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Autore: _Kenya    30/08/2012    6 recensioni
Prendete un gigantesco calderone e metteteci dentro una sofisiticata e ricchissima ragazza, un paesino di montagna, un cugino da sballo, una zia che vorrebbe essere una mucca, una migliore amica iperattiva, un disastroso corso di teatro, battaglie di cibo, un'arciperfida nemica, un vecchietto scatenato, una preside tetezca, un biglietto misterioso e un terribile segreto. Condite il tutto con una buona dose di equivoci e di ormoni, di innamoramenti e di amicizie. Infine, gustate questa incredibile ricetta chiamata adolescenza!
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sofia Sveva  Francesca Lopez de Santis aveva un aggettivo in particolare con cui amava definirsi: sofisticata. Era perfetto per lei, anzi, qualche volta credeva che quella parola fosse nata proprio in suo onore. Innanzi tutto perché la radice era uguale al suo soprannome, Sofi. E perché guardandosi allo specchio, non sapeva definirsi altrimenti. Elegante, raffinata, all’ultima moda, sempre pronta per un servizio fotografico da prima copertina, con i capelli freschi di parrucchiere e il trucco “c’è ma non si vede” che la valorizzava al massimo.  L’unico suo difetto consisteva nel fatto che era consapevole della sua sofisticatezza. E per questo, talvolta, tendeva ad essere un pochino snob. Per la verità, era insopportabile. Era tanto perfetta esteticamente quanto fredda, distaccata, vanitosa e arrogante, e fu proprio questo che pensarono i passanti quel caldo pomeriggio di settembre vedendola davanti all’ Antica Villa. Quello che pensò Sofia, invece, fu che avrebbe preferito impiccarsi con l’edera che ricopriva il cancello arrugginito piuttosto che trasferirsi in quel paesino dimenticato da Dio. Lei veniva da Milano, la bella, moderna, ricca, centro Milano, dove frequentava una costosissima scuola privata e faceva shopping tutti i pomeriggi con le amiche. Sarebbe già stato un miracolo se in quel posto ci fosse stato un supermercato, figurarsi un negozio di vestiti. Ma non doveva lasciarsi prendere dal panico, giusto? Aveva sedici anni. Solo due anni e l’immensa eredità dei suoi defunti genitori sarebbe stata sua. Allora sarebbe potuta scappare da quel posto, tornare a Milano, o andare a New York, chissà… Ma intanto, doveva cercare di sopravvivere. Ne aveva lette di storie, dove ragazze ricche e raffinate come lei si trasferivano in campagna e nel giro di qualche settimana iniziavano a indossare orribili camice e pantaloni larghi per andare a raccogliere i pomodori. No Sofia, si disse. Tu resterai Sofia Sveva Francesca Lopez de Santis, amante dello shopping ed ereditiera più sofisticata di Milano. Un po’ rassicurata, si decise a suonare il campanello. Per poco non cadde a terra dallo spavento. Un rumore assordante si era levato non appena aveva premuto il pulsante, come di mille mucche impazzite che sgroppano e agitano la testa. “Arrivo, cara!” Una voce squillante si udì non appena cessò quell’ inferno di rumore, e poco dopo un turbinio di capelli rossi, farina e grembiule da cucina a quadri, che probabilmente era sua zia Francesca, le si gettò addosso con gioia. “La mia Sofia! Com’è diventata splendida! Sei tutta tua madre, cara. Vieni, vieni dentro. E anche lei… Signore, sta bene?”. L’uomo dietro Sofia sembrava sul punto di avere un infarto. Rosso in faccia, col respiro ansimante, reggeva due enormi borse sulla schiena, e altrettante nelle mani. Al collo ne aveva appesa un’altra, e vicino a lui c’erano  due trolley che avrebbero potuto contenere una mucca ciascuno. “Posi subito le valigie, signore, o rischierà un infarto!” gli disse la donna, e lo aiutò a liberarsi del peso. Poi guardò Sofia con aria di rimprovero, ed esclamò: “Ma Sofia! Ti sei portata dietro la casa? Dove la metteremo tutta questa roba?”. Senza aspettare risposta, afferrò i due trolley e si diresse verso la porta. “Cara, prendi le altre borse, e non far portar nulla al signore, non vorrei che ci rimanesse secco.” La ragazza rimase impalata, senza avere ancora aperto bocca, travolta da quel ciclone dai capelli spettinati che le aveva ordinato di portare le sue valigie dentro casa. “Non ci penso neanche” mormorò tra i denti, e fece un cenno all’uomo, che si chiamava Ernesto ed era il suo autista, di seguirla. Percorsero il vialetto di ghiaia ombreggiato da altissimi pini, che formavano un enorme bosco ai lati del sentiero. La porta di casa era grande, di legno, e conferiva all’edificio un’aria austera, quasi minacciosa, che però svaniva non appena levato lo sguardo. Infatti la costruzione era come un ammasso pericolante di quadrati mal sovrapposti, alcuni leggermente inclinati e tutti di colori differenti, dal giallo acceso, al blu mare, al rosso, al verde scuro. Non appena varcò la soglia, fu investita da un odore di legna fresca, misto a torta al cioccolato e ad un profumo fortissimo di shampoo. Ernesto posò le valigie nel piccolo atrio, e si accasciò contro il muro ansimando. “Ma Sofia! Pover’uomo, è distrutto. Avresti dovuto portarli tu, i tuoi bagagli.” Sofia ignorò totalmente il rimprovero della zia, e le sorrise amabilmente. “Ciao zia” disse.

“Benvenuta nella tua nuova casa, cara. Spero ti troverai bene. Vieni, ti faccio vedere la tua stanza, che grazie a Dio è al primo piano.”

Sofia la seguì per uno stretto corridoio, trascinandosi dietro i bagagli che il povero Ernesto ormai non sarebbe più neanche riuscito a guardare.  La sua camera era circolare, e una parte di essa era costituita da una vetrata immensa che dava direttamente sul bosco. Sofia, suo malgrado, ammise che era davvero una stanza bellissima, nonostante l’arredamento rustico e semplice e l’armadio decisamente troppo piccolo per contenere tutti i suoi vestiti.  “Bene, ti lascio sola, tra un’ora mangiamo, così potrai conoscere tutti finalmente!” Detto questo, si smaterializzò da camera sua e chiuse la porta. Frastornata, Sofia si lasciò cadere sul letto a baldacchino, pensando che da quando era arrivata non era riuscita a spiaccicare più di due parole, ovvero quando la zia si era fermata a riprendere fiato. Almeno la casa era  grande, si disse cercando di sorridere e di non pensare che si trovava in un paesino che non esisteva quasi sulle carte geografiche e che non conosceva nessuno, a parte zia Francesca, di cui sapeva solo il nome e di cui sua madre le aveva parlato male fin da quando era bambina, definendo la sorella una “pazza sempliciotta con manie plebee e un look orrendo”. Non sapeva neanche se avesse dei figli, ma dal frastuono che aveva sentito non appena arrivata in casa, aveva dedotto che la zia teneva un allevamento di bambini. Ancora adesso, poteva sentire una musica rock sparata a palla, una televisione accesa e due voci, una maschile e una femminile, litigare, con sottofondo il canticchiare della zia che armeggiava con i fornelli. Addio calma e tranquillità, si disse. Altro che lo Zen e la pace interiore tanto amati da sua madre. Quella casa doveva essere un covo di matti. Ma evidentemente, solo questi matti l’avevano voluta, perché tutti i suoi ricchi e snob parenti che le facevano visita ogni tanto non ne avevano voluto sapere di lei appena ne aveva avuto bisogno. Era successo tutto talmente in fretta. Avevano dovuto trovarle una nuova casa, iscriverla ad una scuola, firmare tutte quelle carte, poi c’erano stati i funerali, e in quella tempesta di avvenimenti lei non aveva neanche avuto il tempo di fermarsi, di rendersi conto cosa stesse succedendo.

“E’ prontooooooo” urlò la zia con una voce possente, interrompendo i suoi pensieri, e al suo richiamo seguì una serie di rumori a catena: delle sedie si rovesciarono, una voce inveì in maniera poco ortodossa, qualcun altro gridò: “Due minuti!”. Sofia si alzò dal letto e si diresse verso la cucina, curiosa di conoscere la sua nuova famiglia. E anche abbastanza disperata, senza dubbio.  Fu la prima a sedersi a tavola, e dopo di lei arrivarono due gemelli, Marika e Luca, di dieci anni. Il maschio  si buttò senza tanti complimenti sul suo piatto, meritandosi così uno scappellotto della madre, mentre la ragazza guardò Sofia con occhi incantati. “Sembri la mia Barbie più bella” le disse poi.  “Mamma, per quanto resta qui Sofia?”  chiese poi a Francesca. “Viene a vivere con noi, ragazzi. E cercate di non farla scappare entro qualche giorno, per favore” rispose la donna, alzando gli occhi al cielo. “Sono due pesti”, aggiunse poi. “Questo odore terribile di shampoo e profumo è il risultato di una pozione magica che ha devastato il bagno.”  “Per forza mamma” commentò Luca. “Era la pozione distruttiva, e quindi ha funzionato, no?”  La donna sbuffò rassegnata e Sofia non riuscì a trattenere una risatina. In quell’istante entrò nella stanza un ragazzo a torso nudo, con un asciugamano legato in vita e i capelli neri ancora bagnati appiccicati alla fronte. Sofia rischiò di strozzarsi con un pezzo di carne, e l’unico pensiero di senso compiuto che riuscì a formulare fu: “Minchia santa!” Lei aveva un cugino del genere e nessuno glielo aveva mai detto?!  Il ragazzo si sedette davanti a lei con naturalezza, ma Francesca lo rimandò in camera sua a vestirsi: “Fabio! Non vorrai far scappare Sofia già il primo giorno. Vai a vestirsi, sciagurato.”  Scappare?! Ma quella donna non aveva avuto gli ormoni quando era giovane?

“Vado, vado Fra.” Si alzò svogliatamente e si diresse verso camera sua.

“Fra?” chiese Sofia.

“Sì, quel disgraziato non è mio figlio, grazie a Dio. Suo padre mi ha sposata dopo che la madre è morta.”

“Già, grazie a Dio…”

“Cosa scusa?”

“No, niente, cioè… Buona la carne” si affrettò a riparare, arrossendo. Perfetto. Non erano cugini. Sarebbero vissuti sotto lo stesso tetto. Tutto sommato, la faccenda del trasferimento si stava rivelando più piacevole del previsto.  E poi, lo dicono tutti che l’aria di montagna fa bene alla pelle.

Poco dopo Fabio tornò- vestito- e in compagnia del padre e di un ragazza, che doveva avere circa quindici anni. Appena la vide, l’ uomo le rivolse un ampio sorriso: “Sofia! Finalmente sei arrivata! Siamo così contenti che tu sia qui. Allora, come stai?”

“Bene, grazie.”

“Io sono Michele, e lei è Sara, mia figlia”, disse.

Sara le strinse la mano sorridendo, e poi si sedette. Era una ragazza carina, dai capelli neri e ricci e gli occhi verdi.

“Non posso credere che le vacanze siano già finite. Non ce la posso fare, sul serio. Penso che mi suiciderò, piuttosto che tornare a scuola domani” disse poi, sbuffando. 

“Finalmente!” esclamò Fabio.

“Stai zitto, idiota.”

“Basta ragazzi!”. Il grido di Francesca pose fine alla litigata.

“Allora Sofia, domani è il tuo primo giorno di scuola qui. Devi andare in terza liceo, giusto?” chiese Michele, servendosi le patate.

Sofia annuì.

“Come Fabio! Spero per te che non sarete in classe insieme” aggiunse Sara.

“Io invece devo andare in quinta elementare” si intromise Marika, impedendo a Fabio di controbattere.  “E ho fatto tutti i compiti” disse, fiera.

“Ma che brava” disse Fabio alzando gli occhi al cielo. Marika lo guardò male, e poi si rivolse alla mamma: “Invece, ho sentito Fabio dire a un suo amico che non li aveva finiti.”

“Fatti i fatti tuoi” mugugnò Luca mentre addentava un pezzo di pane.

“Ragazzi, adesso smettetela davvero!” urlò nuovamente Francesca, rivolgendo uno sguardo di scuse a Sofia.

“Cos’hai fatto quest’estate, Sofia?” chiese Marika.

Tutti la fulminarono con lo sguardo. Avevano messo bene in chiaro che nessuno avrebbe dovuto nominare l’estate o i genitori o la vecchia vita di Sofia. Tuttavia la ragazza rispose tranquillamente: “Sono stata in Sardegna con dei miei amici, poi siamo andati a Capri con la barca e a metà agosto sarei dovuta andare a Londra, ma i miei genitori sono morti in un incidente d’auto qualche giorno prima di partire.” Aveva mantenuto la calma dicendolo, ma in realtà dentro stava tremando.

“Deve essere stato terribile” replicò Marika.

“ Ho avuto momenti migliori” rispose Sofia.

“Noi invece abbiamo girato la Francia” disse Sara, per cambiare argomento.

“Già, e papà ha avuto un incontro ravvicinato con un gigantesco toro, perché non lo racconti a Sofia?” aggiunse Fabio sogghignando.

Francesca scoppiò a ridere, seguita da Marika e da Sara. “Era andato ad aprire il cancello della fattoria dove avevamo affittato una camera, ed è corso indietro urlando: “Aiuto! C’è un toro davanti al cancello!” Allora Fabio è andato a  vedere e ha trovato un vitellino che dormiva.”

“Non smetteremo mai di prenderlo in giro” continuò Francesca.

Michele sbuffò con aria risentita, ma poi aggiunse con un sorriso malizioso: “Vogliamo parlare del bosco dei maniaci?” Questa volta fu Francesca l’unica a non ridere, e Fabio raccontò a Sofia: “Avevamo affittato le bici per fare un giro nella foresta, e Francesca era rimasta un po’ indietro. A un certo punto, all’inizio del bosco, c’erano delle salite ripidissime. Abbiamo rallentato tutti, e ci siamo visti passare di fianco lei, veloce come un razzo. Alla fine del bosco l’abbiamo ritrovata, stesa sul prato col fiato corto. La prima cosa che ci ha detto è stata: “Quanto vorrei essere una mucca...” e quando noi le abbiamo chiesto perché fosse partita a duecento allora sulle salite lei ha risposto con aria terrorizzata: “Ci sono i maniaci nel bosco!”.  A quel punto nessuno di noi stava più in piedi dal ridere.”

Sofia guardò Francesca divertita, e la donna replicò, offesa: “Al giorno d’oggi c’è tanta gente malintenzionata in giro. E per quanto riguarda la mucca, pensateci: fanno unna vita eccezionale. Mangiano, dormono, brucano…”

“Finché qualcuno non mangia loro” precisò Fabio.

Francesca guardò l’ora: tra una cosa e l’altra si erano fatte le undici.   “Tutti a letto!” ordinò. “Domani vi voglio belli pimpanti per il primo giorno di scuola!”



 
  
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