Kage
“Il Paradiso lo
preferisco per il clima, l’Inferno per la compagnia.”
(Oscar Wilde)
Un alito di vento appena
percettibile smuoveva l'atmosfera di calma piatta che andava pian piano affermandosi.
Entrava dai finestrini abbassati della macchina e faceva ondeggiare appena i
capelli neri poggiati sul capo dei due uomini. Era notte fonda. Una notte senza
luna, ma ricca di stelle. Lontano dallo smog della città, in piena campagna,
quei puntini rilucenti erano allora più visibili che mai. Eppure nessuno dei
due uomini ci faceva caso. Poggiavano entrambi stancamente la testa sullo
schienale del sedile, e a tratti socchiudevano gli occhi, aspirando con avidità
il fumo dello loro sigarette. La loro apparente tranquillità voleva nascondere
il fatto di essere allo stremo. Era stata una giornata dura, conclusasi con una
serata dominata da un'azione difficile e pericolosa. E, quella volta, non ne
erano usciti illesi.
L'uomo con gli occhiali da sole a tratti gemeva. Era grande e grosso, ma
sembrava sul punto di piagnucolare come un bambino. Era stato ferito a un
braccio, una pallottola l'aveva preso in pieno, trapassandolo da parte a parte.
Perdeva molto sangue. Aveva strappato parte della camicia, cercando di fasciare
alla meno peggio la ferita. Aveva caldo, si tolse la giacca. Non appena lo
fece, sentì un brivido di freddo attraversargli il corpo come una scossa e
scuoterlo come una foglia al vento. Tremò. L'altro, l'uomo biondo che fumava
accanto a lui, non ci fece caso. Aveva ben altro a cui pensare. Non aveva
riportato alcuna ferita, perché quel semplice taglio sul viso e quella
bruciatura sulla gamba provocata da un proiettile che l'aveva preso di striscio
non potevano di certo definirsi tali. Sembrava assorto nei suoi pensieri. O,
forse, non stava pensando a nulla. Forse Gin stava semplicemente fumando.
L'uomo con gli occhiali emise di nuovo un gemito.
"Piantala. Mia nonna avrebbe più resistenza di te."
Turbato da quel commento acido profuso dalle labbra del suo capo, l'uomo con
gli occhiali si morse l'interno della guancia, poi la lingua. Strinse gli
occhi. Doveva dimostrarsi forte, il suo compare, al posto suo, non si sarebbe
di certo lamentato. Eppure quel buco sul braccio bruciava. Bruciava da morire.
Chiuse appena gli occhi, nel tentativo di trascurare il fatto che la vista si
stava pian piano annebbiando. Stava perdendo sangue, forse troppo. Maledizione.
Perché Vermouth non arrivava?
Ripercorse velocemente gli avvenimenti di quella sera. Il piano studiato nei
minimi dettagli, l'imboscata della polizia, la sparatoria, la fuga, l'ordine di
attendere Vermouth lì, vicino a quella fattoria abbandonata in piena campagna.
Incredibile, in pochi secondi aveva rivisto mentalmente gli avvenimenti di ore
intere. Aveva risentito tutte le emozioni provate, una ad una. La mente umana
aveva l'incredibile dono del pensare rapidamente. Anche se, come non mancava
mai di fargli notare il suo capo, a lui quel dono non era stato concesso del
tutto. Riusciva ad elaborare velocemente i ricordi, a rivivere le emozioni, ma
quando si trattava di prendere una decisione importante nell'arco di pochi
secondi, quando si trattava di avere i riflessi pronti, allora stentava. E
questo suo difettaccio gli era costato quella dannata ferita al braccio.
Con immane sforzo sollevò il braccio e si sfilò gli occhiali da sole. Era notte
e, per di più, non c'era la luna. Quegli occhiali risultavano solo un fastidio.
"Che hai, Vodka?" gli chiese l'uomo biondo accanto a lui, colpito da
quel suo gesto inusuale. Le lenti degli occhiali avevano fino a quel momento
coperto due occhi stanchi e due occhiaie scure. I lineamenti marcati e la
mandibola squadrata, gli zigomi appena sporgenti. Non c'erano rughe su quel
viso, ma i tratti ne evidenziavano la gioventù ormai sfiorita. Gin lo osservò
appena. Non sapeva nemmeno quanti anni avesse. Nell'Organizzazione non si
sapeva niente di nessuno. Erano tante ombre al servizio del Diavolo e tali
dovevano rimanere. Non avevano un nome, se non quello in codice. Non avevano
età, se non quella di appartenenza all'Organizzazione. Non avevano vita
all'infuori di quella criminale, si muovevano nel buio come se fosse stato il
loro habitat naturale. Avevano un volto, sì, ma era come se non ce l'avessero.
Molti di loro, forse, non avrebbero nemmeno voluto averlo. Essere in possesso
di un volto vuol dire avere tratti che ti distinguono, che ti rendono
riconoscibile. E loro non volevano essere riconosciuti da Dio al momento del
Giudizio.
"Ti ho fatto una domanda. Avvertimi quando ti degnerai di
rispondere."
Ah già, Gin gli aveva chiesto qualcosa. In quello stato di torpore misto a
dolore in cui stava pian piano sprofondando, non aveva nemmeno ascoltato.
Preferì quindi mantenersi sul vago.
"Niente, capo, niente."
Pensava che Gin non avrebbe più risposto. Invece, la voce fredda del suo capo
lo sorprese. Questa volta aveva un che di ironico.
"E' gentile da parte tua. Risparmiarmi le tue lamentele.. davvero un bel
pensiero. Tuttavia.." , e lasciò la frase in sospeso, gettando la cicca
ormai consumata fuori dal finestrino, "ho finito la mia sigaretta, e non
dormo da tre notti. Ho bisogno di qualche distrazione per assicurarmi di
rimanere sveglio."
Era il suo modo contorto per dirgli di continuare a parlare. Di per sé, Vodka
non sapeva che dire. Lamentarsi? No di certo. Parlare di qualsiasi altro
argomento? Gin avrebbe trovato sempre una battuta sarcastica e sprezzante da
rifilargli. Forse l'unico argomento accettabile era il lavoro. Ma erano giorni
che parlavano di lavoro. Vodka non ne poteva più di parlare e sentir parlare di
lavoro. Ma, in fondo, loro non erano semplicemente lavoro? Venivano valutati e
considerati in base a quanto lavoro svolgevano. Venivano puniti se svolgevano
male il loro lavoro. Sì, era la verità: loro erano ombre che dovevano fare il
loro lavoro. E basta.
"Sai, Vodka, sei un tipo strano. Quando non ho voglia di sentir parlare
nessuno, diventi estremamente loquace. Quando ti chiedo di parlare, ti
ammutolisci come un pesce. Incomincerò a pensare che il tuo scopo è
semplicemente quello di farmi un dispetto."
"Niente affatto, capo. Ma questa ferita dà un tremendo fastidio."
"Non ti ho chiesto di lamentarti. Quello lo fai già abbastanza."
Ecco, lo sapeva. Aveva voglia di chiudere gli occhi e abbandonarsi su quel sedile.
Eppure, allo stesso tempo, aveva paura di non riuscire ad aprirli più.
"Non morirai per quella ferita, Vodka. Sta tranquillo."
Gin sembrava avergli letto nel pensiero. Come faceva a capire sempre tutto?
Quale razza di potere aveva? Era sempre distaccato, tranquillo anche nelle
missioni più difficili. Era reattivo, determinato. Era perfetto per il suo
ruolo. Chissà se aveva mai provato il brivido della paura.
"Capo.. hai mai pensato a cosa siamo noi?"
"Stai delirando, Vodka?"
"Stavo provando a pensare."
"Non è una cosa che ti riesce bene neanche nel pieno delle tue forze.
Meglio se non ti sforzi di farlo ora che sei ferito. Il risultato sarebbe
qualcosa di poco interessante."
"Però, capo, non hai risposto alla mia domanda."
Non sapeva nemmeno lui come osasse rivolgersi al suo capo in quella maniera
così.. sfrontata. Forse la ferita e il sangue perso gli avevano davvero dato
alla testa.
"L'hai detto tu stesso il perché non ho risposto. Mi hai chiamato
"capo". Il capo è libero di non rispondere quando non vuole
farlo."
"E perché non vuoi?"
"Hai una sigaretta?"
"Le ho finite."
Gin sbuffò. Evidentemente, non era intenzionato a rispondere alla domanda.
"Capo."
"Che vuoi?"
"Non hai mai paura dell'Inferno?"
"Ti ho già detto che non morirai per quella ferita."
Vodka respirò a fondo, prima di controbattere. Ora aveva di nuovo caldo, ma era
una sensazione piacevole. Se la provava, voleva dire che era vivo.
"Parlavo in generale. Prima o poi moriremo tutti."
"Hai paura dell'Inferno, Vodka?" si girò a guardarlo con aria
beffarda. "Ci sei già dentro."
L'uomo grosso rimase in silenzio, cercando di riflettere sul significato di
quelle parole. Ma il suo cervello era troppo stanco per arrovellarsi.
"Il tuo momento filosofico si è concluso?"
Vodka non rispose. Nessuno dei due parlo più. L'alito di vento si era ora del
tutto placato. Silenzio assoluto. Qualche cicala a tratti infastidiva le loro
orecchie, ma si zittiva subito, come spaventata di disturbare quei due uomini
dentro alla vecchia Porsche nera.
Poi, all'improvviso, il rombo di una moto, che si avvicinava a fari spenti. Una
chioma fluente e dorata, ben visibile anche solo sotto la luce delle stelle.
Era Vermouth, non c'era dubbio. La donna fece ai due un cenno, come a dire:
seguitemi. Gin mise in moto. Accanto a lui, Vodka doveva essersi addormentato.
O forse svenuto. Non gli importava, dal respiro capiva che era ancora vivo.
Meglio così, ora non aveva più voglia di sentir parlare. La mancanza di sonno
l'aveva fatto diventare lunatico.
Avanzò piano, seguendo la moto. Odiava dover sottostare alle direttive di
quella donna. Ma il capo doveva aver riferito a lei gli ordini e non aveva
quindi altra scelta che passare in secondo piano, almeno per quella volta.
Non sapeva in che direzione si stessero incamminando, se verso Est, Ovest, Nord
o Sud. Una sola cose era sicura: puntavano dritti verso il fondo dell'Inferno.
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Un grande
ringraziamento a tutti coloro che si sono fermati a leggere questa shot!
Il titolo,
“Kage”, è una parola giapponese e si può tradurre con
l’italiano ombra. Se vi interessa la
pronuncia corretta, la si può trovare su Google Traduttore.
Un bacione,
Flami