenisse un continuo azzuffarsi di idee recessive e cozzanti.
“Taichi, lo vuoi capire che non dobbiamo stare indietro ai tuoi capricci? Io ho le prove stasera”
“E mamma torna prima stasera, quindi non posso assentarmi dai suoi paternali”
“Dite che venite a dormire da me. Kari ci coprirà tutti” insisteva Taichi, incidendo sempre più in profondità col suo fare smargiasso
La studentessa dai capelli ramati, ligia ai principi che la vincolavano a Taichi, gli rivolse un sorriso intriso di condiscendente rassegnazione; ormai aveva imparato a conviverci e con Taichi poteva essere tutto o niente.
Ora spettava a Yamato l’arduo bivio: scontare le pene della ritorsione o mantenere intatto quel filo conduttore che li avrebbe sempre portati alla deriva, per poi addormentarli in lidi di acque familiari, che li avrebbero portati in quel tavolo da caffè, alle diciassette in punto.
“Ci sarà un’oncia di fumo?”
Taichi elargì le solite velleità da smargiasso; anche se sul suo volto fanciullesco somigliavano ai ghigni di un bambino che ha ottenuto il giocattolo preferito.
“Ce ne saranno talmente tante da sniffare le pareti”
Yamato socchiuse lo sguardo, svestendosi delle colpe.
“Allora ci sto”
Avevano l'abitudine di perdersi, in un luogo imprecisato che si stagliava davanti a loro al calare della notte e ritrovarsi quando ormai gli occhi stellati di una luna sorridente erano troppo appesantiti dal peso di un albore imminente.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
*
 
 
 
 
E come al solito guidati dallo spirito di quel filo conduttore, si ritrovarono in fila, con i corpi lontani e con le anime ammassate l’una addosso all’altra, parte integrante dello stesso mix di stupefacenti euforie che scorrevano a frotte.
La notte aveva le inibizioni sotto sequestro: sarebbe stato il solito susseguirsi di trasgressioni che avrebbero rasentato il ciglio del precipizio interiore; perfino Jyou pareva darci dentro, sebbene l’impellente ora del coprifuoco che si era raccomandato era travolta da fiumane di pensieri sempre più invadenti, che rilegavano quel pensiero in un piccolo cantone del menefreghismo, a cui la mente ci sarebbe arrivata solo da lucida.
Dello stesso avviso era Taichi, imbrigliato dai fili della notte, con Yamato e Sora che si facevano carico della sua cattiva condotta, delle sue piccole infrazioni che forse non avrebbero avuto esiti apocalittici. Yamato era lieto di collaborare gomito a gomito con lei, più bella del solito con i giochi di luce colorata che si specchiavano sul suo viso e sul suo sorriso di convenienza, forse anche per il gusto di nascondere le sue di inibizioni e trafugare una complicità in terreni sterili e instabili.
Quella sera, spinta anche da una voglia inconcludente, fu Mimi a segnare la svolta: svolazzava giuliva e piena di voglie represse, nei suoi abiti da eterna bambolina gotica, che le avevano procurato parecchi grattacapi a causa del suo stile di vita votato prettamente al benessere interiore: odiava che si riferissero a lei come Lolita e relativi stereotipi. Mimi era un miscuglio saggio di dolciumi andati a male, zenzero, capelli color cenere, balze e calze bianche e tè al latte; tutto in una pratica confezione che lei stessa non faceva che rimirare costantemente.
Anche nello specchio di uno squallido bianco pubblico, in cui si stava consumando la stupefacente euforia di Taichi, che si traduceva in gemiti eloquenti e rigetti del suo corpo, ma non del suo spirito.
Yamato era dentro con lui, a sorreggergli il capo; Sora stava a osservare la porta; Mimi parlottava a Jyou parole di cui non si sarebbe mai ricordato, le labbra coperte di una patina lucida dal sapore fruttato.
“Sei davvero strano, sai? Quando siamo a scuola ti vedo tutto assorto dai libri, cammini ritto e difficilmente rivolgi la parola; invece quando sei con noi barcolli spesso, parli a sproposito, ma sei sempre laconico. Il che è strano. Gli altri dicono che quando non esagero sono adorabile, quindi lo sono secondo te?”
Ma Jyou non la ascoltava, però la osservava senza darle corda; dava l’impressione di essere interessato ai suoi soliloqui, l’unico forse che lei aveva visto come un potenziale ascoltatore, anche se effettivamente la stupefacente euforia alterava ogni sua coscienza.
“Perché non giochi con questo?”
Mimi accolse tra le mani un quaderno rosso, che Jyou aveva reperito da un’infima cartoleria a due isolati da lì, e rimase stupita dai formicolii che attraversava il suo corpo, il suo volto scosso da fremiti incontrollati e gli occhi iniettati di sangue. Le sue dita indugiarono per un po’, assaporando la stasi della resa, lungo la copertina vivace, l’unico spiraglio di vita ora che le labbra asciutte avevano consumato definitivamente quella patina lucida e fruttata; poi furono i suoi occhi a distogliere l’attenzione dalla sua nicchia, così diversa dalla placenta sconclusionata in cui rosolava la coscienza di Jyou e quella di Taichi anche se ora l’aveva vomitata, e a concentrarla su Jyou.
“Sta tremando tutto. Ha freddo forse?”
Sora le rivolse uno sguardo che non aveva niente a che fare con il suo solito criticismo.
“Non è abituato a reggere certe sostanze. Domani si riprenderà”
“Ma farà la fine di …” e con un cenno eloquente all’indirizzo del gabinetto, Mimi strinse a sé il quaderno, timorosa. Sora le sorrise per tranquillizzarla, ma alzò le spalle, facendo presagire tutto e niente.
“Vuoi uscire da questo fottuto cesso, Taichi?”
“Chiudi il becco, Jyou.”
Sora era ferma, come se niente la turbasse più di tanto. Mimi era agli antipodi, non riusciva ancora a prendere coscienza di sé stessa e degli altri, sebbene assistesse a questi teatrini impenitenti quotidianamente; o forse anche lei era imperturbabile come Sora, solo in un modo diverso.
Erano tutti simili in un modo diverso: Sora sapeva che a fine serata Jyou sarebbe tornato lo sconclusionato timorato di suo padre e che Taichi avrebbe continuato a dettar legge senza alcuna intestazione morale; Mimi sembrava la stessa.
“Ma quanto ci mette? Devo pisciare, cazzo!”
“Metti la museruola all’uccello”
“O potrebbe farla dietro quella pianta” convenne Mimi, indicando la spoglia di quello che una volta era un arbusto rigoglioso
“Ci fa le seghe a quella pianta” replicò Sora “Visto com’è euforico …”
“Me ne frego delle seghe. La tubatura sta scoppiando …”
“Chiama un idraulico” fece di nuovo Mimi, con le ciglia che toccavano quella parte di palpebra nuda e i pensieri che lambivano i lidi di quelli che erano i cieli facili di una fanciulla altrettanto facile
“E tappati quella bocca! Ti riuscirà più facile che sparare cazzate!”
Il tempismo incosciente di Jyou planò con istinto inconcludente e brusco, che non fece altro che alimentare una certa inquietudine che tradiva le insicurezze di Mimi, che fece le guance sottovuoto  e se ne andò, preceduta da un pletorico tonfo della porta. Fiumane di voci, in cui si distingueva solo quella squillante del disc jokey che incideva sullo spirito della festa, la accolsero e la accompagnarono a un bancone dove un solitario Koushiro scrutava un impertinente trio di omuncoli vestiti a tema con la moda, che non facevano altro che importunare il buongusto di giovani osservatori che non avevano trovato il loro posto nel mondo; uno di loro aveva perfino guardato di sbieco Mimi, come se i suoi abiti color pastello e intarsiati di pizzi fossero un pugno nell’occhio. Frattanto gli occhi di Koushiro indugiarono sul lascivo lembo svolazzante, che creava un effetto nascondino sul principio delle sue gambe lisce e sode; poi si soffermarono sul quaderno che stringeva in petto, le mani attraversate da un formicolio, segno eloquente che i nervi si stavano mangiando reciprocamente, per sopperire a una collera più grande; gli occhi fissi sulla porta che aveva appena lasciato.
Aveva voglia di chiederle tutto, perché lui non si era mai addentrato oltre i rigori della sua apparente svogliatezza; però i suoi occhi potevano leggere tutto, anche senza consultare le parole, perciò rimasero per un po’ in silenzio come taciti compagni, addossandosi inconsapevolmente i rispettivi pesi; poi l’equilibrio si sbilanciò quando Mimi prese a guardarlo con lo stesso trasporto di un bambino che guarda un giocattolo rotto. Come il bambino non riusciva a capire come fosse accaduto, così Mimi non riusciva a capire quali segreti si celavano dietro i suoi silenzi densi.
“Perché non sei venuto anche tu? Taichi aveva bisogno di noi.”
“Per il tuo stesso motivo”
Koushiro parve disorientato, come denotavano i suoi occhi, eppure il suo tono era fermo e saldo delle sue convinzioni, come se fossero parole elaborate dopo mesi e mesi di congetture e studiate fino a diventare parte integrante del suo essere.
“Jyou ha fatto arrabbiare anche te?”
Lui dischiuse le labbra in un sorriso che compiaceva la semplicità di Mimi.
“No, ma sapevo sarebbe successo. Quando esagera, diventa intrattabile”
Mimi annuiva e continuava a stringere sempre di più il quaderno rosso, come se fosse un cimelio. Poi gli sorrise, mentre un gioco di luci si proiettava su entrambi i loro visi, alterando la loro vera essenza.
“Tu sei diverso dagli altri, lo sai? Nel senso che sei strano.”
“Accezione positiva, spero”
“In realtà no”
Mimi rise, ma il volto di Koushiro s’imbrunì come se lei stesse cercando di prendersi gioco di lui, anche se ormai doveva sapere che lei amava prendere le cose per il verso sbagliato.
“Anche tu sei strana, comunque”
“Solo perché mi vesto di pizzi e merletti non vuol dire che io sia strana. Direi che sono giuliva”
“Complimenti, ci vuole fegato per ammetterlo”
“E anche una certa materia grigia per esserne consapevoli”
Stavolta fu Koushiro a sorridere a cuore libero.
“Touché”
Rimasero per altri istanti insieme, senza andare via l’uno dall’altra, ma neanche compiacersi perché sarebbe risultato troppo forzato e non avrebbero capito il perché: Mimi non sapeva ancora come riuscire a prendere Koushiro per il verso giusto perché, insieme agli strani fenomeni del cielo e agli spifferi che ogni tanto sente in casa, lui era uno dei tanti misteri che intendeva risolvere.
“Non sembri divertirti” esordì nuovamente lei, ottenendo di nuovo il suo interesse inconcludente
“Non molto in effetti. Stanno sempre a fare gli idioti. Preferisco di gran lunga le serate in compagnia del mio computer”
“Però lui non ti ascolta quando hai un problema”
“Esiste Cleverbolt”
“Non avrà mai un approccio diretto con te”
“Sempre meglio degli approcci diretti di Taichi”
“Non sarà mai la tua ragazza”
“Sono felicemente scapolo”
“E per quanto ancora?”
“Diamine, non ho neanche vent’anni. E poi meglio tardi che mai”
“Se continui così, non ci arriverai neanche al tardi”
“E tu che ne sai?”
“Ti sembro una sprovveduta io?”
Koushiro sentì l’istintiva voglia di guardare nuovamente quel lembo ballerino, per bearsi di quella striscia di pelle nuda, solo per sentire se il suo corpo reagiva a stimoli così lontani dal suo solito pulpito. Cercò di abbassare furtivamente lo sguardo, nel frattempo che la sua attenzione veniva attirata da Jyou che barcollava e da Yamato e Sora che sorreggevano di peso Taichi, che sembrava delirare parole a mezza voce.
“Faremo meglio ad andarcene” annunciò Sora, mentre il profumo inebriante di Taichi mischiato a uno più sgradevole imperversava tra le sue narici aperte
“Ma io voglio restare!” replicava Taichi, nel tentativo di sbracciare come un mulinello, quando in realtà non faceva che reprimere la sua sedicente euforia
“Anche io. Al diavolo il test!”
Yamato pazientava ancora un po’ nella sua neutrale presenza, ma Koushiro e Mimi avevano intuito già da un po’ che non desiderava altro che gonfiare di buonsenso i loro tornaconti, anche se quello di Jyou era parzialmente influenzato dalla sedicente euforia.
“Andiamocene, cazzo!”
Mimi e Koushiro annuirono, come sempre del resto. Entrambi non erano riusciti nel loro intento quella sera: lei non aveva messo un punto di conferma a niente e lui non aveva appurato di essere privo di un cuore meccanico.
Yamato e Sora ancora reggevano tutto il peso insofferente di Taichi, che muoveva i piedi a tempo di musica a palla e ogni tanto affondava il viso nell’incavo del collo della ragazza, assaporando ogni traccia lasciva lasciata dal profumo che ormai si era consumato tra la foschia degli altri odori ebbri ed ebeti; la stessa foschia che non permetteva a Taichi di separare il giusto dagli sbagli, che somigliava un po’ a quando gli occhiali ti si appannano dopo che ci hai alitato sopra, la sensazione è quella, ma Taichi provava un latente agio, come se il tassello avesse trovato il suo incastro, e ciò non fece altro che infastidire Yamato che lo strattonò più volte, intimandolo a riprendersi.
Tutti erano a conoscenza della famigerata regola dell’amico, che Taichi aveva più volte tentato di violare: aveva confessato a cuor leggero di considerare Sora non più come una sorella.
Sora aveva tentato di negarlo alle apparenze, in modo che non barricasse gli ultimi rimasugli delle sue certezze e anche quella volta fece finta di niente, continuando a testa alta.
“Presto, usciamo di qui”
“Sì, voglio liberarmi di questo porco …” bofonchiò Yamato, reprimendo una voglia omicida tra mandibola e mascella
“Piantala Yamato. Non è in lui, non sa quello che fa”
“Chiamiamo un esorcista!” convenne Jyou, altrettanto euforico e sorretto solo dal peso della contentezza.
Sora bofonchiò anche lei qualcosa e volse lo sguardo verso il trio di impomatati, vestiti come dettavano le ultime tendenze, che facevano passare i ragazzi per effeminati canterini; le venne quasi un attacco epilettico, quanto erano sgargianti. Taichi, nel tentativo di abbordare quello spiraglio di carne, non poté fare a meno di notarli e appiccare il fuoco alla miccia, con la sua evocativa disposizione a fare di tutti i disastri un pretesto per sfoggiare le proprie velleità dialettiche.
“Guardate, i Village People!” disse al loro indirizzo, come se lo trovasse spassoso. I tre non poterono fare a meno di far sentire i loro poderosi destri, in fase di preparazione.
“Che cazzo hai detto, stronzetto?”
Si avvicinò il più impomatato di loro, mettendo in mostra la ruches della camicia cianotica, simile al colore che assume l’occhio quando incassa un pugno; Taichi si staccò malamente da Sora e Yamato che incassarono due spinte aggressive.
“Scusa, ma con questa musica non riesco a sentire la tua voce da checca …” fece Taichi, beffardo come non mai, come se stesse cercando o addirittura bramando quel pugno
“Taichi, ma sei pazzo?” fece Mimi dal suo pulpito. Sora neanche si scompose.
Il tizio impomatato si scompose e anche parecchio, tant’è che le nocche scoccarono rumorosamente l’una contro l’altra. Senza perdersi in altre chiacchiere, Taichi incassò una sberla in pieno viso, gemendo senza sanguinare e senza che ciò scalfisse il suo sorriso da marchio. Si scrollò di dosso il torto inferto e partì alla carica con un destro che non arrivò mai a destinazione e fu costretto a incassare malamente un altro colpo, intriso della stessa carica rabbiosa. Poi il tipo sputò in terra, suggellando la definitiva umiliazione.
Koushiro prese Taichi per le spalle, rialzandolo alla meno peggio e guardò con un misto di rabbia e torto gli occhi scuri del nerboruto impomatato.
“Smamma marmocchio, non ho ancora finito con questo qua!”
Koushiro non gli diede retta e tentò di mediarlo col suo sguardo inquisitore, anche se non sortì l’effetto desiderato.
“Due contro uno? Non è leale”
“Ci uniamo anche noi” soggiunse un tizio dai coloriti capelli e lo stuzzicadenti stretto tra i denti, che faceva da spalla all’ultimo con la camicia color senape e i tratti tipicamente orientali.
Fu allora che Taichi parve riprendere coscienza della propria cruda ironia, sfoderando un poderoso calcio, frutto di prolifici anni come capocannoniere e che, ancora una volta, centrò il bersaglio.
La miccia prese fuoco seduta stante; ma non una fiammella, un incendio doloso.
Cadde di peso sul petto di Sora, che si preparò ad accoglierlo e rimetterlo in piedi.
Poi Taichi incassò un altro pugno, che proveniva da un pulpito inaspettato e forse colposo, anche se sapeva che non era così. 
“Che cazzo fai, Yamato?” gridò una voce fuori campo, probabilmente quella di Koushiro, essendo l’unico capace di intendere la situazione.
Mimi faceva di tutto per trarre forza dal suo stesso dolore, sfregando vigorosamente le dita contro il bordo aguzzo della copertina del sangue con cui erano intrise le più superflue parole: in una situazione come quella, però, non c’era bisogno di parlare. Comunque per Mimi era davvero difficile, era straziante anzi vedere Taichi che strattonava tutte le sue coscienze e si preparava per incassare il prossimo pugno.
“Avanti colpiscimi e ti assicuro che sarà l’ultima volta che lo farai” disse, senza neanche sospendere i conti con i tizi che stavano ancora consolando il loro amico con i membri rotti.
Yamato parve esitare, anche se poi partì un gancio che esternò tutto il suo disappunto davanti all’attrito che si era creato in quegli anni. Il confine labile tra l’amicizia e l’odio era barricato da un muro sorvegliato incessantemente per anni, come se fosse il guado tra due sponde di fiume e ora questo muro stava per abbassare il ponte levatoio, per permettere ai due opposti di regolare i conti: quel pugno fu solo il primo stridio.
Taichi si rialzò, il volto rigato da rivoli che presero il colore scarlatto della sua rivalsa.
“L’hai voluta tu, Ishida!”
E iniziarono a pestarsi, ma non reciprocamente: pestavano le angherie che li avevano portati alla degenerazione più sconfortante, come un parto doloroso, con la serpe che ti si attorciglia tra le gambe e inietta il suo veleno nei cuori sconquassanti della morte, dello strazio e del patimento. Sora cercava di mediarli, ma senza successo; Koushiro, invece, partecipava con Jyou a un nuovo conflitto con i tizi impomatati.
Mimi, con le lacrime che pesavano sugli occhi, uscì di corsa, stringendo il quaderno.
Continuò a bruciare ogni distanza a suon di suola, senza guardarsi indietro o avanti, teneva infatti lo sguardo basso; si fermò solo quando fu certa di non trovarvi più nessuno, anche perché si stavano dirigendo nel punto della rissa, come se fosse un circo e loro i leoni nella gabbia che si contendevano il pasto.
Restò a guardare la luna in piedi.
“Male, male …” disse una voce matura, intrisa della senilità di una vita vissuta a riparare i danni degli altri. Mimi abbassò lo sguardo e notò che vi era un uomo senz’età, che appariva però afflitto dall’erosione del tempo, a giudicare dalla barba canuta che emergeva da un soprabito con cappuccio, la cui ombra si proiettava sul suo sguardo, che doveva essere intriso della stessa natura del suo tono perentorio
“Ci conosciamo?” disse semplicemente Mimi
“Non direttamente.” rispose laconicamente, per poi aggiungere “I tuoi amici sono dei rivoluzionari, giusto?”
“Forse in una vita passata”
“Sei fatalista?”
“No, credo di essere una Bilancia” rispose lei, stringendo il quaderno “Tu sei come uno di quei signori che fa le televendite?”
L’uomo strinse la testa tra le spalle, coperta in gran parte dall’ombra del cappuccio scuro. La purezza del suo animo le aveva impedito di scambiarlo per un maniaco o che dir si voglia; non le era balenato intesta nemmeno il pensiero.
“Ecco… Non lo so”
“Allora sei un predicatore!”
“Ehm …”
“Un giramondo? Un fantasma?”
“Forse sono la coscienza”
“E perché non sei un grillo?”
“Altrimenti non mi avresti capito”
“Mi sembra giusto”
A quel punto, l’uomo puntò l’indice contro il quaderno, come se dovesse inquisirlo e le rivolse ultime, laconiche parole alla bella vestita di bianco leggero come le stelle della notte. Mimi rivolse uno sguardo interrogativo prima al quaderno, poi all’uomo.
“Cosa c’è?” chiese lei.
“Quel quaderno. Penso che potrebbe tornarvi molto utile. Usatelo per temprare ogni istinto che possa essere fatale per voi.”
Rimuginò su quelle parole per un po’ di tempo, prima di guardare l’ombra aguzza dell’uomo che si dilatava sempre più sull’asfalto grigiastro, stagliandosi come una fitta boscaglia alla fine di una landa desolata: l’effetto che sortì guardarlo era proprio quello. Strinse il quaderno un altro po’ tra le braccia e poi sorrise, allietata dalle percosse che venivano dall’interno.
“Glielo darò domani”

 
 
 
 
 
 
 
 
Quattro chiacchiere con l’autrice.
 
Giusto un paio di delucidazioni dal primo capitolo che, deduco, vi ha condotto in uno stato confusionario senza tregua. Odaiba Revolution prende ispirazione da una notte insonne, passata a divorare gocciole e le prime due stagioni del telefilm Skins, popolato dagli adolescenti più turbolenti di tutta Bristol (se non lo conoscete, vi consiglio vivamente la versione originale, quella inglese e non quella americana, in modo che possiate bearvi dei vizi, del sesso, del fumo e dell’alcool di Tony Stonem e co.).
La storia è strutturata in focalizzazioni che metteranno a fuoco i caratteri e le debolezze di ognuno dei nostri prescelti, il tutto visto da una prospettiva del tutto patetica e sconclusionata, ovvero loro stessi, mediante le pagine di quel quaderno che diverrà lo strumento della confessione e della redenzione, mostrandoci un’Odaiba adolescente, teppista e allo sbando, senza alcuna restrizione morale.
Come in Skins, vi sarà la divisione delle generazioni: questa è la First Generation e, come è facilmente deducibile, riconduce ai personaggi di Digimon Adventure, che ci hanno consacrati all’inizializzazione in questo mondo immaginifico; la Second Generation corrisponderà naturalmente a quella di Digimon Adventure 02 ed è una storia a sé stante, ancora in fase di stesura e, come nella serie originale, i protagonisti della prima saranno retrocessi a semplici comparse di sfondo, con l’eccezione di Taichi, Yamato e Sora che ho intenzione di inserire come narratori focali dei rispettivi capitoli.
 
La First Generation è così composta:
 
Taichi lo conosciamo tutti per quello che è: in questo capitolo, ho voluto far luce sulla sua formale leadership, che detiene da  tempo immemore e continua a portare avanti con orgoglio anche nella seconda serie. In alcuni spezzoni di puntata, Taichi è fin troppo plagiato dalla sua condizione di leader e finisce per apparire tirannico e questo capitolo è solo l’apoteosi superlativa, una sorta di caricatura che non ha niente a che vedere col Taichi che mostrerò nel prossimo capitolo, che sarà narrato da lui stesso e a noi non resta altro che ascoltare cosa ha da dire. Nella mia storia è sconclusionato ed eversivo, ma ha molto a cuore i sentimenti degli altri e cerca di reagire per loro, ma non sempre fa la cosa giusta. Con Sora ha un rapporto morboso e assai controverso, che in certi punti rasenta l’angst, ben diverso da quello a cui siamo abituati, tant’è che in certe parti questo rapporto sembra indurlo all’ossessione: tranquilli, si tratta di un esperimento. Con Kari, invece, è come lo ricordiamo. Nei divertimenti sembra non avere precetti morali.
 
Sora è una studentessa esemplare e gioca a tennis; i suoi occhi sprizzano energia e salute, messi in risalto dalla divisa scolastica che sfoggia in ogni occasione. Ha condannato la dannazione quando un ragazzo, durante un campeggio, tentò di abusare di lei e da allora è vigilata costantemente da Taichi, anche se a volte sembra il contrario. Funge spesso da fulcro materno, grazie alla sua matura concezione dell’esistenza, a differenza del piglio più spassionato che assume Mimi. Sembra essere insofferente alla natura morbosa di Taichi, anzi la trova plausibile e anche piacevole, perché la fa sentire al sicuro in una nicchia di vetro. E Yamato cercherà di ovviare la negatività di Taichi sotto ogni fronte, per redimerla dal pensiero di un passato che scotta.
 
Yamato non eccede, sembra sempre moderato e inconcludente, svogliato se vogliamo dirla tutta; ha una media quasi impeccabile e ha una band, dove suona il basso. Porta i capelli naturalmente biondi, che sono l’emblema della ribellione giovanile. Ai suoi occhi non sfugge niente, nemmeno il più impalpabile battito di ali. Vive sul ciglio di una redenzione che non conosce scampo, ma finirà per divenire un circolo vizioso. E’, per certi versi, il personaggio più controverso.
 
Koushiro, se proprio devo rimanere fedele a un cliché, lo collocherei a metà strada tra un hacker e un hikikomori, anche se quest’ultimo non è proprio calzante. E’ il solito Koushiro visto da una prospettiva diversa.
 
Mimi incarna diverse accozzaglie di stereotipi dei fenomeni sociali: è una baby Lolita e veste sempre di pizzi color pastello e porta sempre con sé un parasole; pratica l’enjo kosai per sovvenzionare le sue spese, ma sembra mantenere una visione tutta sua della vita, come se il mondo fosse un immenso prato pieno di fiori diversi. Ho voluto darle più spessore di quanto non se ne dia agli altri, perché è troppo sottovalutata. A pari merito con Yamato, però, è il personaggio più controverso di tutti.
 
Jyou incarna l’OOC perfetto, anche se si tratta di un dualismo: di giorno, ricopre magistralmente il ruolo di figlio timorato, solerte negli studi e con un fervido terrore del sangue; di notte, diventa un animale da festa e si fa condizionare dalla sedicente euforia che, a differenza di quella di Taichi, è meno sconsiderata e più alla portata di un personaggio moderato. Le spoglie del suo personaggio sono sepolte, o meglio nascoste, dietro questa facciata che può apparire incoerente.
 
Takeru e Hikari hanno quattordici anni e sono ancora inconsapevoli: per ora si limitano a scrutarli dal loro piglio strampalato e che rivela forti insicurezze. Sono amici da tempo e coltivano un rapporto d’amicizia simbiotica, che non rasenta mai l’ossessione; si può definire un cordiale interesse reciproco.
 
 
Detto ciò, vi auguro una buona lettura.
 
Alla prossima,
S.
 
   
 
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