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Autore: n u m b    28/08/2012    0 recensioni
“Lui mi guardò indignato e per tutta risposta mi mandò un’occhiataccia e raccolse il suo soprabito.
- Allora? - dissi io battendo il piede scalza con le braccia conserte.
- Holden - bofonchiò lui tra i denti, - Holden Caulfield - rincarò la dose intento a raccogliere portafogli e Dio solo sa cos’altro.”

Avete mai letto “The Catcher in the Rye” (o in italiano, “Il giovane Holden”) di Jerome David Salinger? Questo sorta di storia ha come protagonisti Holden appunto, un adolescente sedicenne abbastanza sensibile che non sopporta il conformismo e le idee del tempo in cui è vissuto, ergo il 20° secolo e Nancie, una quindicenne ribelle e sconsiderata. Che succederebbe se questi due s’incontrassero, magari di notte, in giro per le strade di una New York gelida e illuminata dalle luci di Natale? Grazie per l’attenzione. Se vi è piaciuta la storia gradirei un commento, anche perché non sono sicura di volerla pubblicare tutta ~
PS. Scusate ma per svariati problemi ho dovuto ri-pubblicarla.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Salve a tutti. Beh allora, che dire? Questa è la mia prima fanfic, la primiiiissssima che scrivo. E' basata sul romanzo "Il giovane Holden" di Jerome David Salinger. Mh, vi prego di essere clementi con me se la storia non è di vostro gradimento, e se avete da criticare o anche semplicemente da dirmi che  la storia vi è piaciuta o come posso migliorare, vi sarei davvero grata se voi me la recensiste. Sappiate che gli aggiornamenti arriveranno il prima possibile. Grazie molte a chi leggerà ~

n u m b

Era dicembre. Si stava avvicinando quella festività schifa che tutti chiamano Natale, per la quale si torna a casa da scuola, le vie sembrano luccicanti come lampadari di cristallo, Cristo Santo, per la quale si finge di essere tutti più buoni e si deve andare a quelle schifo di cene che i parenti organizzano tanto per far vedere che siamo uniti, che ognuno è più buono e che saremmo pronti a buttarci giù da un dirupo per salvare la pellaccia del cugino o dello zio o vattelapesca che ci sta di seduto di fronte. Questo sopra il tavolo, sotto non facciamo altro che pestarci i piedi e appena quello che ci sta seduto accanto si gira, si è pronti a spettegolare e sparlare di lui al parente che abbiamo di fronte.
Bella famiglia. Davvero una bella famiglia.
Tanto per cominciare, uno, io avevo smesso di andare a quella schifo di scuola dall’inizio di dicembre, anche se i miei non lo sapevano. Se lo avessero saputo gli sarebbe venuto un’ulcera o una gastrite o che so io. E tutto questo per il fatto che sono donna e che è un privilegio per me istruirmi e quindi devo sfruttare al massimo la possibilità eccetera eccetera. Questi sono i discorsi cretini di mio padre. Mio padre non si è mai interessato veramente a me. E’ un banchiere e sta tredici ore su ventiquattro a sistemarsi il panciotto e le restanti undici a sproloquiare con i suoi illustri amiconi di quanto sia fiero di mio fratello e di quanto sia orgoglioso di me eccetera eccetera. Tutte stronzate inventate sul momento per far passare agli occhi degli altri la sua noiosa vita l’esistenza che tutti desidererebbero. Quanto lo odio quando fa così.  Non che in altri momenti lo odi di meno, si capisce, ma è quando fa in quel modo che sento la collera montarmi dento e mi viene voglia di strozzarlo. Oltre a mio padre nella mia famiglia ci siamo anche io, mia madre e Teo. Teo è mio fratello e ha diciotto anni. E’ una sorta di scienziato/atleta eccezionale o vattelapesca. A scuola è un cervellone e a dispetto di tutti gli altri cervelloni, è un asso anche negli sport. Non ho idea di come gli vada a genio tutto quel correre e sudare e di nuovo correre e sudare. Mi fa davvero rabbrividire.
E’ un buon fratello, questo sì, ma a volte è un po’ come mio padre: dato che sono femmina, Cristo Iddio, mi proteggono un po’ troppo. Vogliono sempre sapere dove vado, cosa faccio, con chi, quando e come. Ma questo è un problema superato, dato che riesco sempre a inventarmi un accidente di scusa o che so io. E alla fine faccio sempre quello che mi passa per questa maledetta testa.
E in ogni caso pensano che io sia una bambina e che io sia ancora  vergine, Cristo Santo, quando non lo sono. Ed è assolutamente buffo che mio fratello e mio padre pensino il contrario e ogni volta che esco si preoccupano di dirmi “non è un po’ troppo corta quella gonna?” oppure “i tacchi non sono troppo alti?”, come se cambiasse qualcosa. Mi fanno davvero crepare dal ridere quando fanno così.
Per quanto riguarda   mia madre invece, non c’è un granché da dire. E comunque ne riparlerò in seguito, se avrò voglia. Penso sia l’unica ad aver capito qualcosa sulla storia della verginità eccetera eccetera. Che tra l’altro l’ho persa in modo schifo. Praticamente successe che all’istituto femminile dove vado io c’era questo professore di storia. Questo professore, LaRey mi sembra si chiamasse, aveva un figlio. Questo figlio faceva di nome Edmund e aveva 19 anni. Spesso e volentieri il padre lo portava a vedere  i concerti di Natale, Pasqua o vattelapesca che l’istituto organizzava. Io suono il piano e quindi partecipavo a quei maledetti concerti e insomma questo Edmund mi aveva notata e via discorrendo.
Quando tornai nella mia stanza due sere dopo, la mia compagna, allora era una certa Kate Lorqualcosa, mi disse che era passato a cercarmi uno di un metro e novantacinque, capelli castani e baffetti, occhialuto che aveva detto di chiamarsi Edmund LaRey. Io avevo sentito parlare di lui e quindi sapevo chi era. La sera dopo alla stessa ora bussò alla nostra stanza. Ci presentammo e tutto quanto e lui mi suppergiù una valanga di complimenti dicendo che ero carina, ero bravissima a suonare il piano e Dio solo sa cos’altro. Alla fine concludemmo con l’accordarci per uscire il giovedì sera della settimana prossima. Finì che andammo al cinema a vedere uno schifo di film durante il quale mi ritrovai a pomiciare con lui non si sa come. Il film era abbastanza noioso comunque. Dopo il film lui mi fece salire su quella maledetta Cadillac del diavolo e andammo a finire su una di quelle collinette da cui si vede la Luna. Lui praticamente disse di venirmi dietro e via discorrendo e così tanto per fare una cosa, iniziò a sbottonarmi la camicetta e poi il resto venne da sé.
Per carità, a me non è nemmeno mai interessato, poi era pure bruttino e solo per slacciarmi la camicetta ci aveva messo un’ora Cristo Santo, ma lo feci tanto per fare e alla fine successe. Non ci siamo mai più rivisti.
Ad ogni modo, stavo dicendo: in quel periodo era Natale eccetera eccetera e faceva un freddo cane. Erano circa le quattro del mattino e io stavo camminando vicino Central Park, con addosso solo quella sorta di tubino nero, i collant a rete e un paio di decolleté con un tacco abbastanza alto. Avevo il rossetto rosso sbafato dappertutto e la matita mi era colata sulle guance, Dio mio, sulle guance. E in più avevo i capelli bagnati. Ero reduce da una di quelle cene idiote di cui ho parlato prima e me n’ero andata furiosa, con le scatole girate e sbattendo la porta perché mio padre continuava a dire idiozie…Non ricordo nemmeno che idiozie, visto che dopo essere uscita da quel postaccio mi ero scolata mezza bottiglia di Jack Daniels. Ora la sbornia mi era più o meno passata, ma avevo un tremendo mal di testa e in più mi veniva da vomitare.
Tuttavia, nonostante i dolori e il freddo me la passavo abbastanza bene, lì per quelle vie deserte di New York. Ad un certo punto mi iniziarono a far male le scarpe e allora me le tolsi e le portai in mano. Notai che uno di quegli odiosi, odiosissimi collanti mi si era strappato su un ginocchio, pazienza.
Dunque, fu quella mattina che la mia vita cambiò radicalmente. Io stavo girando lì per i fatti miei quando vedo un giovanotto correre verso di me, guardandosi dietro le spalle con aria concitata. Fatto sta che io ero troppo stanca anche solo per vederlo o scansarlo, lui non mi vide, così mi venne addosso. Io urlai un “ehi!” e probabilmente gli perforai un timpano, ma ero furibonda.
Lui era stramazzato a terra e giaceva supino, con una delle mie scarpe sul petto e una delle sue gambe sulle mie. Mi misi a sedere di scatto e dissi di nuovo “ehi!” a volume più basso e lo guardai meglio. Ragazzo bianco, abbastanza alto, capelli biondi tagliati a spazzola, tutti arruffati. Poteva avere sedici anni o giù di lì. Comunque, aveva la camicia bianca sbottonata per metà, le scarpe slacciate come la cintura, la cravatta che gli pendeva lenta al collo. Il suo soprabito era accanto a me.
Nelle condizioni in cui qual era pensai stesse uscendo dalla casa di una prostituta o che ne so.
Lui grugnì e mi disse - Si può sapere che cosa diavolo stava guardando per venirmi addosso?! -, mi guardò negli occhi a metà tra lo stupito e il seccato. Io di rimando:
- Ma casomai dove stesse guardando lei! Dato che aveva la testa girata da tutt’altra parte rispetto a dove andava, e se proprio vuole saperlo, sembra stia  scappando da una prostituta, dato il modo in cui è vestito!
Lui si riguardò e poi ci alzammo barcollanti. Io mi detti una spolverata e poi tornai a fissarlo. Parlai in tono meno concitato:
- Si può sapere come si chiama?! Così posso sapere a chi devo fare denuncia per l’aggressione? -  
Lui mi guardò indignato e per tutta risposta mi mandò un’occhiataccia e raccolse il suo soprabito.
- Allora? - dissi io battendo il piede scalza con le braccia conserte.
- Holden - bofonchiò lui tra i denti, - Holden Caulfield - rincarò la dose intento a raccogliere portafogli e Dio solo sa cos’altro.

  
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